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Deus absconditus, anno 88, n. 4 Ottobre-Dicembre 1997, pp. 43-52
Don Enrico Magnani*
Nel solco dei Patriarchi
Questa comunicazione nasce da ricordi, impressioni, da tanta ammirazione per una figura che, pur nota soltanto per gli accenni biografici che i commenti ai suoi scritti ci fanno conoscere, racchiude in sé una serie di tratti che in qualche modo la propongono come esempio, come modello.
Una domanda: quando in quel 6 aprile del 1698 Madre Mectilde apre il suo sguardo verso il cielo (sguardo che era sempre diretto verso il cielo, ma lo apre in quel modo definitivo che è l’abbraccio con il Signore) e lascia le sue figlie, le sue sorelle, per incontrarsi con quel Dio che ha tanto amato, quale eredità lascia ai monasteri da lei fondati o ai monasteri che sono stati aggregati al suo Istituto?
Mi sembra di poter indicare tre principali eredità:
Una prima eredità è la Regola di san Benedetto e le Costituzioni.
Quella Regola di san Benedetto che lei ha cercato, che lei ha voluto. Il suo passaggio dalle Annunciate alle Benedettine, pur essendo stato segnato da una casualità – l’incontro con un monastero di Benedettine – non diventa però un obbligo, non è per lei una forzatura, ma si trasforma in una scelta molto precisa. Madre Mectilde «si innamora» della Regola di san Benedetto. Sappiamo bene quante volte dovrà soffrire proprio perché il suo passaggio alla regola di san Benedetto viene contestato in alcuni momenti della sua vita. Ci sarà chi domanderà: «È giusto questo passaggio? Chi ha professato in un ordine diverso ha il diritto di fondare dei monasteri di Benedettine?».
Quindi non è una casualità: poiché sono finita al monastero di Rambervillers, poiché non c’è altra possibilità per la vita religiosa, divento Benedettina per forza di cose. Al contrario: diventare Benedettina significa scoprire che la Regola di Benedetto è «la mia Regola». Lì Madre Mectilde trova finalmente tutto lo scopo della sua vita. Quindi la prima eredità è sicuramente la Regola di Benedetto e le Costituzioni. Le Costituzioni poi, lo sappiamo, non sono un’altra Regola, ma «il modo» di vivere la Regola «qui e adesso»: in questo luogo, in questo tempo.
Una seconda eredità è l’adorazione eucaristica riparatrice.
Questo «lascito» rispecchia quel particolare spirito, nato in quel caratteristico contesto storico che è quello delle guerre di religione, del Seicento-Settecento. In Madre Mectilde, però, appare evidente che l’adorazione riparatrice non è soltanto un seguire le usanze dell’epoca.
In quel periodo storico, proprio a causa delle lotte di religione, del problema delle controversie sulla Cena (e questo problema merita di essere meglio conosciuto, soprattutto in campo cattolico, perché spesso ci si accorge di quanto sia variegata la posizione dei Riformati sull’Eucaristia, di quanto sia stata ampia la discussione sul tema dell’Eucaristia) si era intensificata presso ordini e congregazioni la pratica della adorazione eucaristica.
La Riforma voleva purificare il culto eucaristico per renderlo più evangelico, più vicino all’ascolto della Parola di Dio. Allora era purtroppo anche facile, nel togliere sovrastrutture e incrostazioni che, a volte, snaturavano il culto eucaristico, buttare via anche qualcosa che era invece essenziale per la comprensione del senso pieno dell’eucaristia.
Ecco allora il recupero del senso dell’adorazione, dell’adorazione riparatrice: ancora una volta non si tratta di un obbligo o di una necessità.
In madre Mectilde l’adorazione va al di là delle riparazioni alle offese fatte all’Eucaristia nelle chiese saccheggiate, distrutte, violate da parte degli eccessi di qualche fanatico, per assumere una dimensione più cosmica. Non si tratta di una adorazione legata a questo o a quel fatto; al contrario, si tratta di una adorazione riparatrice che parte dal concetto che se l’amore di Cristo arriva nella nostra vita, noi non possiamo semplicemente sentirci amati, ma dobbiamo a nostra volta diventare occasione di amore.
