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Deus absconditus, anno 88, n. 2, Aprile-Giugno 1997, pp. 7-18
 

Sr. Carla Maria Valli, osb ap, monaca del monastero di Grandate (CO)
Il culto eucaristico prima e dopo il Concilio di Trento
I suoi riflessi nella spiritualità di Mectilde de Bar

 

Premessa

Nella consapevolezza che la storia non è una successione di momenti staccati e tra loro non comunicanti, ma una realtà viva, in cui ogni evento affonda le radici in ciò che lo precede e costituisce il terreno di sviluppo per ciò che lo segue, è sembrato utile fare una ricerca sull’epoca e l’ambiente teologico legati al Concilio di Trento, perché sono immediatamente precedenti alla nascita del nostro Istituto (fondato nel 1653). Esso, già nella sua denominazione (Benedettine dell’adorazione perpetua del SS. Sacramento) riflette la rilevanza che il culto eucaristico aveva assunto nella Chiesa dei secoli XVI-XVII, come risposta alle posizioni protestanti e alle tante profanazioni dell’Eucaristia che le guerre di religione avevano causato.

1. Prassi eucaristica pre-tridentina

La prassi eucaristica nei secoli che precedono il Concilio di Trento, è caratterizzata da una profonda contraddizione: le celebrazioni dell’Eucaristia sono numerosissime, ma la partecipazione dei fedeli ad esse, con la comunione sacramentale, è molto scarsa.

Le ragioni del moltiplicarsi delle celebrazioni sono da ricercarsi nelle epoche precedenti. All’origine, c’è solitamente una degenerazione di principi o consuetudini noti, all’inizio, come necessari o buoni.

Era certo logico, ad esempio, che nell’epoca costantiniana, il Decreto di liberalizzazione del culto (a. 313), con il relativo aumento del numero dei cristiani, rendesse necessario celebrare in una medesima basilica, più volte in uno stesso giorno, tante messe quante ne richiedeva l’accorrere di nuovo popolo [1]. Ma questa necessità degenerò in seguito in un moltiplicarsi di celebrazioni per le più disparate necessità. Si giunse in tal modo alla riduzione della messa a devozione. Così, mentre nella Chiesa dei primi secoli l’Eucaristia era il punto di convergenza e di costituzione della comunità cristiana come corpo, alle soglie del Concilio tridentino ritroviamo la celebrazione eucaristica come espressione della pietà del singolo sacerdote, o come sacrificio propiziatorio offerto per le necessità private.

Elemento rilevante in tale processo degenerativo fu la celebrazione di apposite messe per i defunti. Iniziata verso la fine dell’epoca patristica, con Gregorio Magno († 604), (il quale raccomandava però anche di operare bene in vita, piuttosto che attendere la salvezza delle messe celebrate dopo la propria morte) si affermò sempre più, tanto che nei monasteri cluniacensi c’era un ininterrotto susseguirsi di messe pro defunctis dall’aurora fino a mezzogiorno [2]. Di questo passo si giunse a gravi abusi che ridussero le celebrazioni eucaristiche ad un disdicevole commercio. Pensiamo ad esempio a quelle che avevano solo l’apparenza di messe, come la missa sicca, cioè senza consacrazione, oppure le messe bi-tri- quadrifaciate, dove attorno ad un solo atto di consacrazione del pane e del vino si raccoglievano due, tre, quattro formulari di celebrazione e quindi due, tre, quattro offerte da parte dei fedeli.

Questo del «pagare», «commissionare» la messa, definendo l’intenzione per cui doveva essere celebrata, purtroppo si era ridotto ad essere l’unica forma di partecipazione dei cristiani all’eucaristia. Essa si esprimeva poi nella presenza allo svolgimento del rito, ma senza poter entrare nel mistero. La celebrazione, infatti, nel suo complesso (per la lingua e i riti), risultava incomprensibile al popolo.

Anche la partecipazione al sacrificio per mezzo della comunione sacramentale era spesso ridotta al comunicarsi del solo sacerdote celebrante. Questo fu il risultato di un progressivo infiltrarsi nella Chiesa di una mentalità che si rifaceva ai principi della purità rituale dell’AT, secondo la quale, per accostarsi alle cose sante si dovevano avere determinati requisiti di purezza e santità.

I primi fermenti di questo genere di pensiero, si trovano già all’epoca dei Padri, i quali notano che da molti la condivisione della mensa eucaristica non è più ritenuta elemento essenziale della celebrazione. Quando poi troviamo che i pastori o i Concili devono giungere a prescrivere la comunione come necessaria almeno una volta l’anno, si comprende che ormai si è instaurata una tradizione di rispettosa distanza dal Mistero, non conforme certo alla tradizione genuina delle prime assemblee cristiane.

