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Deus absconditus, anno 89, n. 1, Gennaio-Marzo 1998, pp. 44-56

 

Mons. Andrea Ruggiero*

Quando la vita si fa dono

C’è modo e modo di scrivere un libro. Si può scrivere con l’intelletto, facendosi guidare da un pensiero a lungo cercato e finalmente afferrato dopo molti tentativi falliti, «provando e riprovando», direbbe il Poeta. Si può scrivere col cuore lasciando da parte le elucubrazioni dell’intelletto. Si scrive bene quando l’intelletto si fonde col cuore e le pagine si arricchiscono di mille colori, come le miniature dei codici antichi degli scriptoria benedettini con «quell’arte che alluminare è chiamata in Parisi» [1]. E talvolta bastano poche carte per tracciare e, dirò così, condensare un poema. Questa constatazione mi è capitata di fare quando per la prima volta in agosto lessi la biografia di M. Catherine Mectilde De Bar, scritta con intelletto d’amore da mons. Giuseppe Capone. L’ho poi riletta varie volte nei mesi successivi. Il titolo stesso «Quando la vita si fa dono» sintetizza ed evidenzia l’essenza di un messaggio di un altissimo valore ascetico e mistico; le citazioni delle più significative espressioni di questa donna meravigliosa ne scandiscono le vicende; i titoli dei singoli capitoli hanno il pregio di caratterizzare con pennellate sapienti o, se si vuole, con rapidi colpi di scalpello un volto inconfondibile di suprema bellezza. Non mancano le indicazioni bibliografiche e l’apparato analitico che fanno dell’opera uno strumento di conoscenza e di ricerca facilmente consultabile [2].

Le prime pagine sono l’ouverture di una grande opera musicale. La melodia si svolge pacata sull’onda sonora degli strumenti e segna, a dir così, il motivo di fondo, quel leit-motiv che ritornerà poi sempre in seguito. Lo scrittore racconta un incontro suggestivo con Nostra Madre Scolastica [3] con cui si intreccia un sogno di m. Mectilde. In questo ci sono le linee portanti della sua vita, tutta raccolta e sintetizzata in una sequela dolorosa e forte del Cristo, il cui amore le è penetrato dentro e non la lascia più. Per la giovane vita di Caterina, orgogliosa della sua bottega, la più bella della grande piazza, cadono tutti gli interessi caduchi, sfumano i sogni, crollano gli ideali, rimane un sogno solo, un ideale per il quale vale la pena di vivere. Lui, il Cristo, da amare e da seguire fino in fondo. Si moltiplicano le prove, brandelli di vesti e di pelle rimangono attaccati ai pruni che ricoprono la via, alle pietre aguzze e pungenti e laceranti che la fanno sanguinare. Non importa, c’è Lui, il più bello dei figli dell’uomo da amare e da possedere. «E Caterina entrò per la porta stretta e nessuno la vide più: seppe divenire un nulla infinito, nella certezza che solo di infinito si sarebbe colmata...». E così si stabiliscono subito le coordinate della sua santità: da una parte il nulla, l’annientamento, la morte, dall’altra l’Infinito, la realtà assoluta, la vita. Da una parte il mondo che passa e muore, dall’altra Dio che rimane e vive.

La grande avventura di Caterina Mectilde è cominciata: la funerea coltre nel giorno della sua professione nell’ordine della Vergine Maria o Ordine dell’Annunciazione l’aveva ricoperta e, dirò così, sepolta. La giovane Caterina non è più. Ne è nata un’altra, che ora deve camminare per vie nuove, stabilite e cambiate continuamente dalla divina Provvidenza. Ad occhi aperti, guardando in faccia la realtà dura di ogni giorno, decisa ad andare avanti ad ogni costo, anche quando l’energia naturale dello spirito crolla sotto il peso di una tristezza mortale e le tenere forze giovanili si piegano. Depressione? Malinconia? Primi fallimenti? Forse un po’ tutto questo, ma non si piegò la tempra. «Nella devozione a Maria riusciva a trovare quel po’ di luce che serviva a non perdere, in quel buio dello spirito, almeno la speranza». E non la perdette. S’affacciò subito all’alba ancora incerta del giorno faticoso l’astro della luce materna di Maria, che sarà poi una costante sicura nelle tempeste future. Una guerra dentro e l’altra fuori: sembra proprio questa la caratteristica della sua vita eroica.