È un volere, quindi, nella adorazione, essere segno di amore proprio per chi non ha amato, anche se non saprà mai che c’è qualcuno da adorare.
Quindi diventa un’attenzione di tipo (oggi potremmo dirlo con la nostra terminologia) «missionario».
Non si tratta tanto di porre qualcosa di bello, di grande, dove c’era bruttura e meschinità. Piuttosto di riparare perché c’è la volontà di essere, comunque e sempre, segno di amore.
La terza eredità: il suo cammino di vita.
La sua vita. Probabilmente la più grande eredità che lascia Madre Mectilde, è proprio la sua vita. E se le prime due (la regola di Benedetto e l’adorazione riparatrice) sono facilmente investigabili, la terza, il suo cammino di vita, appare ancora oggi come un’esperienza talmente personale che soltanto adesso, in occasione del tricentenario, proprio perché sono passati così tanti anni, può lentamente diventare un’eredità da ripensare, da studiare, da prendere a modello, quasi che si trattasse di un prolungamento della storia sacra della salvezza che ha conosciuto tanti momenti belli e tanti momenti difficili.
Rileggendo la vita di Madre Mectilde si possono individuare alcuni momenti che ricordano l’esperienza del cammino del popolo di Dio.
Non si tratta di affrontare un trattato storico o di ricostruire più di tanto quel XVII secolo così tormentato, con le sue figure e i suoi avvenimenti. Meglio riprendere alcuni episodi della vita di Madre Mectilde e paragonarli al cammino dei Patriarchi e a quello del popolo ebraico nel deserto, quasi a ritrovare nella Madre Fondatrice un nuovo Patriarca che forse, inconsapevolmente, si è trovata a viaggiare su strade che, apparentemente un po’ diverse, in realtà erano ancora quelle di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, per un deserto che forse era simile al deserto del Sinai, arrivando finalmente a quella Terra Promessa. Terra che, una volta raggiunta, fa capire di non essere il paese della delizia facile, ma piuttosto quello dove la fedeltà quotidiana al Dio che ha chiamato deve essere vissuta nella concretezza e nella docilità.
Ecco allora, tre momenti della vita della Madre paragonati a quelli della vita dei Patriarchi.
1. La chiamata
Sappiamo che nel 1631, dopo aver vinto le resistenze della famiglia Catherine de Bar lascia la famiglia che era a Saint Dié ed entra tra le Annunciate di Bruyères, dove diventa Soeur Saint-Jean Evangéliste. Prende questo nome che appare già evocativo: san Giovanni è colui che presenta l’Agnello di Dio «che toglie il peccato del mondo» (quindi Cristo Agnello pasquale). È anche l’evangelista del lungo discorso sul Pane di Vita. Quindi possiamo dire che anche in questa scelta, forse inconsapevolmente, c’era già attenzione ad alcuni particolari che poi ritroveremo.
Come per Abramo, che è il padre di tutti coloro che ascoltano (ripensiamo a Genesi 12: «Vattene dal tuo paese... verso un paese che io t’indicherò...»): l’incontro con Dio è, insieme, la promessa di una vita nuova e più vera. Dio chiama non tanto per affidare un compito, ma per rivelare il significato vero della vita. Non chiama per chiedere qualche cosa che gli «serve». Chiama non perché ci sia un bisogno di Dio, ma perché c’è un bisogno dell’uomo.
Chiamata è, insieme, invito a partire. Significativo appare che ci sia immediatamente un piccolo cammino: lo spostarsi dalla propria famiglia, dalla propria storia, per entrare in un mondo nuovo. Quando leggiamo Genesi 12, dobbiamo liberarci da ogni equivoco. Dio ad Abramo, che è il padre di tutti coloro che sono chiamati, non dice «Se tu farai questo, io ti darò...»: perché Dio non è un mercante, un venditore che contratta sul prezzo. Dio è colui che dona con semplicità: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso un paese che io ti indicherò. Farò dì te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te sì diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,1-3). Non «quando sarai uscito io ti darò...».