Per una completa visuale del problema bisogna tener presente anche che la controversia suscitata da Berengario (sec. X) e la successiva marcata affermazione della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, come persona viva, ha favorito l’accentuarsi di un solo aspetto del culto eucaristico: il pane e il vino vengono un po’ astratti dal loro originario significato, non indicano più solo una realtà voluta da Cristo per nutrire la vita di fede dei credenti (quindi in primo luogo dati per essere mangiati), ma ci si è rapportati all’ostia come al luogo della presenza di una persona, con la quale si parla e che si può vedere.

Data poi la dignità altissima della persona di Cristo, si sono moltiplicati i segni di venerazione, come era allora in uso per i monarchi.

Così, alla comunione sacramentale si sostituì sempre più la «comunione spirituale», per la quale non erano necessari gli stessi requisiti di purità rituale.

Altra caratteristica della prassi eucaristica prima di Trento era l’uso di spiegare il significato di quanto si compiva nella celebrazione con l’allegoria. Anche questa necessità di far conoscere ai fedeli il senso del mistero, aveva un lontano inizio nelle catechesi mistagogiche dei Padri. Purtroppo quelle non ebbero più uguali.

Nel Medio Evo, attingendo al pensiero di Isidoro di Siviglia e al suo «De ecclesiasticis officiis», si cerca di spiegare i riti della celebrazione nelle «Expositiones missae». L’intento era certo ottimo, ma quando si giunge, con Amalario di Metz († 837) a voler identificare ogni singolo passaggio del rito con un momento preciso della vita o della passione di Cristo, si finisce per banalizzare il senso profondo della liturgia. Leggendo le sue interpretazioni allegoriche, ci si rende conto come si sia ormai lontani mille miglia dall’epoca dei Padri. Essi spiegavano ai loro cristiani l’Eucaristia come presenza simbolica e perciò reale, del sacrificio di Cristo ed i fedeli potevano comprendere anche la comunione come partecipazione ad un banchetto sacrificale, perché la temperie culturale dalla quale provenivano conosceva questo linguaggio. Infatti, accanto al cristianesimo esistevano le religioni misteriche con i loro riti e il giudaismo, con il concetto di memoriale.

Nel corso dei secoli questa capacità rituale-simbolica andò perduta. Ci si accorge di questo quando ci si ritrova di fronte a testimonianze come la disputa tra Pascasio Radberto (esponente dell’interpretazione realista dell’Eucaristia) e Ratramno (rappresentante della corrente che sosteneva il dinamismo figurativo). Siamo nel secolo IX e si vede che gli stessi termini presenti nei Padri, non sono più usati nello stesso senso: simbolo e realtà sono ormai concetti che si escludono a vicenda.

Il clima in cui si inserisce il Concilio di Trento è dunque segnato da un forte dualismo:

- sul piano pratico-celebrativo si moltiplicavano le celebrazioni del sacrificio di Cristo, ma si tralasciava la partecipazione sacramentale con la comunione a questo sacrificio;

- sul piano della riflessione teologica, al contrario, si insisteva molto sull’aspetto sacramentale, per cercare di spiegare come Cristo fosse realmente presente nelle specie consacrate e come avvenisse la presenza, mentre era più trascurato l’aspetto del sacrificio, perché risultava problematico (senza il codice culturale misterico-simbolico) spiegare in quale modo la messa fosse vero sacrificio senza nulla togliere al sacrificio unico della croce.

2. La contestazione dei riformatori

La prassi che abbiamo appena descritto nei suoi vari aspetti, costituiva ormai nella Chiesa una realtà con radici tanto profonde che anche i molti tentativi di riforma in campo cattolico risultavano vani. Come causa di questi fallimenti bisogna ricordare, non ultimo, il fatto che spesso, proprio coloro che dovevano presiedere le celebrazioni eucaristiche e formare i fedeli in materia, cioè i vescovi e i sacerdoti ordinati, erano i primi a trarre profitto e quindi a non voler cambiare una tale situazione.

La protesta di Lutero, e poi degli altri riformatori, venne a scuotere così le coscienze e le istituzioni.

Essi contestavano soprattutto il fatto che, attraverso il moltiplicarsi delle celebrazioni eucaristiche dietro pagamento di un’offerta, si era venuta formando nella mente dei fedeli una certa idea di automatismo riguardo alla salvezza; così che l’offrire nella messa il sacrificio di Cristo era considerato come un merito, un’opera buona con la quale garantirsi la salvezza, o per lo meno dei benefici spirituali.