Chiusi i giorni del noviziato, ecco la vita quotidiana da percorrere. Piegarsi, piegarsi e piegarsi ancora senza un lamento. Ed anche qui un sole la illumina e la riscalda. Con la devozione a Maria cresce l’amore all’Eucaristia, il suo autentico intramontabile sole. «Alla lotta univo la preghiera, chiedendo instancabilmente a Nostro Signore, in modo particolare nella santa Comunione, di togliermi i due difetti quasi naturali in me: l’essere cioè sempre tanto pronta a reagire e un sentimento esagerato del mio onore». Non possiamo non credere all’affermazione di Caterina: «i miei desideri furono esauditi e mi furono dati in cambio la dolcezza e la moderazione, che divennero quasi parte della mia natura» (pag. 45).

Così la creatura è riplasmata dalla mano di Dio, quasi ricreata anche se, come opportunamente fa rilevare mons. Capone, «il cammino tracciatole da Dio è ancora lungo e su sentieri difficili e pieni di insidie» (pag. 45). E questo cammino sarà difficile non solo per la impraticabilità dei sentieri della storia, ma anche e soprattutto per quella interna caratterizzazione spirituale che un giorno farà riemergere «l’uomo vecchio» da sconfiggere continuamente. Caterina l’aveva bene individuato questo scoglio piantato nella sua stessa persona: «L’orgoglio è la fonte di tutte le nostre sventure» (pag. 47). Verranno tempi sconvolgenti, nei quali la povera donna sarà costretta a spostarsi per cercare rifugi per sé e per le sue figlie. La funesta Guerra dei Trent’anni (1618-1648), in cui Spagna e Francia si dilanieranno senza esclusione di colpi, trascinandosi dietro mezza Europa, insanguinando la bella Lorena, e seminando morte, fame, peste, si abbatte su popoli inermi, che nulla cercavano se non vivere in pace e travolge anche i sacri recinti dove anime contemplative hanno scelto di cantare la lode di Dio. Ed è per Caterina, che ha preso il nome di suor San Giovanni, il momento della prova: un mattino di maggio bisognò lasciare il nido giocondo delle Annunciate di Bruyères e, dopo una breve sosta a Saint-Dié nella casa paterna, fuggire lungo strade impervie e pericolose, al monastero di Badonvillers. C’è l’attraversamento a guado di un fiume in cui emerge il coraggio di Caterina. In questa donna c’è sempre una «virilità» insospettabile. E poi il rifugio nel palazzo del Duca Francesco per sottrarsi alle incursioni delle soldataglie sparse a fare bottino. E qui un episodio che ha qualche cosa di epico: «Caterina, senza tremare dinanzi al generale Briegdfeld, si toglie lentamente il velo per mostrare di essere veramente una monaca e poi fissa il generale con i suoi occhi limpidi e sereni che non riuscivano a nascondere a nessuno il fascino dell’innocenza» (pag. 64). È la vittoria di chi è sorretto dalla forza di Dio. Ma bisogna ancora mettersi in viaggio, questa volta con la sola compagna per sfuggire alle interessate profferte di uno dei capi dei soldati, in mezzo a una desolazione spaventosa verso Commercy. Qui, a 22 anni, Caterina ricostruisce il nido delle colombe di Dio e riprende la vita monastica. Il Calvario, però, era solo agli inizi. La peste distrugge quello che la guerra ha risparmiato. Rimasero in 6, ma non si perdette d’animo Caterina e, dimenticando se stessa, si piegò, madre affettuosa, sulle piaghe dei morenti. Giunse anche lei alle soglie della morte, eppure stava per cominciare una vita nuova, alla quale il buon Dio l’aveva preparata senza mai farle capire il suo misterioso disegno. Si riparte. Sempre ricercatrice della Volontà di Dio. Ora è a Saint-Dié la meta del lungo pellegrinaggio. L’abbraccio del padre, di una sorella (un’altra era morta), di un fratello minore e poi nella casa paterna ancora il monastero. Ben presto, però, la troviamo ancora in cammino tra mille pericoli e paure per Rambervillers, dove vive una Comunità Benedettina. Qui il disegno nascosto di Dio prende forma definitiva. Il 2 luglio 1639 entra nel noviziato delle Benedettine per ricominciare tutto daccapo e l’11 luglio 1640 fa la sua nuova Professione col nome di suor Mectilde (nome che significa «forte nel combattimento», annota mons. Capone). C’è qui una piccola annotazione da fare che, io penso, è la più perfetta sintesi della spiritualità di questa donna, che dopo una lacerante esperienza di vita, si vota all’annientamento di tutta se stessa. Il brano della lettera è riportato a pag. 103. Il senso si può così ricostruire: a) crocifissa al mondo fino al punto da considerarmi, ella dice, al di sotto di ogni creatura; b) la mia vita deve essere una continua morte; c) non mi fermerò finché non sarò arrivata là dove Dio mi vuole. Pellegrina è stata finora e sarà ancora Mectilde per le strade del mondo e pellegrina per le strade di Dio.

