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Deus absconditus, anno 98, n. 2,  Aprile-Giugno 2007, pp. 22-26

sr. Maria Cecilia La Mela osb ap *

 Importanza della conoscenza di sé in madre Mectilde de Bar

 

 

 

 

 

Un tema ricorrente in molti scritti di Mectilde de Bar è quello dell’importanza della conoscenza di sé come mezzo per accedere alla verità di se stessi e vivere in modo libero tutto ciò che scaturisce dalla propria personalità, anche l’inevitabile debolezza e fragilità. «Com’è necessaria la conoscenza di sé ad un’anima che vuol fare qualche progresso nella virtù». [1] Ella ci suggerisce, prima di tutto, un’ascesi della verità, così come lei stessa ha fatto; il coraggio di non cedere alla smania di perfezione, ma ricercare la propria identità, giungere alla schiettezza, alla semplicità del proprio equilibrio umano. La Madre stessa è consapevole che non è cosa da poco sopportare se stessi, ma occorre guardarsi in faccia e conoscersi senza paura di scoprirsi diversi da quello che si credeva di essere, e le nostre aspettative sono sempre superiori all’effettiva realtà.

La psicologia di Madre Mectilde è una psicologia concreta, che nasce dalla sua esperienza di donna e di monaca, ma soprattutto dalla sua dimestichezza nella pratica della direzione spirituale. Ella impara a conoscere la natura umana a partire da se stessa e poi anche dagli altri. La capacità di discernimento, di non scandalizzarsi davanti alle proprie e altrui debolezze sono stati il suo campo di sperimentazione che le ha permesso di acquisire un bagaglio di conoscenze messo a servizio del benessere fisico e spirituale di chi l’ha incontrata. Ecco l’esortazione di Mectilde de Bar: 

«Lavorate per conoscervi [ ... ]. Lavorate efficacemente a questo: sarà il modo di ben realizzare la vostra grazia onde acquistarne di nuove attraverso la vostra fedeltà» [2].  

Tutto questo oggi sembra seguire un indirizzo contrario. Lo dimostra il bisogno di evasione connaturato nella nostra società dispersa, frammentaria e disgregata. Una società depressa, artificiosamente satura di benessere ma povera di valori, di speranza, di capacità e volontà di sognare. Il problema è che il silenzio fa paura, guardarsi allo specchio richiama a responsabilità scomode e la conoscenza di sé è falsata o evitata. Madre Mectilde, con il suo insegnamento, ci offre tutt’altra prospettiva! Nonostante i suoi trecento anni e più, ella è viva ed attuale e ci invita ad essere sereni, ad abbandonarci con fiducia tra le braccia del Padre: la gratuità di Dio ci sprona alla verifica radicale e liberante della verità di noi stessi. Scriveva Gregorio Magno: 

«Nessuna anima deve avere preoccupazione più grande che di conoscere se stessa» [3]

Anche san Bernardo affermava che tra tutte le scienze coltivate dagli uomini, nessuna è migliore della scienza con cui l’uomo conosce se stesso. È l’invito, tipico della tradizione monastica, a dimorare nella cella del proprio cuore in modo da esaminare autenticamente la propria vita.

Solo se prendiamo coscienza di quello che siamo e del nostro nulla, ci ricorda Madre Mectilde, allora possiamo iniziare quel cammino di conversione che, sorretto dalla grazia battesimale, ci spinge alla perfezione per la gloria di Dio, senza però mai farci sentire degli arrivati. È l’atto coraggioso di introspezione per scrutare la verità di se stessi, lavorando affinché l’io profondo emerga senza condizionamenti. Ciò opera delle vere guarigioni, specie quando si è capaci di liberarsi, con l’aiuto divino, da forme di egoismo, rivalità, invidie, che avvelenano la gioia di vivere e rendono sterile ogni gesto di apertura e di incontro con gli altri. Ribadisce ancora la Madre: 

«La conoscenza di noi stessi ci è così vantaggiosa che, oso dire, non ci si può salvare senza di essa. E se avete commesso qualche infedeltà, senza troppo ricercarla, soffrite la penitenza che Dio vuoI farvi sopportare, rassegnandovi, abbandonandovi e rimettendovi nella pace con una nuova pratica di fedeltà» [4]. 

Questa riflessione metildiana ci sollecita ad intensificare sempre più il nostro rapporto con il Signore e a lavorare su noi stessi per depurare tutto ciò che è di ostacolo e, così, accettare anche la sofferenza nella prospettiva del dono e della fecondità spirituale. In questa direzione la sofferenza diventa un mezzo liberatorio dalle passioni, soprattutto l’orgoglio, che ci presentano a noi stessi in maniera distorta o filtrata da meccanismi di difesa, a loro volta mossi dal bisogno di autostima e approvazione. Mectilde, più volte, fa un esempio veramente illuminante circa le dinamiche vissute dalla persona all’interno del suo rapporto con se stessa e con gli altri. Spesso la monaca, e leggiamo qui ogni uomo e donna, ammette, anche pubblicamente, di essere fragile, peccatrice, di avere quel difetto o quell’altra tendenza negativa, ma se qualcuno le fa osservare queste cose, allora si risente sino ad offendersi e a giustificarsi, rifiutando quella verità che lei stessa, sotto sotto, riconosce. Sul serio Madre Mectilde, pur appartenendo al suo tempo, lo trascende in un modo che ci lascia sbalorditi e ci conferma ulteriormente la consapevolezza gioiosa che i carismi e le intuizioni suscitati dallo Spirito non conoscono costrizioni di epoche, di cultura, di sesso.