Per Lutero, ciò si poneva in contrasto con l’autenticità del Vangelo: la grazia, infatti, è un dono offerto gratuitamente all’uomo e che egli non può in alcun modo acquistarsi, ma solo accogliere con fede.

A partire da tale principio, si negò, da parte protestante, il nucleo che faceva della messa una realtà da poter «offrire» a Dio e cioè il fatto che l’Eucaristia sia realmente sacrificio.

A sostegno di tale negazione si portava la tesi secondo cui, se tutte le celebrazioni eucaristiche sono sacrificio, questa molteplicità di azioni sacrificali smentisce o sminuisce la verità che Cristo è morto sulla croce una volta per tutte, offrendo così a Dio l’unico sacrificio che salvò tutti gli uomini. Lutero, basandosi sulla distinzione scolastica, avallata anche da san Tommaso, secondo cui l’Eucaristia è sacramento in quanto si riceve e sacrificio in quanto si offre, sostenne che Cristo la donò solo come sacramento, cioè per poter comunicare, lui a noi, la sua grazia [3].

Dai diversi riformatori fu inoltre negata, in vari gradi, la presenza reale, che stava alla base delle forme di culto eucaristico di cui era ridondante la pietà popolare dell’epoca.

Né Lutero (1483-1546), né Zwingli (1484-1531), né Calvino (1509-1564) accettavano la transustanziazione. Lutero parlava di «consustanziazione», cioè del permanere della sostanza del pane accanto a quella del corpo di Cristo. Per Zwingli il sacramento era solo segno e figura della presenza di Cristo, che la comunione produce nei fedeli. Calvino ammetteva che il sacramento fosse tramite di una «virtù» che emanava da Cristo sedente nei cieli [4].

Si rimproverava ai cattolici di aver, in certo senso, sviato il fine del sacramento: Cristo aveva dato il suo corpo e il suo sangue perché ne mangiassero e ne bevessero, essi invece ne avevano fatto oggetto di culto, cadendo così, secondo i Riformatori, in una sorta di idolatria. I protestanti accusavano inoltre i cattolici di inadempienza alle parole del Salvatore che aveva detto del calice, come del pane: «Prendetene tutti», mentre la Chiesa aveva riservato la partecipazione al calice, ormai da molti secoli, solo ai presbiteri.

La protesta dei Riformatori, come abbiamo accennato, cadde su un terreno già minato dagli abusi e lacerato dall’incongruenza tra la fede che la Chiesa professava nell’Eucaristia e il modo con cui questa veniva espressa nella prassi: trovò quindi molte adesioni e costrinse il Magistero a prendere atto della situazione e a muovere dei passi verso quella Riforma desiderata anche da tanti cattolici, ma che mai era riuscita a decollare.

3. La risposta di Trento

«Se si eccettuano i primi quattro Concilii ecumenici (...), perché essi hanno formulato i dogmi fondamentali della Chiesa, quello trinitario e quello cristologico, nessun altro Concilio ha lasciato tracce così profonde nella storia della Chiesa, come quello di Trento» [5].

Questa affermazione di H. Jedin sull’incidenza del Concilio tridentino nella storia ecclesiale, si spiega forse con la gravità del fenomeno al quale esso ha dovuto far fronte. Riformare la Chiesa intricata in un intreccio secolare con il potere politico ed economico e tentare di ripristinare l’unità di fede nell’Europa cattolica, che stava spaccandosi sotto la spinta riformatrice, non era certo cosa da poco. Forse però, proprio la gravità e l’urgenza dei problemi ha influito negativamente sull’impostazione del Concilio stesso. Preoccupati di trovare risposte immediate alle obiezioni e alle posizioni dei Protestanti, i Padri conciliari non hanno saputo dare ai documenti emanati in materia, l’ampio respiro della Scrittura e della Tradizione propri della Chiesa fino all’epoca patristica. La prova più evidente si ha nella formulazione dei decreti sull’Eucaristia, dove troviamo cristallizzato il dualismo allora in uso: in un decreto si parla del Sacramento, in un secondo del Sacrificio della Messa.

