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Deus Absconditus, anno 95, n. 1, Gennaio-Marzo 2004, pp. 45-52
Elena Pistochini*
Abramo: uomo «mectildiano»
Introduzione
Questa riflessione è nata da un felice e provvidenziale incontro tra la Parola di Dio e la parola di madre Mectilde. Mentre da alcuni giorni leggevo e meditavo il capitolo XI del «Vero Spirito», ecco che la liturgia di un giorno feriale propose la lettura di un brano della lettera agli Ebrei (Eb 11,8-19) che citava l’episodio del sacrificio di Isacco narrato nel libro della Genesi (Gen 22,1-14). Avendo ben presente quel testo, perché trattato in maniera particolarmente approfondita e brillante dal docente di un corso di teologia che avevo frequentato, non mi fu difficile un collegamento tra i 10 punti che la Madre Fondatrice indica nell’ultimo paragrafo del capitolo XI del Vero Spirito e ciò che visse Abramo. Ne è risultata una perfetta corrispondenza.
Presenterò innanzi tutto il testo di Genesi, quindi la parola di madre Mectilde e infine, riprendendo i 10 punti uno alla volta, proporrò la mia riflessione circa i collegamenti fra i due testi.
Vorrei precisare che si tratta di una semplice meditazione, senza la pretesa di essere una trattazione esaustiva, né tanto meno sistematica, ma soltanto una riflessione partita da questa domanda: si può affermare che Abramo sia stato il primo figlio del SS. Sacramento? Forse sarebbe eccessivamente ardito, ma resta vero il fatto che nella sua vita egli ha realizzato quello «stato di morte« che la Madre Fondatrice indica per essere vere vittime, e quindi ha saputo riprodurre in sé la vita dell’Ostia circa 2000 anni prima di Cristo e 3600 anni prima della Madre Fondatrice (quindi noi non abbiamo scuse!).
Ciò che credo si possa affermare, comunque, è che Abramo, oltre ad essere nostro padre nella fede è per noi, monache benedettine del SS. Sacramento, anche padre nell’annientamento.
Il sacrificio di Isacco: il testo di Genesi 22,1-19
Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!«. Rispose: «Eccomi». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi servi: «Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi». Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: «Padre mio! ». Rispose: «Eccomi, figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». Abramo rispose: «Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!». Proseguirono tutti e due insieme, così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo: «Il Signore provvede». Perciò oggi si dice: «Sul monte il Signore provvede». Poi l’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Poi Abramo tornò dai suoi servi: insieme si misero in cammino verso Bersabea e Abramo abitò a Bersabea.
Il testo di madre Mectilde: «Il vero spirito», cap. XI (ultimo paragrafo)
Bisognerebbe ridurre un simile stato (la morte a se stessi, ndr) ad una pratica semplice, in modo da rendere facile all’anima il mantenervisi in continuazione. […] Da parte mia mi accontenterò di dire che dovete fare un frequente uso del raccoglimento, coltivando non solo il silenzio dell’io interiore, ma anche di quello dello spirito:
1) il silenzio con voi stesse e con le creature;
2) abbandono di tutti i vostri interessi a Gesù Cristo, rimettendovi per tutto ciò che vi riguarda alla sua amabile Provvidenza;
3) pratica esatta di tutte le osservanze;
4) non fare mai nulla di vostra iniziativa;
5) non appoggiatevi mai né in voi stesse, né negli altri, se non c’è di mezzo la gloria di Dio. Questo punto è delicato perché gli interessi naturali sovente si nascondono sotto l’apparenza di interessi di Dio;
6) tenete il vostro spirito libero da ogni essere creato, tranne il caso in cui la carità verso il prossimo, o l’obbedienza, ve ne facciano obbligo, e questo per poter assolvere meglio i vostri doveri;
7) conservate la pace, senza mai preoccuparvi di nessuna cosa, che possa anche minimamente turbare il vostro intimo;
8) amate teneramente tutte le occasioni di sacrificarvi a Nostro Signore, amate tutte le croci e contraddizioni permesse dalla Provvidenza! Non giustificatevi, a meno che ne siate costretta; morite sempre con nostro Signore Gesù Cristo;
9) siate molto semplice quando coloro che Dio ha posto a guida della vostra condotta, vi chiedono lo stato della vostra anima, le vostre pene, ecc.;
10) i vostri sensi sono ancora vivi, non per grazia di Dio di una vita che li porta a peccare, ma della loro vita propria: non so se mi comprendete.
I DUE TESTI A CONFRONTO
Risulta evidente come il comportamento di Abramo aderisca a quanto madre Mectilde suggerisce alle sue figlie per poter morire a loro stesse. Lo si può verificare rileggendo il brano della Genesi alla luce dei 10 punti indicati dalla Madre.