Bisogna uscire e andare verso quel paese: è la semplicità totale. Dio dà la benedizione gratuitamente. Soprattutto in Genesi 12, Dio non chiede ad Abramo nulla se non di partire. Abramo non deve compiere degli strani riti. Non deve promettere di comportarsi in un determinato modo, non deve seguire delle regole di vita. Dio gli dice soltanto «Parti!». L’unica cosa che viene chiesta è molto semplice e molto immediata.
Saranno le tradizioni posteriori ad introdurre riti ed altre realtà che contornano la chiamata di Abramo, ma il primo racconto, quello più scarno, è l’uscita: esci e io ti darò la benedizione universale.
É importante il partire.
Madre Mectilde compie questo primo gesto del partire. Pensava di partire per un viaggio molto preciso: da casa sua a Bruyères. In realtà il «paese» che Dio aveva indicato era ben lontano!
In quel momento, in quel 1631, Madre Mectilde non ha capito fino in fondo quale fosse il viaggio che il Signore chiedeva. L’ha capito dopo, quando le vicende della storia la costringono a viaggiare e lei sperimenta, a volte in un modo molto semplice, l’avverarsi delle promesse. Può essere una casettina dove improvvisamente trova un rifugio; può essere una dama che va in chiesa per fare delle elemosine e quando porta alla grata l’offerta incontra Madre Mectilde; può essere una serie di piccoli equivoci, normali nella vita di tutti i giorni, che però rivelano la grandezza del dono di Dio.
Quale è la risposta davanti a una chiamata di questo genere? La risposta è quella di chi si dona a sua volta senza fare prove dall’esterno, senza ricerca di garanzie.
Abramo parte. Non dice: «Dammi una prova». Glielo chiederà dopo, ma sappiamo che quelle sono tradizioni posteriori. Abramo parte. E si rimane sempre un po’ stupiti di fronte a questa figura, come davanti a tutte le grandi figure della spiritualità ecclesiale. Ci sono persone che, come Abramo, hanno sentito la chiamata e sono andati. Noi spesso davanti alla chiamata quotidiana ci fermiamo per fare i nostri calcoli. Il Signore invece dà tutto: e la risposta può essere soltanto il tutto. Non può essere una risposta a metà.
Proprio per questa necessità di totalità, quando nascono tutti i problemi a Bruyères, per cui il monastero delle Annunciate deve disperdersi, Soeur St. Jean non torna a casa. Non torna alla sua casa di famiglia dicendo: «È stata una bella avventura, ma ormai non si può portarla avanti ...».
Avrà sempre la convinzione che si possa e si debba radunare di nuovo la sua comunità.
Anche quando a Rambervillers succederà la stessa cosa, e di nuovo la comunità sarà dispersa, ciò che più colpisce è che la Madre non perderà mai il desiderio e, probabilmente la sicurezza interiore, che la sua comunità venga ricostituita.
Catherine ha detto «sì» al Signore che l’ha chiamata, e non c’è un passo indietro. Se il Signore ha chiamato, si parte. É una caratteristica dei Patriarchi: i Patriarchi non sono mai tornati indietro. Sono partiti e sono andati avanti per quella strada, anche se quella strada si faceva difficile, anche se creava dei problemi.
Se c’è corrispondenza tra l’atteggiamento gratuito di un Dio che dona e la creatura umana che risponde, c’è, però, anche una grossa sproporzione; quanto Dio da è sempre molto di più di quello che la creatura possa rispondere. Dio da se stesso. L’uomo dice: «Ti do la mia vita». Ma è necessario comprendere che quanto viene dato da Dio è molto di più. Perché la vita dell’uomo è nel tempo, mentre Dio dà una fedeltà che è per sempre.
