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Deus absconditus, anno 87, n. 4, Ottobre-Dicembre 1996, pp. 29-34.

 

Madre M. Pia Tei osb ap Priora di Ghiffa *

L’ideale benedettino-mectildiano: il suo concreto dispiegarsi nella vita della monaca

Abbiamo desiderato celebrare in modo un po’ nuovo il 90° anniversario della venuta a Ghiffa della nostra serva di Dio, madre Caterina Lavizzari con la comunità delle nostre Madri che si erano stabilite dal 1880 a Seregno.

Questo anniversario ci è sembrato un’occasione propizia e preziosa per far conoscere soprattutto agli abitanti di questo pezzetto di terra i valori impressi nella storia di questi 90 anni, piccolo tratto di storia e di vita inscritto nel più che millenario ordine di san Benedetto su cui è «spuntato», come ramo sul tronco, l’Istituto fondato da madre Mectilde de Bar nel 1653. Valori che sono stati vissuti con fedeltà e con eroismo dalle Madri che ci hanno preceduto.

In questa breve esposizione non potrò, per ovvi motivi, presentare in modo completo i valori e i contenuti della Regola di san Benedetto e il particolare carisma delle Benedettine dell’Adorazione Perpetua. Ne farò solo un accenno, per cercare successivamente di spiegarvi come OGGI questa comunità monastica vive, o meglio, come si sforza di vivere il suo carisma specifico.

La spiritualità benedettina e quella mectildiana si fondono in un unico ideale: la spiritualità mectildiana si inserisce mirabilmente nel quadro della spiritualità benedettina: nel primato della ricerca di Dio sopra ogni altra cosa, nella sequela Christi, per vivere integralmente il mistero pasquale di Cristo, nell’assimilarsi a Cristo, facendo in tutto la volontà di Dio nell’obbedienza umile e generosa.

1. I valori fondamentali della vita benedettina e l’intuizione di madre Mectilde de Bar

I valori che i figli e le figlie di san Benedetto hanno da sempre custodito con particolare cura lungo tutta la storia dell’ordine, che sono propri della Chiesa e fonte di autentica santità e di civiltà cristiana possono essere individuati in questa triade:

a) preghiera

b) lavoro

c) ascolto-obbedienza.

Essi costituiscono l’ossatura della vita monastica: viverli significa attuare lo scopo principale del monaco: il quaerere Deum, cercare Dio, unico requisito richiesto al novizio che bussa alla porta del monastero. Ciò che fa il monaco, ciò che lo rende tale è il suo vivere per Dio, l’essere UNO con Dio.

a) preghiera

San Benedetto vuole che la vita dei suoi monaci sia tutta orientata alla glorificazione di Dio mediante l’ufficio divino al punto da affermare la necessità di «nulla preferire all’opera di Dio».

Questa opera – afferma madre Mectilde – «è il principale culto esteriore che noi offriamo al ss. Sacramento». La liturgia che occupa gran parte della nostra giornata, penetra con la sua influenza tutta la vita della monaca; ritma la sua giornata, centrata sull’azione liturgica per eccellenza: la celebrazione del Mistero Eucaristico.

Così, madre Mectilde, benedettina fino in fondo, ordina il suo (e nostro) Istituto alla glorificazione di Dio nel Mistero della sua presenza — così umile e così grande — nel Pane Eucaristico. La Comunità monastica, le singole monache, rispondono a questa particolare vocazione mediante l’assiduità della loro presenza davanti al SS. Sacramento. Per grazia del Signore, per suo puro dono, l’Eucaristia è adorata ininterrottamente in questo monastero da 90 anni, giorno e notte. La presenza davanti al SS. Sacramento è, dopo l’Ufficio Divino (cioè la Liturgia delle ore) nostro dovere essenziale.

Ma c’è un altro aspetto che caratterizza il nostro carisma: quello della riparazione. È una dimensione che fa parte del mistero di salvezza di Cristo. È Lui l’unico e il vero Riparatore. E noi?

