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Deus absconditus,  anno 92,  n. 3, Luglio-Settembre 2001, pp. 35-37

 

Marinella Testori

La via diversa.
Spunti per un’applicazione della spiritualità mectildiana alla vita laicale

Nel contesto delle due giornate di studio, svoltesi in Monastero lo scorso marzo sotto la guida di padre Joèl Letellier OSB, Postulatore della Causa di beatificazione di Catherine Mectilde de Bar e la coordinazione di madre Mariarenata Quariglio, Presidente della Federazione italiana dei Monasteri delle Benedettine del SS. Sacramento, sono emersi numerosi interrogativi circa la figura della fondatrice dell’Istituto benedettino dell’adorazione perpetua, la cui dottrina ascetica è quasi del tutto sconosciuta al di fuori degli ambienti monastici.

Se, però, la Regola di S. Benedetto, pure stilata per i monaci, ha ispirato persone viventi nel secolo, che in essa hanno trovato utili spunti per meglio vivere la propria vocazione cristiana, può essere importante domandarsi se analoga applicazione sia possibile anche per gli ideali proposti da Madre Mectilde: ciò vale soprattutto per gli oblati dei monasteri benedettino-mectildiani, che sono quindi invitati a riscoprire gli autentici tesori racchiusi nell’opera dell’intrepida lorenese.

Personalità affascinante, quella di Catherine de Bar, che si erge sullo sfondo della tormentata epoca del Seicento, di cui recepisce le tensioni interne e il travaglio religioso e filosofico: come nell’arte e nella pittura barocche è spesso violento il gioco di pieni e di vuoti, di luci ed ombre, così la giovane Catherine fa di un’analoga alternanza di piglio magistrale e di temprata dolcezza, di consumata esperienza dell’animo umano e di forti ammonizioni, la cifra della propria spiritualità, nella quale il paradosso diventa nucleo di profezia anticipatrice.

Di contro ad ogni ripiegamento intimistico-devozionale, così come ad ogni presunzione di compiere da soli l’opera della personale salvezza, madre Mectilde pone a fondamento della propria ascesi il battesimo, che il Concilio Vaticano II ha ribadito nella sua dignità di sacramento dell’iniziazione cristiana, rispetto al quale tutte le altre, particolari vocazioni sono continuazione e perfezionamento. Esso immette in noi quello che la teologia tradizionale chiama «segno permanente», indelebile, della figliolanza divina e del riscatto, operato dall’unico sacrificio di Cristo, dalle conseguenze del peccato originale. Il primato dell’azione di grazia è, dunque, di Dio: è Lui che ci chiama, che ci attrae, che ci invia. Siamo stati da Lui redenti al di là dei nostri meriti: ecco, quindi, che il passo successivo consiste nel riconoscere la nostra totale dipendenza da Dio Padre, fonte d’ogni bene.

Conversando con lei, una persona non credente, un giorno, mi ha fatto notare come «i cristiani tendano a dare un po’ troppo del «tu» a Dio, per cui con la stessa facilità con la quale lo invocano, altrettanto lo bestemmiano quando non esaudisce prontamente le loro preghiere»! Madre Mectilde, pur nella sua ineffabile esperienza del «Dio in noi», ci aiuta a recuperare il senso della trascendenza divina, del «Dio altro da noi», rispetto al quale il primo atteggiamento è quello dell’adorazione e della lode.

«Adorare e aderire»: adorazione che, è stato detto, è già di per sé umiltà, e che si esprime nell’accettazione e nel compimento fedele della volontà di Dio. In una lettera alla contessa di Châteauvieux (n. 1191) [1], la Madre sottolinea la pericolosità, per la vita interiore, di «entrare in una disposizione alla quale Dio non ci chiama»: invece, «ciò che Dio chiede ad un’anima, non lo domanda a tutte», «occorre darci a Dio nel modo in cui egli ci chiama». Non è la straordinarietà delle azioni che compiamo a darci la misura della nostra santità, ma la minuta, nascosta fedeltà ai doveri quotidiani, lieti di contribuire, in tal modo, all’edificazione del Corpo mistico, che è la Chiesa.