A St. Mihiel una ispirazione: mettere tutto nelle mani della Vergine e aspettare: «In virtù del titolo sacro di Madre di Dio, Maria diviene il riferimento dei peccatori e la forza di tutte le anime che si dedicano alla virtù» (pag. 109). E qui il pellegrinaggio al Santuario della Madonna della Valle benedetta, che ha il profumo di un fioretto francescano. Le suore scrissero una lettera alla Madonna e vi apposero la loro firma con sr. Mectilde. Tre di loro posero il foglio sull’altare e attesero assorte in preghiera. La inflessibile Abbadessa di Montmartre, che aveva sempre duramente rigettato questa richiesta, accetta le suore di Saint-Mihiel. Il 21 agosto 1641 con sr. Luigia dell’Ascensione Mectilde parte per Parigi, dove è poi raggiunta dalle altre rimaste a soffrire nella Lorena. E di qui ancora riparte. Si susseguono gli spostamenti da una città all’altra, che la narrazione di mons. Capone ripercorre con chiarezza. In Mectilde, pur tra le peripezie dei viaggi c’è sempre la gioia di trovare un Tabernacolo in cui adorare Cristo Ostia, l’impegno di amare e servire le sorelle tanto provate della sua Lorena, lo zelo missionario della catechesi per le donne del popolo che le chiedevano di parlare loro di Dio. Parlava di Dio, ma era sempre alla ricerca della volontà di questo Dio misterioso. Chiunque si sarebbe stancato di questa ricerca che durava da anni. Mectilde non si stanca. Finalmente S. Mauro dei Fossi l’accoglie, «il primo nido di Parigi» lo definisce mons. Capone. Qui si organizza la vita sognata e inseguita con coraggio per le vie della Francia «con l’osservanza scrupolosa della regola, con la messa quotidiana, l’ufficiatura nelle ore stabilite dalla liturgia, con la celebrazione delle feste, con le relative vigilie e digiuni dell’Avvento e della Quaresima» (pag. 132). Lo spirito è nella notte – condizione direi propria dei mistici – ma la fede è lì come una roccia, su cui si abbarbica la speranza e fiorisce la carità. Un Dio infinito e un nulla infinito si fronteggiano. Sr. Mectilde diventa l’eroina dell’annientamento e della abiezione alla luce della spiritualità del Card. De Bérulle, che attraverso una scuola ricca di santi come Olier, Condren, Eudes, Vincenzo de’ Paoli, le carmelitane francesi, diede un volto inconfondibile alla religiosità della Francia nel sec. XVII. Un annientamento però, che non si ferma, dirò così, ad uno scavo. Tutt’altro. È il primo passo del cammino che conduce l’anima alla adesione totale a Cristo, il Quale è centro focale della spiritualità berulliana, in cui si immerse Mectilde. Annientamento e cristocentrismo, riferisce giustamente Capone in una pagina luminosa di questa biografia, si saldano e l’anima diventa per l’abnegazione pura potenza, idonea alla deificazione (pag. 134). Da questo annientamento cristocentrico scaturisce una austerità umanamente incomprensibile se non fosse accompagnata e imposta a nome di Dio da un direttore di spirito, p. Giancrisostomo, diventato «profeta» nel senso etimologico della parola.

La fragilità, cui ci ha abituati la dottrina consumistica del nostro secolo, ci impedisce di capire che proprio nella Crocifissione-Eucaristia si può gridare con tutte le forze dell’anima: «Signore, io ti amo con la più viva tenerezza; la più grande, la più sentita che può sgorgare dal cuore dell’uomo... Signore, io sento che essa è pari alla tua santa misericordia... Tu sai, e te lo grido tra questi gorghi crudeli e violenti che vogliono impedirmi che tu mi senta; tu sai che voglio appartenerti senza riserve... Perché ti nascondi? Ecco: attendo con l’anima tesa che finalmente si svegli anche per me l’aurora del mio giorno senza nubi...» (pag. 137).