La vita umana conosce comunque le piccole infedeltà, non fosse altro che quelle del sospetto. Conosce le difficoltà della fatica, del limite fisico, del limite psichico. Dio invece va al di là anche dei nostri limiti. Chiama nonostante – e con san Paolo potremmo dire «proprio per» – i nostri limiti, perché vuole che in Lui le nostre povertà e le nostre piccolezze trovino la totale modificazione, il totale cambiamento, la totale valorizzazione.
Dio è sempre più di quanto l’uomo possa rischiare. Dio dà sempre un dono più grande di quanto l’uomo possa donare. Ecco la radice dell’abbandono. Quando si scopre questo, ci si abbandona. Quando si scopre questa cosa, allora tutto è nel Signore.
Ecco che il primo periodo della vita di Madre Mectilde si chiude con questa scoperta: l’abbandono alla volontà di Dio.
2. Il pellegrinaggio nel deserto
È il secondo periodo. Nel 1635 insieme con le monache delle quali da due anni è già diventata priora, deve lasciare il monastero per l’avanzarsi della guerra: qui comincia un nuovo, lungo cammino. Ne elenchiamo soltanto alcune tappe significative: Commercy, Rambervillers, St. Mihiel, Parigi (Montmartre). E ancora Caen, Bretteville, Barbéry, di nuovo a Parigi (la fondazione di St. Maur des Fossés, poi Caen, priora per tre anni di quella comunità, quindi di nuovo a Parigi con il tentativo di radunare la sua comunità che era stata dispersa).
Riflettiamo su un passo dell’Antico Testamento che apparentemente sembra fuori luogo: si tratta di Deuteronomio (25,5-10): «E tu pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu. Signore, mi hai dato. Le deporrai davanti al Signore tuo Dio e ti prostrerai davanti al Signore tuo Dio».
È l’antica professione di fede che i coltivatori pronunciavano nel portare davanti all’altare le primizie del loro raccolto. Ogni anno quindi, quando la terra dava il primo raccolto dell’anno, si andava davanti all’altare del Signore, e si dicevano queste parole.
Ci si accorge che la storia dei patriarchi, quindi il lungo cammino di Abramo, Isacco e Giacobbe, in questo testo, sembra quasi un preludio, uno scenario, un fondale per una azione che viene dopo, che è quella propriamente detta, l’avvenimento centrale, quello che da a tutto il popolo la sua vera identità.
Questo avvenimento è l’esodo e il camminare nel deserto. Più ancora che il periodo iniziale, che pure è insostituibile, perché senza Abramo, Isacco e Giacobbe non avremmo l’esodo, il centro di tutto, all’interno della professione di fede di Israele è il cammino del deserto.
Noi sappiamo quanti profeti, in tempi posteriori, ritorneranno sul tema del deserto: Osea: “Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (2,16); Geremia: “Così dice il Signore: Mi ricordo di te dell’affezione della tua giovinezza, dell’amore del tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata” (2,2) e potremmo continuare così.
È il deserto, è l’esodo il momento fondamentale, perché lì Israele scopre Dio non solo come il Dio che chiama e che dà significato alla vita, ma soprattutto come il Dio che libera. Sembra che proprio in quegli anni, dal 1635 al 1653, Madre Mectilde abbia fatto l’esperienza della liberazione. Soprattutto della liberazione dai propri schemi: va in un certo luogo per fondare un monastero, ma sorgono difficoltà: il monastero non va bene. Si sposta altrove e sembra aver trovato pace. Ma le difficoltà continuano e deve andare da un’altra parte... Cinque, sei, sette, otto monasteri senza mai fermarsi, senza mai poter dire: «Sono arrivata e mi fermo qui»; per una persona, una religiosa che, non dimentichiamolo, avendo scelto la Regola benedettina, aveva dentro di se la vocazione alla stabilità..