Ciò dipende anche dal fatto che nella teologia immediatamente precedente il Concilio di Trento, mancava una riflessione unitaria ed esauriente sul tema. Soprattutto dopo la controversia berengariana, ci si era soffermati su temi particolari: in quale modo si attuasse la presenza reale, gli effetti del sacramento, perché la messa si potesse «dire» sacrificio, ecc... Così, sebbene la teologia e la prassi successiva (fino al Concilio Vaticano II) si appellerà all’autorità del Concilio di Trento, esso sarà un punto di riferimento che riflette (in questo campo) nelle epoche future i suoi limiti di impostazione.

a) L’Eucaristia come sacramento

Nel «Decreto sul santissimo sacramento dell’Eucaristia», emanato nella Sessione XIII, viene ribadita la presenza reale di Cristo nel pane e nel vino consacrati. Questo dato di fede è specificato da tre avverbi, ciascuno dei quali ben soppesato: veramente, realmente, sostanzialmente; formando così un crescendo di intensità. Per spiegare questa presenza il Concilio assume la dottrina della transustanziazione, già espressa nel Concilio Lateranense IV (1215).

Il Decreto parla inoltre, sempre in chiave polemica coi riformatori, della presenza di Cristo anche prima e dopo la comunione e, da questa presenza «indipendente dall’uso», fa derivare l’eccellenza dell’Eucaristia sugli altri sacramenti e giustifica il culto di latria reso ad essa anche fuori dalla celebrazione.

Per rispondere ad altra tesi mossa da protestanti (il diritto dei laici al calice), afferma che il Cristo è presente interamente sotto ciascuna delle specie eucaristiche.

Per quanto riguarda la comunione dei fedeli, aspetto che più lasciava a desiderare nella prassi, il Concilio fa affermazioni che sembrano propendere ora nell’uno ora nell’altro verso. Da una parte dice che l’Eucaristia è stata data come cibo delle anime: «Egli (Cristo) volle che questo sacramento fosse ricevuto come cibo spirituale delle anime, perché ne siano alimentate e rafforzate, vivendo la vita di Colui che disse: «Chi mangia di me, anche lui vive per mezzo mio« e come antidoto con cui liberarsi dalle colpe di ogni giorno ed essere preservati dai peccati mortali» (Decr. sul SS. Sacr.to dell’Eucaristia, cap.II) [6].

Dal contesto di tutto il capitolo, sembra di poter intendere che non sia necessario premettere la confessione sacramentale ad ogni comunione (ma solo se non si fosse consapevoli di peccato mortale), quindi non dovrebbe essere una prassi penitenziale troppo rigorista ad impedire di ricevere questo sacramento. Ma più avanti al cap. VII, si esorta vivamente ad esaminare se stessi prima di riceverlo.

Al cap. VIII si raccomanda ai fedeli di vivere in modo «da poter ricevere frequentemente quel pane supersostanziale» [7]. Questa affermazione non si può però intendere come inequivocabile invito alla comunione sacramentale, perché appena prima, erano stati elencati tre modi di ricevere il sacramento, due dei quali sono la contrapposizione della comunione solo sacramentale e di quella spirituale (della quale si rileva l’eccellenza): «alcuni lo ricevono solo sacramentalmente, come i peccatori. Altri solo spiritualmente, quelli cioè che desiderando di mangiare quel pane celeste loro proposto, con fede viva, che agisce per mezzo dell’amore, ne sentono il frutto e l’utilità» (Decreto sul SS.Sacr.to dell’Eucaristia, cap. VIII) [8].

Da questo confronto appare chiaro che l’anima della comunione sacramentale è il desiderio, così si poteva trarre anche la conclusione che la comunione spirituale bastava a se stessa.

b) II Sacrificio della messa

Per quanto riguarda l’aspetto sacrificale dell’Eucaristia, esso è stato trattato nella Sessione XXII ed espresso nel Decreto «Dottrina e canoni sul santissimo Sacrificio della messa».

Come abbiamo già accennato, la riflessione teologica sulla messa come sacrificio, nel periodo pretridentino, era un po’ povera e carente. Avendo distinto e contrapposto figura e realtà, risultava difficile spiegare come la messa presentasse in figura il sacrificio della croce e, contemporaneamente, ne contenesse la realtà.

Il Concilio tridentino ha superato tale difficoltà recuperando alcuni concetti biblici. Ha presentato, come connaturale al sacerdozio eterno di Cristo, l’avere un sacrificio eterno da offrire. Questo era costituito dall’offerta di se stesso sulla croce, come vittima perfetta, capace di santificare tutti gli uomini.

Poiché dunque questo sacrificio doveva essere perenne, egli lasciò alla Chiesa, da offrire ogni giorno nel sacramento, quel sacrificio compiuto una volta per tutte.