1) Il silenzio di Abramo. Non si dice che egli disse o pensò qualcosa tra sé, quando Dio gli diede l’ordine di immolare il figlio. Non ribatte nulla a questo comando, ma risponde al comando con l’obbedienza fattiva. Inoltre, Abramo mantiene il silenzio per tutti i tre lunghi giorni di viaggio verso il monte. Si potrebbe quasi affermare che, oltre a mantenere il silenzio, egli mantenne anche il raccoglimento, perché il testo recita: «Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo». Alzò gli occhi: il tipico atteggiamento di chi è raccolto è quello di tenere gli occhi bassi (dice anche umiltà, sottomissione). In questo racconto veramente drammatico, soprattutto per lui che porta da solo tutto il peso di questa ubbidienza, Abramo pronuncia solo poche parole di risposta al figlio, e dà soltanto delle indicazioni pratiche ai servi. Silenzio con se stesso e con le creature.
2) L’abbandono di Abramo alla divina Provvidenza è lampante, non solo per quanto riguarda la domanda del figlio a cui Abramo risponde dimostrando esplicitamente la sua fiducia nella Provvidenza, ma soprattutto con l’esecuzione del comando divino assolutamente imprevisto, irragionevole e incomprensibile per Abramo dopo la promessa fatta da Dio stesso di un’immensa discendenza.
3) Questo terzo punto – la pratica esatta dell’osservanza – riguarda tutti i verbi presenti in questo racconto che fanno agire Abramo per eseguire il comando del Signore. Sono moltissimi: si alzò, sellò, prese con sé, spaccò, si mise in viaggio, alzò gli occhi, prese la legna, la caricò sul figlio, prese in mano il fuoco e il coltello e proseguirono, costruì l’altare, collocò, legò, depose, stese la mano e prese il coltello, e infine andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto al posto del figlio. Probabilmente si tratta di un metodo letterario per creare una certa suspence, ma a me ha ricordato l’esattezza delle osservanze e il modo in cui si è tenuti ad obbedire, se si vuole che questa obbedienza sia autentica. Come chiede il nostro S. Padre Benedetto, deve esserci perfetta continuità e immediatezza tra il comando e l’esecuzione.
È precisamente attraverso questo esercizio (che è pure esercizio di morte!) che il monaco raggiunge quella pace che San Benedetto mira a far raggiungere attraverso la pratica della sua santa Regola. Pace che nasce dalla faticosa accettazione della volontà di Dio, manifestata attraverso il superiore.
4) Qui credo proprio che non sia stato Abramo ad aver preso l’iniziativa! Ritengo però che il suo atteggiamento sia espressione di sottomissione e di mansuetudine. È una forma di ascesi e dunque, in un certo senso, di morte, aderire sempre al volere di un altro, adattarsi al suo modo di essere e di fare, lasciare che altri prendano l’iniziativa per me. Naturalmente, purché ciò non significhi passività, rassegnazione, rifiuto di assumersi le proprie responsabilità.
È un atteggiamento che potrebbe essere giudicato da stolti. È precisamente la stoltezza della croce: ciò che appare stolto agli occhi degli uomini è grande e prezioso agli occhi di Dio. Abramo ha agito proprio così, si è adattato e ha aderito. Se è vero che nel suo caso l’altro era Dio, è pur vero che la richiesta era grande!
5) La delicatezza di questo punto è essenziale per capire il dramma interiore di Abramo, in quanto Dio gli aveva già promesso una discendenza. Era dunque volontà di Dio che lui avesse un figlio, era dunque «interesse di Dio» la discendenza di Abramo, poiché sarebbe divenuta il suo popolo. Ora invece Abramo è chiamato a sacrificargli il figlio di questa promessa, l’oggetto di questa volontà. Per l’uomo ebreo la discendenza rappresentava tutto, mentre l’assenza di prole equivaleva ad un fallimento. In questa drammatica situazione Abramo avrebbe avuto tutti i diritti di appoggiarsi in se stesso, far leva sulla sua prerogativa di padre o addirittura sulla stessa volontà divina espressa dalla promessa, che riguardava la gloria di Dio. Si comprende in questo caso come spesso accada che gli interessi naturali si nascondano sotto l’apparenza di interessi di Dio.
6) Nonostante il grande desiderio di una discendenza ed il conseguente attaccamento al figlio Isacco, Abramo pone al di là e al di sopra dei suoi progetti e desideri la volontà di Dio. Questo attaccamento al figlio, oltre ad essere comprensibile umanamente, è anche messo in evidenza da Dio stesso che per ben tre volte, quando si rivolge ad Abramo riferendosi ad Isacco, non lo indica soltanto come figlio, ma lo definisce in maniera più specifica: «il tuo unico figlio, il figlio che ami», riconoscendo così l’alto prezzo della sua richiesta. Dio è perfettamente cosciente di ciò che chiede, ma insieme alle richieste, egli dona anche la grazia della libertà dello spirito per riconoscere Lui e solo Lui come Bene supremo e la forza di andare al di là degli attaccamenti umani.