Per Lui, con Lui e in Lui, le monache offrono la loro vita in unione alla vittima vivente, santa, l’unica gradita a Dio. È questo il vero «culto» che Dio attende da loro.

Madre Mectilde considera soprattutto la kénosis, l’abbassamento, o meglio lo «svuotamento», la kénosis eucaristica di Cristo. Per lei l’eucaristia è principalmente il sacramento dell’offerta sacrificale di Cristo per la salvezza dell’uomo. Ed è in questa prospettiva che si comprende cosa significhi l’espressione «offrirsi vittima con Cristo», che qualifica la vocazione riparatrice delle Benedettine del SS. Sacramento.

«Riparare» significa offrirsi con Cristo al Padre, inserirsi nella sua offerta per la salvezza dei fratelli. Il senso di tutta la nostra ascesi è la fedele partecipazione a Cristo nel Mistero Eucaristico, in questo suo donarsi e quasi «scomparire», annientarsi nelle specie eucaristiche, fino a far propri i suoi sentimenti, il suo desiderio che tutti gli uomini siano salvi (Cf. 1 Tm 2,4).

La monaca che in mezzo al coro, dove arde il cero, passa adorando le ore del giorno e della notte, desidera e chiede di partecipare all’offerta del Cristo, vivendo con Lui in adesione totale al suo volere, in un incessante inno di lode e di ringraziamento per la sua presenza in questo Sacramento.

Vivendo in profonda intimità con il Signore, la monaca non vive però in maniera intimistica e chiusa. Evagrio Pontico ha coniato questa bella e nota espressione: «II monaco è colui che è separato da tutti per essere più unito a tutti». Il contatto prolungato e assiduo con il sacramento dell’amore la apre ad accogliere nel suo cuore e nella sua preghiera tutta l’umanità.

Apro qui una breve parentesi. La fisionomia della comunità di oggi è molto cambiata rispetto a 90 anni fa. Un tempo esisteva fra le monache, la «categoria», o meglio la classe delle cosiddette «oblate», le quali non erano vincolate dall’obbligo della clausura. Oltre ad uscire dal monastero per le necessità della comunità, erano impegnate in diverse attività presso gli abitanti della zona: curavano e assistevano gli ammalati, visitavano le famiglie in difficoltà, svolgevano un apostolato discreto e fecondo.

La Chiesa oggi ha disposto che vi sia una sola categoria di monache, tutte vincolate alla clausura. Sono rimaste, ovviamente, le oblate che già esistevano. La comunità monastica può sembrare allora essersi fatta più lontana dalla gente di Ghiffa. Non è così. La comunità continua ad essere vicina agli abitanti di questa terra dove è inserita. Lo fa con la sua preghiera, in modo forse meno evidente ma non per questo meno sentito e meno partecipato.

Ed è proprio il contatto assiduo con Gesù Eucaristia a mantenerci aperte ai bisogni della Chiesa e del mondo. Lo ha ricordato anche recentemente il Papa, in una lettera inviata il maggio scorso al vescovo di Liegi in occasione del 750° anniversario dell’istituzione della festa del Corpus Domini. Ve ne propongo qualche espressione. Il Papa tra l’altro non si riferisce alle monache, ma ai semplici fedeli cristiani:

«La vicinanza a Cristo, nel silenzio della contemplazione, non ci allontana dai nostri contemporanei ma, al contrario, ci rende attenti e aperti alle gioie e alle miserie degli uomini e dilata il cuore alle dimensioni del mondo. Essa ci rende solidali con i nostri fratelli in umanità (...)».

«Con l’adorazione, il cristiano contribuisce misteriosamente alla trasformazione radicale del mondo e alla germinazione del Vangelo. Ogni persona che prega il Salvatore trascina dietro a sé il mondo intero e lo eleva verso Dio.

Coloro che stanno davanti al Signore compiono perciò un servizio grandissimo:

Presentano al Cristo tutti quelli che non lo conoscono o che sono lontani da Lui; vegliano davanti a Lui, a nome loro».