Lo lasciò sacramentalmente nel pane e nel vino, dopo averlo offerto, nella cena, egli stesso al Padre: «Offrì a Dio Padre il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del vino, e lo diede, perché lo prendessero, agli apostoli sotto i simboli delle stesse cose e comandò ad esse e ai loro successori nel sacerdozio, che l’offrissero con queste parole: Fate questo in memoria di me» (Decreto sul SS. Sacrifìcio della messa, cap. I) [9]. In questo modo Gesù aveva portato a pienezza l’antica pasqua ed aveva dato inizio alla pasqua del Nuovo Testamento per la sua celebrazione.

Così il Concilio aveva in parte rettificato anche quella distinzione che si era soliti fare, tra la cena di Cristo (con l’istituzione del Sacramento), e la croce (collegata alla rappresentazione del sacrificio, che avveniva nella messa). Era finalmente chiaro che la messa è veramente sacrificio, perché Cristo, per primo, nella cena ha offerto sacramentalmente il sacrificio della croce.

Per il resto, i capitoli del Decreto sul sacrificio della messa, si sono preoccupati di difendere alcune modalità e alcune parti della celebrazione eucaristica che erano state attaccate dai riformatori.

Tra i temi oggetto dell’apologia, ci sono le messe chiamate «private» nelle quali si comunicava il solo celebrante. A proposito di queste, al cap. VI, si prende l’occasione per affermare che, se tutti i fedeli presenti si comunicassero non solo spiritualmente, ma sacramentalmente, la loro partecipazione ai frutti del sacrificio sarebbe copiosa (Decr. Sul SS. Sacrificio della Messa, cap. VI) [10]. Di fatto l’affermazione non va oltre l’auspicio, e la comunione non giunge ad essere considerata pienezza e compimento della celebrazione, perché anche a tali messe viene riconosciuta una piena valenza comunitaria, in quanto celebrate dal ministro per tutta la Chiesa e partecipate dai fedeli con l’unione spirituale.

3. Prassi celebrativa post-tridentina

L’impegno per attuare le deliberazioni del Concilio, almeno nelle Diocesi e nel tempo in cui vissero i presuli protagonisti dell’evento sinodale, fu molto vivo. Certamente si lavorò per togliere almeno quegli abusi che il «Decreto su ciò che bisogna osservare ed evitare nella celebrazione delle messe» aveva condannato. Siccome però, nei documenti conciliari, lo svolgimento della celebrazione e il modo di partecipare dei fedeli erano stati lasciati intatti, si continuarono a celebrare messe in cui il solo celebrante si comunicava, anzi, spesso più messe celebrate contemporaneamente nella stessa chiesa.

La preoccupazione di fare entrare i fedeli nella profondità dei misteri celebrati fu un po’ tralasciata; ci fu anzi chi asserì che si celebrava non per essere compresi dal popolo, ma per dare culto a Dio (card. Bellarmino). La difesa, da parte di Trento, del canone della Messa e della lingua latina, fece sì che la celebrazione, con i suoi riti e le sue parti celebrate a voce bassa, assumesse sempre più l’aria del mistero (da intendersi in senso «misterioso»). Soprattutto le parole del canone non dovevano essere conosciute dai fedeli, perché sarebbe stata una specie di profanazione. Conferma di quest’idea fu la bolla di Papa Alessandro VII che condannava la traduzione del messale in lingua volgare, fatta in Francia nel 1660.

Naturalmente ci fu anche, dall’altra parte, chi, per venire incontro ai fedeli, cercò in qualche modo di renderli partecipi. Si moltiplicarono così gli opuscoli che spiegavano in quale modo bisognava partecipare «fruttuosamente» alla messa, suggerendo preghiere da recitarsi o pensieri ai quali applicarsi durante la celebrazione del «santo sacrificio».

La comunione dei fedeli rimase più una questione legata all’ascesi e alla spiritualità personale, che non alla natura della celebrazione della liturgia eucaristica. Si diffuse anche la comunione fuori dalla messa.

Parimenti, il culto eucaristico, inteso come valorizzazione della presenza reale, si affermò sempre più, in opposizione ai protestanti. Agli altari maggiori vennero aggiunti i tabernacoli e, spesso, soprattutto nel barocco, si costruirono altari monumentali, alla cima dei quali poter porre l’ostensorio per l’esposizione eucaristica. Anche la festa e l’ottava del Corpus Domini, con relative processioni, divennero sempre più solenni [11].