L’adesione alla volontà di Dio implica un continuo moto di decentramento rispetto ai nostri schemi e al nostro amor proprio, per «centrarci» nell’Amore, sempre gratuito ed imprevedibile, di Dio: e solo quando usciamo da noi stessi possiamo incontrare autenticamente il nostro prossimo e «lasciare che tutte le creature siano in Dio ciò che Dio vuole che siano«, senza cadere in falsi confronti sulla chiamata specifica degli altri, che non è la nostra.

Quale maggiore serenità potremmo conseguire se, alla ricerca esagerata del cosiddetto «stare bene con se stessi«, che nella cultura contemporanea spesso diventa sinonimo di edonistica soddisfazione di necessità propriamente terrene, sostituissimo l’anelito al «vero bene«, magari scomodo e faticoso al primo impatto, ma fonte di libertà da ogni forma di smodato attaccamento alle creature! Lo sguardo impietoso ma salutare che la Madre getta sulle innumerevoli schiavitù che allettano l’uomo con i loro falsi miraggi, lasciandolo poi insoddisfatto e chiuso alla comunione fraterna, può condurci ad un positivo atteggiamento di distacco, ossia di giusta valutazione secondo l’ottica di Dio, di molte situazioni personali e sociali, nelle quali una via d’uscita sarebbe, diversamente, introvabile.

La redenzione operata da Gesù Cristo, come sottolinea la Madre (lettera n. 2404) [2], non esclude la cooperazione dell’uomo: occorre «conoscere la propria via e camminarvi fedelmente» [3] per dare la maggior gloria possibile a Dio, meta e premio del nostro agire: in definitiva, per assimilare sempre più e meglio la nostra umanità a quella di Cristo, Uomo nuovo.

Se il monaco è per eccellenza, «lucerna sul moggio», che ci richiama, con la sua sola presenza, al destino escatologico della Chiesa unita per sempre a Cristo suo Sposo il laico, e particolarmente chi si lega ad una comunità monastica per attingerne luce e conforto spirituali, deve essere «sale della terra» nell’ambiente familiare, sociale e lavorativo in cui vive, rivelando così lo splendore della grazia ricevuta al fonte battesimale.

Non è, dunque, possibile «stimare Dio così poco da non voler affatto considerare gli interessi della sua gloria» [4]: ecco che adorare, riconoscere la signoria amorevole e provvidente di Dio sulla storia di ogni singolo uomo, fa affiorare l’esigenza di «riparare», cioè di sostituire con l’offerta adorante e riconoscente del proprio essere ogni ferita inferta all’unione tra Dio e l’uomo, e tra l’uomo e il suo fratello. Quanto mai attuale tale istanza in un’epoca come la presente, segnata dal pauroso declino dei valori cristiani, dal consumismo anche sul piano dei rapporti umani, da indifferenza e conflitti a tutti i livelli! La riparazione è la più urgente necessità del mondo moderno, anche se esso non se ne rende conto; è scaturigine di benedizioni, è purissima energia che valica i limiti della spazialità e della temporalità per raggiungere ogni anima: è, insomma, l’opera che più si avvicina a quella di Cristo, Sacerdote e Mediatore, che continuamente intercede per noi.

Recuperiamo, quindi, il senso della preziosità della preghiera, personale e comunitaria, diventiamo intercessori per i nostri fratelli, consapevoli che coloro che ci offendono o ci fanno del male, in realtà hanno danneggiato se stessi per primi, offriamo le nostre sofferenze, soprattutto quelle più nascoste e fraintese in espiazione del peccato che offusca in noi e attorno a noi l’immagine di Cristo.

Uniti a Gesù, «mite ed umile di cuore», diventiamo uomini e donne di pace perché abbiamo trovato la pace in noi stessi. Pace che, non a caso, è il motto dell’ intero Ordine benedettino.

 



[1] Si rimanda a Catherine Mectilde de Bar, Lettere di un ‘amicizia spirituale, ed. Ancora, Milano 1999, testo n. 44, pp. 202-209

[2] Ibid., testo n. 45, pp. 209-212.

[3] Ibid., p. 211.

[4] Ivi.