Da una persona che vive una vita così movimentata, sembra strano possa nascere una serie di monasteri nei quali si fa voto di stabilità. Eppure la riscoperta di questo voto, probabilmente, nasce proprio da questa serie di esperienze, oltre che dalla Regola. Tutte queste esperienze fanno camminare e fanno scoprire, ogni volta, che Dio libera; libera dalle difficoltà, ma soprattutto da se stessi, dai propri schemi, da quelle che sono le certezze umane; perché ogni tanto noi ci costruiamo, anche a livello spirituale, una bella sicurezza.
Quando riteniamo di aver «imparato» come si prega, di aver «imparato» i tempi e i ritmi dell’officiatura, di aver «imparato» cosa si fa durante l’adorazione ... e ci diciamo che questo è veramente bello! Quasi l’invito: «Anima mia stai tranquilla e riposati perché i granai sono pieni!». In realtà ci accorgiamo immediatamente che niente è a posto, perché c’è tutto un altro cammino, sempre nuovo, da compiere. Anche quando si crede di aver raggiunto la tranquillità più assoluta, nasce sempre e fortunatamente quel «tarlo» che dice di dover essere nuovamente liberati.
Ecco il deserto: l’esperienza di un Dio che si rivela il pastore grande che conduce il gregge. É il Dio che fa vivere l’esperienza del deserto come un passaggio obbligatorio.
La serie di monasteri che Madre Mectilde ha incontrato, forse nessuno più li incontrerà (e per fortuna, diciamo!). Però, se pensiamo a quel cammino di cui prima si parlava, è necessario ripensare a quante volte siamo costretti ad «uscire»: da noi stessi, dalle nostre sicurezze...
Dio ci saggia con l’esperienza della prova. Dal deserto si esce provati. Il Signore è sicuro di noi, se facciamo l’esperienza del deserto.
E di Madre Mectilde il Signore è stato sicuro: quanti altri avrebbero detto «Basta!».
Come nella vicenda di Elia: Egli si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto il ginepro. Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: «Alzati e mangia». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi. Venne di nuovo l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino» (I Re 19,4-7).
Questa vicenda è bellissima. Il Dio liberatore accompagna con una presenza che è quasi tangibile.
Ed è probabile che la vocazione eucaristica di Madre Mectilde sia nata in questo peregrinare, anche se forse non consapevolmente.
Un po’ come quando si vive l’esperienza strana della «scala di Giacobbe». Giacobbe deve andar via dalla propria terra ed è convinto di dover anche abbandonare il proprio Dio. Invece lungo la strada gli appare Dio collegato con il mondo attraverso una scala; Dio dice: Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che t’ho detto (Genesi 28,15).
Questa idea di un Dio che accompagna, ovunque si vada, nasce proprio durante il periodo del deserto, forse nel momento in cui viene costruita l’arca dell’alleanza. Ma Dio non accompagna il popolo perché può essere trasportato e lui è obbligato a muoversi, ma perché è Dio che «vuole» camminare con il suo popolo.
Così, con il popolo nel deserto, con Madre Mectilde, con ogni pellegrino nel deserto si ripete continuamente l’esperienza di un Dio che è con il popolo: distruggano il monastero, disperdano la comunità... è un dolore grande, ma so che c’è sempre un Dio che accompagna.
Se anche si perdesse tutto, c’è sempre il Signore.
Ecco la scoperta dell’Eucaristia come luogo di incontro con Dio, proprio con quel Dio che «accompagna».
È anche l’esperienza dei discepoli di Emmaus, che camminano tristi e non si accorgono che il Signore sta camminando con loro. Solo quando si arriva allo spezzare del pane, si accorgono che il Signore ha camminato con loro.
È un Dio che dona una legge che diventa il pegno di un vero cammino di libertà. Madre Mectilde si rivela come una persona estremamente libera nel suo cammino, anche se sta obbedendo ad una legge, anche se la Regola monastica è ora la sua ragione di vita: ma come è libera! libera proprio perché c’è questa regola! Umanamente è un controsenso, ma la vera libertà è accettare liberamente che un Dio dia significato alla mia vita, attraverso la Regola, non vissuta come un peso, ma come una gioia, da realizzare. E qui entriamo nel terzo periodo.