In questa fede totale, in questa speranza incrollabile, in questo amore che attende «il giorno senza nubi» è il segreto che dà a Mectilde la forza per vivere in croce e morire sorridendo, non solo, ma anche di essere maestra di spiritualità, per cui il suo parlatorio diventa una scuola, mentre il suo cuore cerca la solitudine dell’eremita per annientarsi nell’infinito di Dio.

A San Mauro dei Fossi tutto è ormai avviato nel modo giusto e m. Bernardina, che ne aveva diretto le sorti, può ritornare a Rambervillers, il suo monastero di elezione. Le succede m. Mectilde. È questo il segno dell’approdo definitivo? Non ancora. M. Mectilde a 33 anni nel 1647, si rimette in viaggio per Caen, un monastero che ha bisogno di una linfa nuova per non cadere inaridito. Mectilde non ha più una volontà sua, è Cristo che dispone di lei anche se in apparenza sono gli uomini a decidere. Non è bene accetta alle religiose di Caen. Non importa. Lei dice grazie al suo Dio e canta il Te Deum e comincia la sua donazione alle suore, silenziosa, dolce e forte insieme. E così ne conquista la fiducia. Per le altre la gioia, per sé la morte oscura. Il 6 dicembre 1648 a Bernières: «Nostro Signore mi conduce attraverso tenebre e povertà: non so più che farà di me, non conosco più, non gusto più, non vedo più, non so più niente se non che bisogna perdersi e per di più non so in che modo devo perdermi. Tutto quello che posso fare è di restare in pace, abbandonandomi senza riflessione alla condotta divina» (pag. 154). È il metodo dei santi. Quando riprende la via del ritorno nel 1650 al monastero di Rambervillers i cuori sono cambiati.

Rambervillers era il monastero in cui aveva fatto la sua Professione di stabilità, ma il Signore ha le sue leggi e le sue vie diverse da quelle degli uomini. Altra bufera, altro distacco. Il 1651 con altre quattro sorelle è di nuovo a S. Mauro dei Fossi, dove, però non trova le religiose che vi aveva lasciato. Son fuggite a causa della guerra. Parigi è triste come un cimitero e la vita con le ritrovate sorelle è tutta una sofferenza. E Mectilde: Sia fatto come tu vuoi, Signore.

Pre-morte? Un complesso di fenomeni naturali, talvolta allucinanti, caratterizza una malattia lunga e penosa, che la riduce ad uno stato di impotenza anche a parlare: «sono diventata muta e non ho più niente da dire, perché non so e non conosco più nulla della vita interiore», scrive a m. Benedetta. «Non ci vedo più affatto. La mia parte è essere niente» (pag. 178). E non si pensi che questi siano pensieri passeggeri. Mectilde li conferma più volte e intravede proprio in questo silenzio la sua «piccola via». Una delle tante vie della storia, dove camminano i santi, annota mons. Capone. E qui la m. Mectilde dà una prova di discernimento virile che ci sconvolge. Nessuna delle strade proposte che le venivano fatte trovano risonanza nel suo cuore. Men che mai l’attira quella corrente di spiritualità disumana e disumanizzante che si faceva strada nella religiosità del ‘600 e, ammantandosi di ricerca assoluta della perfezione, chiudeva le anime al soffio autentico dello Spirito Santo. Giansenio ne aveva segnato l’inizio e il famoso monastero di Port-Royal ne era divenuto il centro propulsore. Mectilde dice di no a tutte le voci degli uomini, che ella pensa fuori della prospettiva del Verbo Incarnato, dell’Eucaristia e del Corpo Mistico. A questa prospettiva il de Bérulle, dopo la prima tendenza ad un astratto teocentrismo, era giunto. Cristo occupa il posto centrale con il suo annientamento (kénosi) e conduce le anime per una via di immolazione-offerta conformandole al suo sacrificio. Riparare, dunque, ecco il centro caratterizzante della spiritualità di Mectilde. Così nello stesso secolo sarà per Margherita Maria Alacocque (1647-1690), discepola e confidente dello stesso Maestro Cristo.