Questa visione di Mectilde de Bar va colta nel suo più genuino ottimismo in quanto le miserie personali sono amabili, per usare i suoi stessi termini, perché senza di esse non si potrebbe mai possedere solidamente la conoscenza di se stessi. È di grande utilità conoscere la propria miseria e i propri difetti: ciò serve a distruggere l’amor proprio che ci è connaturato, altrimenti nonostante la buona volontà di essere umili, mai ci si può conoscere a fondo senza fare esperienza di ciò che veramente si è. Santa Teresa d’Avila riteneva una maggiore grazia di Dio passare un solo giorno in umile conoscenza di sé, sia pure a prezzo di grandi “afflizioni e travagli”, che non più giorni in orazione.

Smarrendo la coscienza delle proprie responsabilità personali e collettive, l’uomo si trova in uno stato di confusione che, spesso, lo porta ad evadere da una reale familiarità con il proprio io. Ecco perché l’approccio con i testi di Madre Mectilde si rivela quanto mai utile:

«E’ cosa molto rara vedere anime che vivano nella verità. Tutti viviamo, ma purtroppo la maggior parte conduce una via [vita] di menzogna e si nutre di vanità. Si prende l’ombra per il corpo e dell’accessorio facciamo ciò che è principale. Deploriamo il nostro accecamento, e riconosciamo come fino ad ora voi e io siamo vissute nelle tenebre e nella menzogna. L’anima che non è nella conoscenza di sé non è nella verità. Per vivere nella verità bisogna vivere nell’umiltà, o per meglio dire nel nulla » [5].

 Oggi la parola d’ordine è finzione, evanescenza, inconsistenza e via dicendo. La lotta quotidiana si svolge nella tensione di mantenere alto il primato dell’efficienza, nelle sofisticate pretese di offrire un’immagine di sé competitiva, sempre al passo con la moda. Sembra quasi di muoversi tra gente mascherata, teatrante. Eppure la sete di autenticità, di trasparenza, è un bisogno vitale! Il cristianesimo, più che mai, è chiamato a proporre l’eterno e unico Modello, Gesù Cristo che, con la sua Parola, sa essere per ogni uomo certezza di vita vera. 

«Mie care sorelle, moriamo continuamente! [ ... ] Morire a voi stesse, alle vostre inclinazioni, volontà e affetti; insomma, morire continuamente in tutte le occasioni e circostanze [ ... ].

E perciò, sorelle mie, voi dovete scegliere le occasioni che ci portano a morire, come le contrarietà, gli insuccessi, le tentazioni. Sì, anche le tentazioni: dobbiamo stimarle come doni che Dio ci fa […]. Sono doni belli e buoni, perché ci fanno morire a noi stesse, agguerrendo le nostre anime e rendendole coraggiose e generose per combattere e conseguire delle vittorie che ci meritano delle corone» [6]

Ecco che la morte, qui, viene intesa come un processo di liberazione dalle false considerazioni sul nostro io attraverso le cosiddette prove della vita per far rinascere ciò che di più profondo e veritiero si trova dentro di noi. Sono le prove che mettono al vaglio noi stessi, come oro provato nel crogiuolo, e nella misura in cui esse si superano allora si può operare un processo di conoscenza reale della nostra personalità. È come il seme caduto in terra: se non muore, se non marcisce, non può portare frutto; così l’uomo, se non si scrosta di dosso valutazioni, aspirazioni, proiezioni di un sé diverso da quello reale, se non muore a se stesso, non potrà mai conoscere veramente ciò che è. La morte, nel linguaggio dei mistici. non è distruzione, ma pienezza dell’essere. Non si tratta di un misticismo retorico, né di un complesso di inferiorità o senso di colpa: questa morte è per la vita, questa demolizione è per la ricostruzione.

Questo cammino, non è privo di difficoltà e richiede un impegno serio e costante, soprattutto al principio. Anche San Benedetto prospetta al novizio la durezza degli inizi, mettendogli davanti, tuttavia, la futura soavità che segue a tanto lavoro di cesellamento del proprio carattere e della propria personalità. Bisogna intraprendere “il santo viaggio” nel centro del nostro io e cogliere la vera essenza di quello che siamo. Mectilde de Bar invita a seguire una traccia profonda nell’animo stesso di ognuno di noi. È come se ci dicesse: “Vai verso te stesso. Osserva la struttura della tua persona, la sua dinamica, le sue coordinate e conosciti”. Ogni cristiano è invitato ad andare verso di sé e, nel suo profondo, a riconoscere che l’esistenza dell’uomo è tale solo se è in relazione a Dio. È un viaggio che non conosce ritorno perché la meta ultima sfocia nella comunione piena con Dio.



* Monaca del Monastero “San Benedetto” di Catania.

[1]  Cit. da: G. GUERVILLE, Catherine Mectilde de Bar, II. Uno stile di lectio divina nel secolo XVII, Città nuova, Roma 1989, p. 258.

[2]  Ibidem, 259.

[3]  GREGORIO MAGNO, Esposizione sul Cantico, 44.

[4]  CATHERINE MECTILDE DE BAR, Non date tregua a Dio, ed. Jaca Book, Milano 1982, p. 152.

[5]  EAD, Il sapore di Dio, ed. Jaca Book, Milano 1977, p. 164.

[6]  Cit. da: G. GUERVILLE, Catherine Mectilde de Bar, II. Uno stile di “lectio divina” nel secolo XVII, 182.