3. Lo stanziamento nella terra promessa
Giungiamo al 1653 quando, superate tutte le difficoltà burocratiche (di enti civili e anche religiosi), i pregiudizi e le paure, nella piccola casa di Rue du Bac, il 25 marzo si prende possesso ufficialmente della nuova casa che diventerà il primo monastero di Benedettine adoratrici e riparatrici. Il 12 marzo del 1654, con l’atto formale e solenne della ammenda onorevole, si da inizio all’adorazione e alla riparazione.
Nel 1659 dopo altre penose vicende si inaugura il monastero di Rue Cassette. Nel 1676 Innocenzo XI, con la bolla «Militantis Ecclesiae», erige in congregazione autonoma i monasteri da lei fondati, approvando definitivamente anche la pratica dell’adorazione perpetua.
Il 1675 vede la stesura definitiva delle «Costituzioni» e l’opera di Madre Mectilde può, senza mai essere abbandonata da controversie e problemi, prendere l’avvio in un alveo, almeno apparentemente, più tranquillo.
Quando il popolo arriva nella terra promessa, le tradizioni, che fino a quel momento si sono accumulate, hanno generato quella che sarà la fisionomia generale del popolo «eletto».
Ma da quel momento le tradizioni diventano memoria collettiva di tutto il popolo, di un popolo che ha già lasciato alle spalle tutta l’esperienza nomade, tutta l’esperienza della chiamata, tutta l’esperienza del viaggio nel deserto.
Si ricorda quello che hanno fatto i Padri, ma non si è più nel deserto. Il popolo vive ormai in una terra fertile, ha le proprie case e forse dimentica quella Parola per bocca di Giosuè: «Vi diedi una terra, che voi non avevate lavorata, e abitate in città, che voi non avete costruite, e mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti, che non avete piantati» (Giosuè 24,13).
Ben presto, quando il popolo ebraico si stanzia nella Terra Promessa, la difficoltà si fa nuova: è difficile coniugare lo stato attuale di vita con l’esperienza che l’ha costruita.
Così come è difficile vivere, in un monastero «tranquillo» e «stabile», l’esperienza di una Madre Fondatrice che per buona parte della sua vita ha viaggiato.
È un’esperienza comune anche ad altri istituti religiosi.
È difficile perché bisogna imparare a vivere con un cuore da «pellegrino», con un cuore da persona che cammina nel deserto, proprio nel mezzo di un’esistenza stabile, che ha tutte le caratteristiche per essere un’esistenza sicura. E bisogna lavorare tanto su se stessi per capire cosa significa essere parte di un «popolo sacerdotale» e di una «nazione santa».
Perché è possibile, anche se non assolutamente facile, capire che il Signore accompagna, che c’è un progetto quando si viene sballottati di qui e di là senza alcuna sicurezza umana cui aggrapparsi; in quel momento è possibile dire: «Signore, aiutami tu». Ma quando le sicurezze umane sono tante, è molto più facile dare importanza a quelle e dimenticare che anche nella sicurezza è necessario avere il cuore da pellegrino.
Per cui, l’osservanza di tutte le regole, di tutti gli orari, delle consuetudini, delle tradizioni, deve diventare come una novità perenne, giorno per giorno. È vivere come se si arrivasse nel proprio monastero ogni mattina, dopo essere stati scaraventati da tutte le parti; non con la tranquillità, quindi, di chi dice «È stato così ieri, l’altro ieri, e ancora avantieri, e sarà così per sempre». Perché magari da domani tutto è diverso e forse per un motivo banalissimo. Ma se c’è il cuore del pellegrino, si è sempre in viaggio, e non ci si attacca tenacemente a ciò che, pur bello, può finire o cambiare.
Vivere nella Terra Promessa, ma con il cuore da pellegrino. È probabile sia stata questa consapevolezza che ha dato a Madre Mectilde la forza di superare tutte le difficoltà, quelle che sfiancano, quelle grandi come quelle più piccole. Il cuore da pellegrino è più difficile da mantenere nelle piccole cose, rispetto alle grandi.