E proprio mentre tutte le prospettive umane cadono, mentre il suo corpo crolla sotto i colpi della malattia, delle austerità, delle preoccupazioni, dopo un’assillanle serie di spostamenti e di insuccessi, questa creatura, forte come una quercia e vitale come un olivo contorto, abbarbicato alla roccia, ma sempre ricco di frutti, sogna e pone le basi di un Istituto nuovo, che praticasse l’adorazione perpetua del SS. Sacramento come scopo fondamentale. Sono state scritte da mons. Capone su questo argomento alcune pagine (181-188), che alla informazione storica precisa uniscono una interessante ricerca psicologica, la quale spazia sicura negli itinerari dei grandi maestri di spiritualità del ‘600: Pascal, Nicole, Bourdaloue, Bossuet, Tronson, Vincenzo de’ Paoli, Fénelon. Queste pagine vanno meditate per capire la originalità del magistero eucaristico mectildiano. Nel cuore della Madre comincia a farsi strada una piccola sorgente di acqua pura che sgorga dalla roccia e poi cresce e si fonde con altri rivoli fino a dar luogo ad un corso travolgente «come torrente ch’altra vena preme». Il racconto della riflessione di Mectilde nella casa della marchesa di Boves, dinanzi al quadro delle vestali adoranti un idolo di pietra, ha il tocco dell’epico sogno di una eroina alla vigilia di una battaglia. E così parte il grande sogno. Il Signore traccia le sue vie e le fa incontrare con quelle degli uomini fino a coinvolgere il progetto sognato da una povera suora con le vicende umane di un Regno e di una Regina, Anna d’Austria. Si pensi al voto di istituire e assecondare la formazione di una Congregazione di religiose che si impegnino all’adorazione perpetua del SS. Sacramento, emesso da Don Picoté per conto di questa regina. La decisione della povera Suora trionferà anche delle tortuose durezze della burocrazia, anche ecclesiastica. Si pensi alle opposizioni interposte da un «monaco esperto» come Dom Roussel che vengono diradate dalla Provvidenza. La ricostruzione del colloquio-scontro tra i due (Mectilde-Roussel) è fatta da mons. Capone con arte e psicologia degne di nota (pagg. 208-211).

Questa però è la facciata della storia, quella che un ricercatore può trarre fuori dai documenti d’archivio, ma vi è una realtà interiore, che sfugge allo storico. Vi è la volontà di Dio. «È l’opera mia, io la farò, le diceva Gesù» (pag. 212). Si interponeva anche la paterna protezione di S. Giuseppe. E così il 25 marzo 1653 Gesù Eucaristia entrava da Re nella povera casa di Rue du Bac.

Una reggia povera di cose belle, secondo lo stile del Figlio del carpentiere di Nazareth, ma ricca di cuori ardenti di amore. Più di tutti ardeva il cuore di Mectilde, che in un rapimento mistico vide «la Santa Madre di Dio che presentava al Signore Gesù Cristo il nuovo Istituto e tutte le anime che già ne facevano parte, perché lo benedicesse e moltiplicasse quel piccolo numero di vittime» (pag. 214).

Sul ceppo benedettino affondava le sue radici il carisma dell’annientamento nello spirito sacrificale dell’Eucaristia. Si scriveva una nuova pagina di storia claustrale, in cui l’Ora et Labora di Benedetto si trasferiva nel cuore orante di Scolastica e si invernava in modo originale dinanzi all’Eucaristia, trionfo dell’amore del Verbo Incarnato e segno del dono di vittime annientate nell’amore adorante intuito da Mectilde.

Tra le tante deficienze nella vita spirituale dei monasteri e del Clero secolare e del popolo, che avevano offuscato lo splendore della Chiesa, Sposa di Cristo, nasceva una nuova primavera dello spirito. Sulle tenebre portate da satana tornava a trionfare la luce. Questo trionfo era affidato alle «ascose vergini» delle piccole, ignorate vittime che si immolano adorando per riparare le offese arrecate al Sacramento dell’Amore divino.

La penna di mons. Capone qui racconta e canta l’inizio di una successione di anime adoranti che fanno seguito da tre secoli al gesto compiuto per la prima volta dalla regina Anna d’Austria. Dopo tutto non sono tutte regine queste sorelle che stanno in ginocchio davanti al Re, loro Sposo? Una regalità penitente, riparante, annichilante. Insiste a questo punto Mectilde: «Bisogna perdersi senza riserve per non ritrovarsi più: mi sembra che a questo mi conduca la mano adorabile di Dio» (pag. 249). Messaggio paradossale per la logica del mondo, realtà sublime per la sapienza cristiana. Lo aveva intuito 16 secoli prima Paolo di Tarso scrivendo ai Filippesi (3,7ss): «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti».