Ecco cosa significa portare lo «stato» del Cristo Eucaristico, della sua kénosis, come si diceva prima.

«(...) La contemplazione prolunga la comunione e permette di incontrare durevolmente Cristo, vero Dio e vero uomo, di lasciarsi guardare da Lui e di fare l’esperienza della sua presenza. Quando lo contempliamo presente nel SS. Sacramento dell’altare, Cristo si fa vicino a noi e più intimo a noi di noi stessi, ci fa partecipare alla sua vita divina in un’unione trasformante e per mezzo dello Spirito ci apre l’accesso al Padre».

b) lavoro

Preghiera e lavoro, nel loro equilibrato e armonico alternarsi, scandiscono la giornata della monaca. Attraverso il lavoro ciascuna partecipa all’attività creatrice di Dio e all’opera redentrice di Cristo.

Nella fatica, vissuta con e per amore e offerta nella preghiera, la monaca si rende solidale con tutti i suoi fratelli; attraverso l’ascesi del lavoro, con la rinunzia a sé, aumenta la capacità di donarsi a Dio e alle sorelle.

Pur rivestendo una considerevole importanza, il lavoro in monastero non è mai guidato dalla logica del profitto e della produttività fine a se stessa, ma è anzitutto servizio sereno, compiuto nella gioia, è risposta ai bisogni della comunità e del mondo, è «consegna» libera delle proprie facoltà, delle proprie energie e dei propri talenti, dono di Dio, in spirito di condivisione e di collaborazione.

San Benedetto nella Regola afferma: «proprio allora sono veri monaci, quando vivono del lavoro delle loro mani» (cap. 48).

Tutto si svolge, come raccomanda san Benedetto «entro il recinto del monastero», con la stessa dignità con cui si serve il Signore durante la preghiera in coro. Nessun momento della giornata infatti è escluso da quella continua sacra liturgia che la monaca è chiamata a celebrare attraverso ogni sua azione.

Madre Mectilde insegna alle sue figlie a trasformare tutta la vita in un’offerta. Lavorare pregando: il lavoro fatto bene con tutta l’attenzione richiesta, diventa così una vera preghiera. In tal modo la preghiera diventa continua, tutto è adorazione e così la nostra adorazione può essere davvero perpetua senza che si interrompa mai.

È evidente che tale stato d’animo si conserva e si sviluppa mediante il silenzio e l’umiltà: due aspetti essenziali nella Regola di san Benedetto.

c) ascolto - obbedienza

Un breve accenno anche a questa dimensione fondamentale della vita del monaco perché costituisce il «clima» nel quale si svolge tutta la sua vita.

La Regola di san Benedetto si apre con le parole: «Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del Maestro, tendi l’orecchio del tuo cuore e accogli con gioia le direttive del padre tuo». L’atteggiamento di umile ascolto di fronte al Dio misericordioso che per mezzo del suo inviato chiama ed esorta, è l’inizio indispensabile ed insostituibile dell’itinerario di salvezza, un itinerario che porterà l’uomo all’amicizia con Dio, alla vita con Lui, ad abitare nel suo «tabernacolo».

All’ascolto è intimamente connessa l’obbedienza. L’ascolto è come l’aurora che precede il sorgere del sole, è la radice attraverso cui l’albero dell’obbedienza trae l’humus, la linfa, perché sia carico di frutti, di ogni opera buona.

L’obbedienza monastica è un atteggiamento di fede, di speranza e di amore puro verso Dio, fatto per e con il Cristo e vissuto nello Spirito Santo. Inizia con un atto di sottomissione a un uomo (il Maestro) e diventa un atto reso a Dio stesso e alla sua Parola.

L’intima unione con Dio si alimenta anche grazie alla lectio divina, una lettura pregata della Parola di Dio, in cui il cuore, illuminato dalla fede, si accosta alla fonte perenne della Parola, alimento che nutre la monaca per tutta la giornata.