7) Il testo biblico non parla esplicitamente di questa pace, perché non riferisce i sentimenti e pensieri di Abramo. Eppure, tutti i gesti che esprimono la sua totale obbedienza lasciano trasparire qualcosa della pace interiore di quest’uomo, totalmente abbandonato alla volontà di Dio. Come abbiamo già notato, Abramo non ribatte, non reclama, non discute con Dio, non chiede sconti e non propone compromessi: né prima, né durante, né dopo. Abramo è l’uomo mite e mansueto, è uomo di obbedienza perché è uomo di pace, e lo è proprio perché è capace di lotta interiore.
8) Qui Dio sembra dimostrare di essere palesemente in contraddizione: prima promette ad Abramo un’immensa discendenza attraverso un figlio, e poi gli chiede di sacrificargli quello stesso figlio. In questo caso non è una creatura ad essere in contraddizione, come potrebbe essere un superiore, il quale rimane sempre e comunque una creatura con dei limiti e quindi con la possibilità di contraddirsi. È Dio stesso che sembra contraddirsi: la cosa appare ancor più incomprensibile ad occhi umani, ma nella sua grande fede Abramo dimostra di amare ed abbracciare questa contraddizione, questa nuova disposizione che prende forma di croce. Credo si possa dire che la ama perché l’accetta nonostante tutto: nonostante vada contro i suoi desideri, i suoi progetti, i suoi legami, i suoi affetti, contro tutto ciò che ha di più caro. E per essere in grado di offrire e sacrificare tutto questo, Abramo deve aver avuto un amore così grande che già prefigurava quello di Cristo. Mi chiedo, infatti, se per una persona che ama sia più facile dare la propria vita o accettare che l’amato soffra o muoia.
Qui s’intrecciano amore e morte in una fusione che non può che sfociare nel mistero della croce di Cristo: fino a che punto essa è strumento di morte? Fino a che punto è prova d’amore? Questi due aspetti non si possono distinguere né separare. È vero che l’amore è più forte della morte, che la morte non è l’ultima parola – il mistero pasquale di Cristo rappresenta proprio la vittoria della vita sulla morte –, ma l’amore, per essere veramente tale, deve passare attraverso la morte. Essa è quasi il test, la verifica del vero amore, senza la quale l’amore stesso continuerebbe a soffrire dell’ambiguità che il peccato originale e la concupiscenza gli hanno guadagnato. Sì, quell’ambiguità che sporca la retta intenzione delle mie azioni, che confonde il bene dell’altro con il mio interesse, che attraverso una presunta carità fa in modo che l’altro si leghi a me e non al Signore. È questa ambiguità che deve essere uccisa …
Paradossalmente è proprio la morte, che è stata la tragica conseguenza del peccato, a consentire questo, a consentire cioè all’amore di essere autentico, in quanto solo attraverso la morte si ha donazione totale, vera gratuità, distacco radicale da sé.
Questo discorso mi rimanda agli ultimi versetti del capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi, dove San Paolo parla del corpo mortale che sarà vestito d’immortalità e cita la Scrittura: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è o morte il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (1 Cor 15,54b-57).
La prima frase, «La morte è stata ingoiata per la vittoria», è a mio avviso particolarmente illuminante per approfondire questa riflessione, perché riassume il senso del mistero pasquale. È singolare l’espressione «ingoiata»: quando uno ingoia significa che mangia e, mangiando, assimila ciò che ingoia, che diviene così parte di lui. Lo stesso è avvenuto per Gesù che ha ingoiato la morte, l’ha mangiata, l’ha vissuta fino in fondo prima di risorgere. Cristo risorto, infatti, appare con i segni della sua passione nelle mani, nei piedi e nel costato.
E allora «siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» come afferma l’Apostolo, ma il Signore nostro Gesù Cristo ci dà la vittoria perché a sua volta l’ha ricevuta dal Padre a causa della sua obbedienza e del dono della sua vita: «Apparso in forma umana umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato…» (cfr. Fil 2,5-11). Sì, Dio l’ha esaltato perché Egli ha obbedito ed è morto: per questo Dio l’ha esaltato, gli ha dato vittoria, quella stessa vittoria che egli vuol dare anche a me se uso la mia libertà e la mia capacità di amare per obbedirgli e dare la mia vita.