Lo spirito della fondazione di m. Mectilde, lo dice lei stessa, è proprio qui: «ottenere la grazia del silenzio, del ritiro in solitudine e del nulla per tutte le anime che verranno qui» (Lettere al Bernières, pag. 250). È proprio questo il leit-motiv di tutta la spiritualità mectildiana. Ritorna, difatti, continuamente nelle sue lettere e di più nelle sue conferenze, le quali, pur non avendo la sistematicità di un trattato, presentano una organica visione della teologia del Verbo Incarnato, della Redenzione, della presenza nell’Eucaristia adorante e adorata, di tutta la liturgia, canto di lode al Signore, ed insieme espressione della fede ortodossa. La lex orandi si identifica con la lex credendi... Il bel testo «L’anno liturgico» raccoglie ed evidenzia quanto Mectilde pensò, amò e disse nella sua missione benedettina di adoratrice del Mistero eucaristico. Il Sacramento per eccellenza. L’Eucaristia è essenzialmente lode e ringraziamento realizzati attraverso l’offerta pasquale della Passione-Morte-Risurrezione di Cristo, il quale, dandoci il suo Corpo e Sangue, ci dà il suo stesso sacrificio e ci inserisce nella storia della salvezza. Cristo è il perfetto perpetuo adoratore del Padre. Nella sua adorazione va inserita l’adorazione del cristiano il quale viene così ad essere associato a Cristo, che ripara il peccato ponendosi e ponendoci nello stato di obbedienza, abbandono, sottomissione alla volontà del Padre. È la dottrina soteriologica di Paolo, che dice di completare in sé quello che manca ai patimenti di Cristo (Col 1,24).

M. Mectilde vive questa riparazione talvolta anche fisicamente come avvenne alla vigilia della festa dell’Epifania del 1678 quando, ella racconta, «Egli (Gesù) mi abbatté tutto di un colpo ed io rimasi annientata per tre o quattro ore» [4]. L’adorazione perpetua è un prolungamento del Sacrificio eucaristico, che prende la totalità delle giornate. L’Avvento, il Natale, la Settimana Santa, la Pasqua, la Pentecoste, tutte le celebrazioni liturgiche scandiscono questo stato di adorazione riparatrice nel silenzio, nell’accettazione della Croce e dell’Eucaristia e nell’impegno della imitazione del Cristo, il Riparatore. Si stabilisce così un itinerario di santità, che parte dal Crocifisso, si nutre dell’Eucaristia, tende all’imitazione del Cristo, modello di vita. Perciò la monaca adoratrice, secondo Mectilde, non è tale solo quando è in ginocchio al centro del Coro a rendere presente nella sua persona tutto il monastero, la Chiesa e il mondo, ma anche, e direi di più, quando si alza per dare il posto ad un’altra sorella e comincia a muoversi nel suo servizio monastico, si incontra con le altre abitatrici della civitas Dei del sacro recinto e continua a vivere e a cantare e a soffrire e a godere e a morire e ad essere glorificata. Gesù rimane in uno stato di sofferenza per gridare il suo amore, la monaca adoratrice rimane in uno stato di adorazione per glorificare il suo Amato. È questa la santità, cioè l’imitazione del Salvatore Crocifisso con un’umiltà profonda che ci rende, dice m. Mectilde, piccole e sconosciute, dimenticate e del tutto ignorate da parte delle creature [5].

Ma la teologia della adorazione mectildiana non si ferma qui. Il monastero di m. Mectilde non è un hortus conclusus da cui non si esca e in cui non si entri da parte degli estranei. C’è una porta senza chiavistelli, trasparente, traslucida, traforata, trasfigurante, senza clausura, attraversata da un continuo flusso d’amore. La chiamerei porta missionaria. Per questo la monaca dell’adorazione perpetua passa continuamente con un vaso di profumi alla ricerca di Cristo, che è ancora morente nei poveri, nei sofferenti, negli emarginati nei forestieri in cerca di patria, per spezzare quel vaso e spargere i profumi sui piedi del Crocifisso. Piangendo, adorando, pregando, gridando, come Maddalena de’ Pazzi: «L’Amore non è amato. Amate l’Amore».