La clausura, la stabilità nel Monastero sono di grande aiuto e favoriscono la stabilità spirituale permettendo di vivere una maggiore libertà interiore e di rispondere più autenticamente all’invito di Gesù: «Vieni nel deserto...».

Mi è sembrato opportuno sottolineare l’aspetto della fecondità della vita monastica. Spesso la vita religiosa, specie se contemplativa e vissuta in clausura, è considerata una vita «speciale», fuori del comune, se non addirittura strana e inutile.

Chi fa una scelta di vita consacrata, dietro la quale c’è sempre – non bisogna dimenticarlo – una particolare chiamata di Dio, segue la logica dell’amore, che è quella di non conoscere misura, di dare tutto, di «esalarsi in pura perdita davanti a Dio», come ha affermato Charles de Foucauld.

C’è tanta gente che oppone a questa la «logica del buonsenso», del risparmiarsi. Una logica soltanto umana infatti, non permette di capire il «perché» di una vita «sprecata». Ma paradossalmente è proprio lo «spreco» a dare la misura dell’amore.

Restare nel silenzio, offrire mente, cuore e vita, è donare la vita a figli che non conoscerai quaggiù, ma che generi per la vita eterna, in una fecondità misteriosa ma altamente e spiritualmente vera.

2. L’ospitalità monastica: accogliere Cristo e condividere la perla preziosa

Nella sua Regola, san Benedetto prevede che il Monastero abbia una foresteria, cioè un luogo in cui l’ospite sia accolto come Cristo, e possa condividere il clima di silenzio e di preghiera.

La foresteria è aperta tutto l’anno per accogliere coloro che desiderano incontrare Dio in un adeguato clima di silenzio, di pace e di raccoglimento, non sempre facile da trovare soprattutto nelle grandi città.

Il monastero diventa perciò una specie di «cuore aperto» in cui ognuno può attingere non solo le ricchezze del mistero di Dio attraverso la partecipazione alla preghiera della comunità, ma anche un’autentica testimonianza di solidarietà umana attraverso l’ascolto, l’aiuto, la comprensione che sanno infondere speranza e forza.

Anche se concretamente il servizio agli ospiti è svolto solo da alcune monache, tutta la comunità è impegnata, con il silenzio e la preghiera, in questo «ministero dell’accoglienza», nella consapevolezza che la vera ospitalità consiste nel creare quel clima di serenità, di comunione e di carità che varca la clausura e rende quasi palpabile la presenza di Dio per l’ospite.

3. Cuore aperto... porta sull’infinito

E così, ci piace pensare questo nostro monastero come la CASA DI DIO, in cui Egli si rende presente per essere incontrato da chi vi giunge.

 

Ma è anche CENTRO DI IRRADIAZIONE della sua grazia: la comunità monastica, alla presenza di Dio, stringe in un abbraccio orante tutta l’umanità e la porta con sé, verso Dio.

Ed è, infine, LUOGO PROFETICO, lampada che brilla in un luogo oscuro, il luogo del rifiuto e dell’assenza di Dio, per indicare ad ogni uomo il destino di speranza a cui l’amore di Dio, in Cristo, ci ha chiamati: quei cieli nuovi e quella terra nuova che gli occhi della fede già contemplano nel Pane Eucaristico.

Certo, la comunità monastica di oggi è molto diversa da quella di ieri. Lo stesso Monastero non è più la «catapecchia» che le nostre Madri dovettero ristrutturare con fatica e sacrificio. Ma le monache di oggi intendono porsi in continuità con la tradizione che da 90 anni tiene in vita questa casa e che, come un fiume, è stata arricchita dal sacrificio e dalla fedeltà di tante Madri e sorelle che ci hanno preceduto. Molte cose sono cambiate. Ma i valori su cui la comunità di oggi cerca di camminare, vogliono essere gli stessi.

Il Signore voglia concederci di camminare in costante e rinnovata fedeltà.

 



* Testimonianza resa il 22 ottobre 1996 presso la foresteria del monastero.