4. Riflessi della dottrina di Trento sulla spiritualità mectildiana

Giunti a questo punto del tema è utile e interessante verificare come le idee del Concilio di Trento sono state recepite e vissute dalla nostra Madre Fondatrice, Mectilde de Bar che, proprio un secolo dopo tale Concilio, fondò un Istituto dove la Regola di san Benedetto, vissuta integralmente, si affiancava all’adorazione perpetua dell’Eucaristia, praticata in spirito di riparazione.

Dal confronto con l’ambiente e con l’epoca post-tridentina in cui è vissuta, sorprende felicemente il vedere che, pur riservando grande importanza all’adorazione perpetua, quindi fondamentalmente al culto esteriore dell’Eucaristia, ella insista molto sulla necessità della comunione, quindi dell’assimilazione sacramentale al mistero celebrato e adorato.

Lo spazio e l’attinenza al tema non consentono un’esposizione dettagliata. Basteranno alcuni cenni.

Dall’insieme dei suoi scritti si può notare che alcuni elementi della prassi celebrativa pre-tridentina si sono prolungati anche dopo il Concilio, ad esempio la tendenza a vedere nella messa la ripresentazione della passione in termini allegorici; anche se, in Mectilde de Bar, l’attenzione sembra spostarsi più verso le sofferenze interiori di Gesù e le disposizioni con cui ha vissuto il suo sacrificio:

«Considerate il sacerdote come se fosse Gesù, oppure, vedete Gesù nel sacerdote. Infatti, sale all’altare e poi vi discende. Questo modo di agire deve ricordarvi l’andata di Gesù dal cenacolo al giardino degli ulivi. Ancora, il sacerdote piega le ginocchia per ricordarci che Gesù si prostrò dinanzi alla maestà del suo divin Padre... Facciamo nostre le sue stesse disposizioni di rispetto, per cui egli si umilia davanti alla grandezza infinita di Dio e adoriamolo con lui e come lui, con lo spirito intento a tutto ciò che fa, che soffre e che dice» [12].

Accanto a questo si nota però anche l’emergere di una sensibilità per i temi teologici più genuini della Tradizione riguardo all’Eucaristia; a volte si coglie anche l’attenzione a ritornare alle sorgenti patristiche; questo veniva certo a questa Benedettina dalla sua frequentazione dei Maurini.

Per quanto riguarda l’Eucaristia come sacramento e il tema, più volte emerso, della comunione sacramentale, è curioso ad esempio notare come a distanza di un secolo dal Concilio di Trento e dalle sue disposizioni, si siano sviluppate posizioni tanto diverse. Forse perché, come abbiamo visto, i Decreti si prestavano a opposte interpretazioni?

Nel 1643 (quindi nella stessa epoca della nostra Fondatrice) in ambiente giansenista, Antoine Arnauld pubblicò un’opera che divenne celebre: «De la frequente communion». In essa sosteneva che ai sacramenti, e in particolare all’Eucaristia, dovevano accostarsi solo coloro che si erano effettivamente convertiti, secondo la prassi che egli riteneva essere della Chiesa antica. Questa teoria l’aveva attinta da Saint-Cyran, suo maestro, il quale era solito, quando ravvisava nei suoi penitenti segni di tiepidezza, differire l’assoluzione e la comunione per alcune settimane [13].

Madre Mectilde de Bar, invece, scriveva per la sue monache:

«È fuori dubbio che noi non saremo mai degne di comunicarci, non avendo in noi disposizione alcuna, ma Gesù Cristo, con la sua comunione ha santificato le nostre e ci ha meritato la grazia di partecipare al suo banchetto divino. Andiamo a lui, nonostante le nostre miserie, privandoci della santa Comunione solo nel caso in cui vi fosse un valido motivo. Non stiamo a riflettere sulle nostre miserie, ma piuttosto sul desiderio che dobbiamo avere di darci a Gesù» [14].

Ma anche i laici invitava alla frequente comunione. Scriveva alla duchessa d’Orléans:

«Cominciate, per non smettere più, a comunicarvi tutti i sabati e le feste... Non avrò mai consolazione, per quanta benevolenza mi usiate onorandomi della vostra amicizia, finché non veda la vostra anima in questa santa pratica. Ve lo chiedo con la medesima insistenza che un ambizioso userebbe per giungere alla più alta fortuna e oso dire che ve lo chiedo da parte del mio Dio che vuole questo da voi. Egli vuole venire in voi e invece voi non lo ricevete. Avete parecchie piccole debolezze, le quali non saranno annientate che con l’uso di questo pane eucaristico» [15].