Caratteristica di questo amore «missionario» è la semplicità e l’umiltà profonda. In un Colloquio familiare, di quelli in cui il cuore si manifesta con assoluta trasparenza, del marzo 1694, m. Mectilde dice: «Sorelle mie, un’anima abbandonata al Signore si rende un giocattolo nelle sue mani; si lascia palleggiare, rivoltare, capovolgere, non oppone la minima resistenza e si lascia portare come Dio la conduce... L’abbandono è la via più breve per andare a Dio ma non è certamente la più facile, poiché fa molto soffrire la natura...». Lo ripeterà con parole più o meno identiche santa Teresa di Lisieux anch’essa giocattolo nelle mani di Dio.

A questo fervore eucaristico si intreccia nel pensiero e nella prassi monastico-obbedienziale per amore l’affidamento alla Madre di Gesù, solennemente sancito il 28 maggio 1654 con un documento ufficiale che dichiara Maria Abbadessa in perpetuo. Non sono gesti vuoti quelli che le monache osservano ancora. A Maria il primo posto nel Coro e a mensa, e quanto a Lei si serve passa a sfamare il povero che attende in parlatorio a rappresentare Cristo sofferente. Sono numerose e toccanti le espressioni della fiducia di m. Mectilde nella Madre di Dio, cui è affidato l’Istituto della adorazione perpetua. Il 16 febbraio 1694, qualche anno prima di morire, diceva alle sue figlie: «Benché io non vi sia più niente, la mia consolazione e gioia è nel fatto che la SS. Madre di Dio se ne prende cura e ne è la Madre. Io ne sono dispensata, non esteriormente – poiché ho autorità come superiora – ma in realtà – la Madonna riparerà lei le mancanze che io ho commesso. Lei ha preso tutto su di Sé, avrà cura di tutto, è tutto affar suo; ed io L’ho ringraziata tanto. Fate molta attenzione a questo che vi dico, e non parlo a caso, né di testa mia: io morirò in questa persuasione che è la mia gioia: l’Istituto è nelle mani della Vergine SS. che ama quest’Opera: è sua creazione e lo vedrete in paradiso» [6]. Dall’Eucaristia alla Madre di Dio, alla Chiesa il passo è semplice. L’Istituto scaturito dall’amore di Cristo, affidato alla Madre «è opera santissima della Chiesa» [7]. C’era nel cuore di m. Mectilde un sogno sempre accarezzato durante le peripezie, cui il Signore l’aveva assoggettata: «un monastero a misura delle necessità e delle esigenze della vita claustrale, un luogo molto piccolo e dove non si sia né viste né conosciute da nessuno» (pag 258) con tutti i requisiti per la sua stabilità. In rue Cassette c’era un ampio fondo adatto, circondato dal malfamato borgo di Saint Germain e quindi non preferito dai benpensanti, ma proprio per questo scelto da Mectilde, perché «la riparazione deve espiare tutto il male che là si commette» (pag. 259).

C’è, però, da fare prima un ritorno a Rambervillers e poi ad Epinal a rivedere le compagne di un passato di dolore sempre vivo e presente nel suo cuore, in particolare le «Annunciate», tra le quali il suo sogno giovanile di silenzio e di annientamento aveva trovato il primo nido. L’ultimo sogno trovò l’approvazione di esperti delle opere di Dio (Vincenzo de’ Paoli, Giovan Giacomo Olier, Boudon, Hayneuve) e partì e giunse rapidamente alla realizzazione in appena un anno, marzo 1658 – marzo 1659. Non mancano però, anche adesso difficoltà provenienti dall’interno e dall’esterno; sono come il sale che condisce e insapora tutte le sue opere. La Madre supera anche la malattia sopravvenuta e scrive il suo piccolo trattato: Le Véritable Esprit (Il Vero Spirito), che è lo spirito benedettino rivisto e rivissuto alla luce dell’Eucaristia e poi gli Statuti del nuovo Istituto. Avvengono le prime aggregazioni all’opera appena iniziata, Toul e poi anche Rambervillers, non senza l’intervento di Dio e poi anche Nancy. Nel 1676, dopo lunghi e tortuosi eventi, il Papa Innocenze XI approva definitivamente l’Istituto dell’Adorazione perpetua del SS. Sacramento. Poi Rouen ha il suo monastero, costato immensi sacrifici e dolori alla m. Mectilde, poi nasce il Monastero di via Nuovo S. Luigi e quindi Caen. Infine anche a Varsavia, in Polonia, sorge l’adorazione perpetua. Alle dodici religiose in partenza per Danzica m. Mectilde fa pervenire un messaggio, che è un programma di vita: Vi considero come missionarie del SS. Sacramento. Andate, vittime care, andate a portare la gloria e l’amore del SS. Sacramento nel regno di Polonia e fate che nascano adoratori di questo adorabile mistero...Vivete solo di Lui (Cristo) e per Lui... (pag. 298). Nacque il monastero di Varsavia che scrisse pagine d’oro nella storia di quella nazione fino al 1944, quando un bombardamento aereo lo ridusse ad un cumulo di rovine, una bara in cui giacquero cantando il loro purissimo amore a Gesù Eucaristia quasi tutte le 40 religiose che vi abitavano. Mons. Capone qui esclama: Perché?...Forse questo dramma perché era già scritto nel cuore di Mectilde annientata e morta amando. Signore, ora non sei più solo!