Nel libro del Deuteronomio si ricorda continuamente questa idea: «Baderete di mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi do, perché viviate, diveniate numerosi ed entriate in possesso del paese che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri. Ricordati dì tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te. Osserva i comandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie e temendolo; perché il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato. (Deuteronomio 8,1-10)
«Ricordati... ricordati sempre...»: ed è molto bello, in questa idea del ricordo, ripetere la preghiera che i fratelli e le sorelle di religione ebraica dicono tutte le volte che entrano o escono da una porta: «Shemà, Israel», cioè «ascolta Israele»... il mettersi sempre in ascolto (perché c’è sempre qualcosa che ci viene detto), e nell’andare in cucina... «ascolta»; anche nell’andare nella tua cella monastica o nel frastuono della via andando al lavoro... «ascolta». È importante davvero ritrovare questo senso vero del cammino nel deserto, perché il pericolo è quello di dimenticare il Signore e di credere orgogliosamente e insipientemente che con la forza del proprio braccio si è arrivati a costruire.
A volte diciamo: «Noi siamo qui perché siamo bravi...», oppure: «Questo monastero, questa comunità, questa parrocchia, questa vita va avanti perché ci sono io...» e anche «Se non ci fossi io... chissà cosa succederebbe». Ebbene, ogni volta bisogna tornare alle fonti con un culto autentico, liberato da una superstizione, il culto del memoriale. Fare memoria: è l’essenzialità del culto. É il culto autentico delle grandi feste ebraiche.
Ciò che colpisce delle feste è che inizialmente potevano essere celebrate in qualsiasi luogo, ma una volta giunti nella terra di Canaan, si andava a Gerusalemme in pellegrinaggio. C’era così il cammino, per rivivere, almeno simbolicamente il cammino dei Padri.
E qui si pone necessaria una conclusione.
Un monastero di Benedettine adoratrici oggi, come può fare memoriale autentico della Madre fondatrice? Della giovane Catherine de Bar o della «matura» Madre Mectilde?
Della religiosa sballottata da una parte all’altra della Lorena o della «priora» ormai stabilita?
Della suora incerta sul futuro della vita religiosa o della Madre che scrive le Costituzioni del suo Istituto?
Ogni monastero deve, a questo punto, mettersi in pellegrinaggio. Un pellegrinaggio che sia ritorno alle fonti e insieme saggezza di cammino.
Ritorno alle fonti senza tornare indietro: è impensabile ricreare oggi le condizioni del 1600, però nello stesso tempo tutta la ricchezza di quel 1600 deve essere vissuta oggi. Non tutto può essere vissuto come ai tempi di Madre Mectilde, ma tutto deve essere vissuto nello spirito di Madre Mectilde. Quindi nasce l’impegno a riprendere in mano i testi di Madre Mectilde per farne una saggia lettura. Nulla deve essere perduto, ma non tutto deve essere eseguito in quel modo. Non tutto ciò che è stato detto e fatto deve essere necessariamente rivissuto. Però tutto deve essere vissuto con l’indicazione che tutto ciò che accade è un «segno dei tempi», che in qualche modo rivela una piccola parte del progetto che Dio ha per noi.
Non è sempre facile vedere distintamente il disegno di Dio sul cammino del popolo, ma abbiamo sperimentato – e Madre Mectilde ce lo insegna – che Dio è sempre con noi e con noi è la sua protezione potente.
L’augurio è proprio quello di vivere un centenario che sia insieme riscoperta e cammino. Riscoperta di ciò che è stato e cammino verso ciò che è nuovo: l’autenticità del memoriale.
* Sacerdote della Diocesi di Milano. Conferenza tenuta alla comunità monastica di Gallarate nell'aprile 1997, in occasione dell'apertura delle celebrazioni per il terzo centenario della morte di madre Mectilde de Bar. Ringraziamo di cuore l'autore per aver gentilmente rivisto il testo.