Se pensiamo ad una delle più aspre critiche dei riformatori verso i cattolici: Cristo ha lasciato questo sacramento per darci la sua grazia e invece voi ne avete fatto un’opera buona, qualcosa da poter offrire a lui, colpisce la frequenza con cui Mectilde de Bar richiama il primato dell’azione di Dio nel mistero eucaristico. Adorare e ricevere Cristo nell’Eucaristia è sempre, per lei, rispondere ad una iniziativa che parte da Dio e acconsentire ad un’azione che ancora sarà lui a compiere in noi per mezzo del sacramento:

«(O mio adorabile Salvatore) È l’ardore infinito che vi fa desiderare di essere unito agli uomini, mediante questo Mistero istituito dal vostro amore, per attirarli a partecipare a tutto ciò che voi siete (...) Gesù nel santissimo Sacramento mantiene questo desiderio, non ancora appagato, per cui, fino alla consumazione dei secoli dirà: «desiderio desideravi«. E finché ci sarà sulla terra un’anima capace di ricevere la sua grazia, egli nutrirà un infinito desiderio di attirarla al suo amore, mangiando con essa la Pasqua eucaristica» [16].

Una delle azioni che Cristo compie in noi per mezzo del Sacramento è quella di unirci al suo sacrificio, all’offerta che egli fa di sé al Padre:

«O sorelle mie, è qui il mistero dei misteri per noi, Gesù Cristo entra nell’anima con la santa Comunione...passa nel sacro santuario della parte più intima di noi, dove rinnova i suoi adorabili misteri e, singolarmente, quello del sacrificio, ma in un modo infinitamente vantaggioso all’anima, per il fatto che, essendo Gesù Cristo unito sostanzialmente a noi mediante la divina Eucaristia, così che non facciamo (secondo il pensiero dei Padri) che una sola cosa con lui, poiché siamo ossa delle sue ossa, e carne della sua carne e talmente unite a lui che questa unione colma di stupore tutta la Chiesa. (...) Ora, vi prego, quando vi comunicate, siete voi che operate questa unione o trasformazione? No certamente, è Gesù Cristo, in virtù del suo divin sacramento. E’ sufficiente da parte vostra che siate in grazia, e il resto si compie per mezzo dell’amore infinito di Gesù Cristo» (scritto 610) [17].

Per la dottrina del corpo mistico che la Scuola francese di spiritualità aveva in quel secolo rivalutato. Madre Mectilde ricorda spesso che con il battesimo siamo diventati membra di Gesù Cristo e che l’Eucaristia è la via obbligatoria con la quale mantenerci uniti al nostro capo:

«Mi sarà permesso di dire che, nel rinnovare questo Mistero d’amore col memoriale che i sacerdoti offrono ogni giorno, occorre, al suo perfetto compimento, che pure noi ci comunichiamo insieme al sacerdote che l’immola e lo riceve nel suo petto. Si potrebbe quindi dire che, quando nessuno dei partecipanti alla Messa fa la comunione, al Santo Sacrificio manca qualche cosa. Perché? Dato che Gesù l’ha istituito per comunicarci la sua vita e trasformarci divinamente in sé, per questo dobbiamo diventare una medesima ostia con lui, una medesima vittima d’amore. Credo proprio che non adempiamo i nostri doveri verso Gesù fatto sacramento se non lo riceviamo nella santa comunione» [18].

Il seguito di questo testo ci mostra come la comunione spirituale fosse ancora molto diffusa. Mi sembra però positivo vedere che non è considerata come realtà eccellente in sé e quindi equivalente alla comunione sacramentale, ma come rimedio all’impossibilità di ricevere frequentemente il Sacramento:

«E siccome sovente ci manca il permesso, o le disposizioni per possedere questo dono infinito, mediante la comunione sacramentale, dobbiamo supplire, comunicandoci spiritualmente, cioè col desiderio, con l’amore, con l’unione e la partecipazione al sacrificio, insieme al sacerdote» [19].

Forse possiamo dire che una parte dei Decreti del Concilio di Trento ottimamente assimilata nella spiritualità di Madre Mectilde è il capitolo II del Decreto sul Sacramento dell’Eucaristia. Lì si dice che esso è stato istituito come antidoto con cui liberarsi dalle colpe di ogni giorno, e già abbiamo visto sopra degli esempi a questo proposito; è stato dato inoltre come cibo spirituale delle anime, perché ne siano alimentate, vivendo della vita di colui che disse: «Chi mangia me, anche lui vive per mezzo mio», e questa frase evangelica ritorna spesso sotto la penna della nostra Fondatrice:

«Avete bisogno di inabissare la vostra debolezza nella sua forza divina, e desiderare d’essere tutta ripiena di Lui. «Come io vivo per il Padre, dice Gesù Cristo, anche tutti quelli che mi mangiano vivono per me«. O beata vita! Vivere per Gesù Cristo e di Gesù Cristo, essere nutrita e sostentata da Lui stesso! È per questo che Egli è nell’ostia e vi sarà fino alla consumazione del mondo. Mi sembra che un’anima che si comunica sovente riceve molto più forza, grazia e benedizione di quelle che se ne astengono» [20].