Il 6 aprile 1698 Mectilde compiva il suo corso terreno: 83 anni di vita, la maggior parte dei quali era trascorsa tra viaggi e spostamenti lastricati di dolore e di annientamento; anni di offerta quotidiana dinanzi al Tabernacolo dell’Ostia divina, impegnati tutti a scrivere un testamento di amore a Dio, a Cristo, al mondo intero. Da quel giorno sono trascorsi tre secoli. Di m. Mectilde non si trova neppure la tomba, neppure un brandello di ossa. Doveva essere annientata tutta. Era questa la sua vocazione. Ma se non rimane una reliquia, rimane il suo spirito, il suo magistero, il suo testamento di amore, un complesso di lettere, di conferenze, di colloqui familiari riboccanti di luce. Rimane una fiaccola ardente che continua a risplendere nella Chiesa di Dio attraverso le sue figlie, vittime donate all’Amore.

Mectilde fu una donna sconvolgente per il suo tempo, percorso da lampi tempestosi ed illuminato da gesti eroici come il nostro. Ed è qui l’originalità e l’attualità di questa biografia, che porta come titolo «Quando la vita si fa dono» scritta con la mente e col cuore da Mons. Giuseppe Capone per celebrare il terzo centenario di una vita, che, spegnendosi, continua a dar luce. Si chiude il secondo Millennio cristiano con le sue ombre e le sue luci, si apre il terzo nella luce di una speranza che non tramonta, né delude, perché nasce dal Cuore Eucaristico di Cristo, sintesi e vertice dell’amore trinitario per l’uomo. E noi ringraziamo Mons. Capone che ce l’ha ricordato, e diciamo grazie ancora di più a queste nostre sorelle che qui ad Alatri, sulle vestigia delle mura ciclopiche della Città, hanno costruito il loro nido, donne di frontiera che non arretrano davanti al pericolo, notte e giorno impegnate a combattere. Pregando e lodando il Signore, annientate come Mectilde, luminose come angeli, forti come vittime volontarie votate all’Amore.

Con voi, sorelle, in preghiera nella casa di Dio, il mondo non ha più paura.

Grazie, sorelle!

 



* Con il patrocinio del Monastero di Alatri, che lo scorso ottobre ha ricordato il 70° anniversario della sua presenta, ha recentemente visto la luce una biografia di madre Mectilde de Bar: «Quando la vita si fa dono. Catherine Mectilde de Bar. Una mistica del ‘600. Fondatrice delle Benedettine dell ‘adorazione perpetua del SS. Sacramento». Ne è autore mons. Giuseppe Capone, edizioni Tofani, Alatri 1997. Il volume è stato presentato ad Alatri lo scorso 9 novembre dal prof. mons. Andrea Ruggiero, Vicario Moniale della diocesi di Nola e docente di patrologia. Pubblichiamo il testo dell’ampia ed esauriente presentazione, nella quale mons. Ruggiero ripercorre la vita di madre Mectilde in maniera estremamente coinvolgente.

[1] Dante, La Divina Commedia, Pur., 11,8ss.

[2] Le citazioni, quando non v’è altra indicazione sono riportate da questo testo.

[3] Madre Scolastica Cattaneo, che con altre 4 religiose partì da Ghiffa nell’ottobre 1927 per compiere l’aggregazione del monastero di Alatri, di cui divenne Priora. (N.d.R.).

[4] Catherine de Bar, Fondation de Rouen, Rouen 1977, pp. 72-74.

[5] Cf. Conferenza per il Venerdì santo: Passione di Nostro Signore n° 2609 [ms B 510, p. 141].

[6] Colloqui Familiari, Alatri 1987, pag. 20 ss.

[7] Ibid., pag. 23.