C’è quindi quasi una «necessità» di morire a se stessi nella vita cristiana e perciò nella vita monastica. Questa necessità è come il fuoco che Geremia sente ardere dentro di sé per cui, nonostante tutte le tribolazioni a causa di Yahwè, sente l’urgenza di continuare a predicare nel nome del Signore, alla stregua di Paolo che esclama: «guai a me se non predicassi il Vangelo», come lo stesso Gesù: «Padre, se possibile allontana da me questo calice, ma sia fatta la tua, non la mia volontà».
Questa «necessità» ha fatto tacere Gesù durante tutta la Sua Passione, che lo ha fatto patire, che gli ha fatto scegliere volontariamente di dare la vita. Infatti, è morto per dimostrarci il suo amore in un atto storico specifico: quello della croce; ma di questo stesso amore oggi abbiamo il Sacramento, cioè l’Eucaristia, il Dio della carità, il Dio con noi.
Anche la presenza sacramentale di Gesù non sarebbe stata possibile senza la sua morte. Ecco di nuovo la necessità della morte: solo se io muoio a me stessa riesco a donarmi autenticamente agli altri. E come Gesù, che aveva in sé la pienezza dello Spirito Santo, morendo dona questo Spirito che perpetua la sua presenza d’amore, così anch’io, nel momento in cui muoio a me stessa, riesco a donare autenticamente Gesù agli altri.
Dalla morte, quindi, nasce l’amore.
9) La semplicità di Abramo, oltre che presente in questo testo come in ‘filigrana’ – non c’è nulla di più «semplice» che ubbidire radicalmente, agendo e tacendo – la si può notare in tutta la sua storia narrataci dalla Bibbia. Scorrendo l’intera sua vicenda, si può notare come Abramo parli assai poco con Dio; gli rivolge la parola ben poche volte, esattamente in tre sole occasioni, per la discendenza e la terra, quando parla con i tre uomini e quando contratta con Dio (cfr. Gen 15,2; 17,18; cap. 18).
Anche questo, credo, sia indice di semplicità, umiltà e sottomissione, e in diversi casi, come in quello del sacrificio di Isacco, Abramo risponde ai vari appelli di Dio obbedendo attraverso azioni concrete, senza tante parole.
10) Anche i sensi di Abramo credo fossero vivi, nonostante questa totale e cieca fiducia in Dio. Anzi, forse paradossalmente, data la tarda età di Abramo e Sara, è Dio stesso a vivificarli per poter attuare il suo disegno di salvezza. Dio non ci chiede di «disumanizzarci», chiedendoci di «annullare» i nostri sensi, ma di metterli a Sua disposizione per attuare, anche per mezzo di essi, il Suo progetto di salvezza per noi e per chi ci sta intorno.
Conclusione
L’ottavo punto è stato quello maggiormente sviluppato, perché lo ritengo il punto fondamentale, quello che, per così dire, racchiude il «nocciolo» dell’intera questione, sia di Abramo che nostra.
Solo dall’amore alla croce possono scaturire tutti gli altri aspetti: il silenzio, l’abbandono, la pratica esatta delle osservanze, il cuore libero, la pace, la semplicità. Questi sono un po’ come tutti gli ingredienti che fanno la torta: sono necessari, ma è altresì necessario avere prima la ferma volontà di fare la torta, e proprio quella torta lì! Solo se ho intenzione di fare quella determinata torta, ha senso che io mi procuri proprio quegli ingredienti!
Nelle battute conclusive di questa riflessione mi affiorano quasi spontaneamente alla mente e alle labbra le ultime parole dell’Ave Maria: «prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte». «Nell’ora della nostra morte» sicuramente sta ad indicare l’ultimo istante dell’esistenza terrena, ma mi piace considerare quell’ora anche ogni momento in cui sono chiamata a morire a me stessa. Non sono io che scelgo queste «morti», com’è avvenuto per Gesù. Come Lui, però, anch’io posso scegliere di sottomettermi ad esse, vedendovi la volontà di Dio, nello stesso spirito di obbedienza al Padre che ha segnato l’esistenza di Gesù.
Ritenendomi tuttavia totalmente incapace di fare tutto questo senza il materno aiuto di Maria, mi rivolgo ancora a Lei con le parole del Salmista: «Come pecora smarrita vado errando, cerca il tuo servo, perché non ho dimenticato i tuoi comandamenti» (Sal 118,176). La sola cosa importante che devo fare è non dimenticarmi i comandamenti divini; Lei dovrà però sempre venire a cercarmi perché io, come pecora smarrita, «vado errando».
Così invoco umilmente la sua protezione, per me e per tutti i cristiani chiamati a rivivere il mistero di morte e di risurrezione di Gesù.