È singolare il modo con cui Mectilde de Bar presenta la comunione sacramentale come partecipazione al sacrificio di Cristo. In questa sua visuale, in un certo senso, riesce a recuperare l’originaria unità del mistero eucaristico:

«Gesù (venendo nell’anima con la comunione) cosa fa e dove risiede? L’ho già detto: nel Sancta sanctorum dell’anima, cioè nella sua parte più intima, che serve da santuario per questo grande Sacerdote, e di tempio per la celebrazione del tremendo sacrificio di se stesso al suo divin Padre; sacrificio che Gesù vuole rinnovare in quest’anima, come in un tempio sacro, santificato dal battesimo. Ma, quale frutto ricava l’anima da questo sacrificio? Esso fa sì che sacrifichi anche se stessa. Infatti, essendo sostanzialmente unita a Gesù, non può essergli separata, e quindi viene immolata con Lui e per mezzo di Lui. Essa partecipa al suo sacrificio, cosa che può fare solo mediante la sacra comunione»  [21].

Concludendo: anche se certamente i testi spirituali non hanno il rigore logico dei manuali di teologia, ogni spiritualità autentica è comunque sorretta da concetti teologici che si manifestano poi nella prassi. Quindi, viceversa, conoscere le tesi teologiche e dottrinali sviluppatesi in un’epoca, significa poi comprendere le ragioni più profonde di determinate prassi e il vero senso anche dei testi spirituali nati in quel tempo.

 



[1] LEONE MAGNO, Epist. 9,2: PL 54, 626 ss

[2] Cf. Salvatore Marsili, Anamnesis 3/2, La liturgia, EUCARISTIA, teologia e storia della celebrazione, ed. Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 87.

[3] Cf. Ibidem, pp. 74-75

[4] Cf. Ibidem, p. 68.

[5] Hubert Jedin, Il Concilio di Trento: Scopi, svolgimento e risultato, in Divinitas, V (1961), p. 345.

[6] Decreti del Concilio di Trento, Sess. XIII, cap. II, Decisioni dei Concilii ecumenici, a cura di G. Alberigo, ed. UTET 1978, p. 578.

[7] Decisioni dei Concilii ecumenici, cit., p. 583.

[8] Ibidem, p. 582

[9] Ibidem, p. 643.

[10] Cf. Ibidem, p. 646.

[11] Cf. Enrico Cattaneo, Introduzione alla storia della liturgia occidentale, CAL, ed. Liturgiche, Milano 1969, pp.317-324;339-346.

[12] M. Mectilde du Saint Sacrement (Catherine de Bar), Il Vero Spirito delle Religiose adoratrici perpetue del SS. S.to dell’altare, trad. Italiana a cura delle Benedettine dell’Adorazione perpetua del SS. S.to, Monastero SS. Trinità, Ronco Ghiffa (NO), 1980, p. 47.

[13] Cf. Massimo Marcocchi, La spiritualità tra Giansenismo e Quietismo nella Francia del Seicento, ed. Studium, Roma 1983

[14] M. Mectilde du Saint Sacrement, o.c., p. 67.

[15] Citato in Joseph Daoust, Il messaggio eucaristico di Catherine de Bar, M. Mectilde del SS. Sacramento, 1614-1698, trad. it. a cura delle Benedettine dell’adorazione perpetua del SS. Sacramento, Monastero SS. Trinità, Ronco di Ghiffa (NO), 1984, pp. 86-87.

[16] M. Mectilde du Saint Sacrement, Il Vero Spirito, cit., pp. 87-88.

[17] citato in J. Daoust, Il messaggio eucaristico, cit., pp. 136-137.

[18] M. Mectilde du Saint Sacrement, Il Vero Spirito, cit., pp. 138-139.

[19] Ibidem, p. 139.

[20] citato in J. Daoust, Il messaggio eucaristico, cit., pp. 87-88.

[21] M. Mectilde du Saint Sacrement, Il Vero Spirito, cit., pp. 80-81.