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Deus absconditus, anno 84, n. 1, Gennaio-Marzo 1993, pp. 19-28
 

Sœur Marie Véronique Andral osb ap
Vita comune e crescita spirituale

 

 

 

Il nostro Dio è Uno, ma non è solitario. È comunione di Persone nell’amore. Ha fatto l’uomo a sua immagine: li crea uomo e donna, immagine creata di questa comunione che Dio vuole condividere, comunione con Lui e tra di noi. Ma... il peccato è stato un voler essere indipendenti da Dio; da qui la discordia, la gelosia, l’omicidio. Caino uccide Abele; poi Babele: gli uomini non riescono più a comprendersi e si disperdono. Dio, con la sua alleanza, lavora a ristabilire la comunione. Gesù viene a radunare nell’unità i figli di Dio dispersi. Ed è l’anti-Babele: la Pentecoste, la nascita della Chiesa Corpo di Cristo. Siamo tutti figli nel Figlio, animati dal suo Spirito per invocare lo stesso Padre, chiamati alla comunione Trinitaria. L’uomo riapprende così la relazione d’amore persa con il peccato. Si era rinchiuso in se stesso, ripiegato su se stesso, aveva cercato d’essere rivale di Dio e non suo figlio. Tutta la sua esistenza sarà un apprendistato di questa vita di comunità con Dio e con i fratelli, scopo per cui è stato creato.

In questa luce si colloca il nostro cenobitismo, ad immagine della comunità ideale degli Atti degli Apostoli. In questa prospettiva possiamo ascoltare Madre Mectilde, nel primo capitolo delle nostre Costituzioni:

«Da questo primo capitolo possiamo dedurre che nulla è più giovevole alle religiose della vita in comune sotto la guida di una Superiora, dotata delle qualità richieste per tenere in monastero il posto di nostro Signore e della sua Santissima Madre, e per guidare le anime alla perfezione del loro stato. Questo spirito di comunità regnava fra gli Apostoli, ed i primi cristiani ne facevano professione; ed era loro gioia e loro delizia non possedere alcuna cosa. Proprio da queste prime piante nel campo della Chiesa, dobbiamo apprendere la pratica di un santo distacco avendo, sul loro esempio, un solo cuore, una sola volontà ed un medesimo spirito, recidendo ogni singolarità per conformarci in tutto alla Regola comune del monastero».

Madre Mectilde spiega questo spirito di comunità con l’espressione «non possedere alcuna cosa», giacché nel momento in cui si «possiede», si è «posseduti», e quindi non si è liberi di amare; esiste il pericolo di questa chiusura, da cui bisogna liberarsi per non avere che un solo cuore, un solo spirito ed un’unica volontà.

Ecco il beneficio della «Regola comune», ascesi indispensabile per fare spazio alla relazione d’amore.

Ecco un piccolo esempio dell’amore di Madre Mectilde per la vita comunitaria. Il mercoledì della Pentecoste 1695, era malata, in infermeria, «essendosi potuta alzare solo alle 7, si affrettò per assistere in coro al canto del Veni Creator; correva a così gran velocità che non la vedevamo camminare e ne fummo tutte stupite, vedendo l’agilità che le dava il suo fervore. Una religiosa che non era stata presente, le disse che tutto ciò l’aveva sconcertata, e le chiese come mai scendesse, se non stava bene. La Madre rispose: «È detto che lo Spirito Santo discese sull’assemblea e non altrove. Io non vi condanno, ognuno ha le sue vie, la mia è quella di andare ove è riunita la comunità. Vi sono più benedizioni che altrove. Non dico per questo che altrove non se ne possano ricevere».  (2002)                                                                           

E in un altro punto afferma:

«Ho tanta stima per ogni atto comune al punto che, pur avendo affari fin sopra i capelli, non manco di venire a ricreazione...». «Amiamo ciò che è comune e ad esso conformiamoci».

Nell’unità della Trinità

Madre Mectilde commenta sovente questa preghiera di Gesù: «che siano una cosa sola, come noi», e se ne stupisce; ecco il nostro destino:

«Nella preghiera che rivolge al Padre, Gesù non prega per sé, ma per tutta la Chiesa nella persona degli Apostoli, dicendogli: «Padre, che siano una cosa sola come siamo noi». O preghiera mirabile! O preghiera divina! Come non potrebbe essere efficace, dal momento che è un Dio che prega un Dio? «Siano una cosa sola come noi». Notate come Gesù non avrebbe potuto fare domanda più grande, più elevata, più vasta, più vantaggiosa per noi.

«Che siano una cosa sola come siamo noi»: il Padre è nel Figlio, il Figlio è nel Padre, e lo Spirito Santo è in entrambi, e queste tre Persone divine costituiscono un’unica essenza. O unione mirabile e ineffabile! «Che siano una cosa sola come noi», Gesù con questa preghiera chiede al Padre che gli siamo unite, e che attraverso Lui entriamo nell’unione del Padre e delle tre Persone divine! La sua preghiera si è realizzata nella persona degli Apostoli, e com’è detto nella Scrittura: «Nessuno di quelli che mi hai affidato è andato perduto, tranne il figlio della perdizione». Preghiamo, sorelle mie, ma preghiamo tutto il giorno; la preghiera che Gesù ha fatto per noi in nome degli Apostoli si realizzi in noi com’è stato per loro».(3157)

È il comandamento nuovo che Gesù ci dona il Giovedì Santo:

«Vi confesso che sono stata colpita, il Giovedì Santo, al «Mandatum», nel sentire come san Giovanni descrive l’amore che Gesù raccomandava di avere gli uni per gli altri ai suoi discepoli. Sembra che non abbia a cuore tanto l’amore a Lui dovuto, quanto quello dovuto al prossimo. Eppure gli Apostoli si amavano, eccetto Giuda, e ben lo manifestarono dopo la resurrezione del loro Maestro, essendosi tutti riuniti. Non stupitevi perciò se insisto così spesso che vi amiate reciprocamente. Siate dolci le une con le altre, aiutandovi a vicenda nei vostri lavori, sopportando reciprocamente i vostri difetti con spirito caritatevole. Vorrei con tutto il cuore che le parole di san Paolo che diciamo sovente, fossero ben impresse nei nostri cuori: «Alter alterius onera portate», portate gli uni i pesi degli altri, e così realizzerete la legge d’amore di Gesù Cristo. Così, sorelle mie, portate le vostre reciproche debolezze nello spirito di Gesù Cristo. Mi direte: «Oh! Ma la mia sorella ha qualcosa che mi urta. L’amo, ma non posso sopportare i suoi modi di fare». Questa non è carità. Se Nostro Signore ci amasse in questo modo, saremmo ben miserabili, dato che facciamo un’infinità di cose intollerabili ai suoi occhi divini. Egli odia infinitamente il peccato, ma ama il peccatore. Lo accoglie alla sua mensa, invita al banchetto i poveri, gli storpi, i ciechi. In questo modo dobbiamo amare le nostre sorelle. Non fermiamoci ai loro difetti e alle loro miserie. Le più deboli sono quelle per le quali dobbiamo avere più tenerezza, ad esempio del nostro divino modello Gesù Cristo, nel Santissimo Sacramento, dove esercita una carità infinita verso di noi».

Carità divina. Il Corpo di Cristo

Non si tratta di un amore fondato su simpatie naturali. Madre Mectilde distingue molto chiaramente eros e agape. Si tratta di una carità tutta divina che parte dal cuore di Gesù Cristo di cui noi siamo membra:

«Vorrei essere in grado di introdurre bene la vera carità che parte dal cuore di Gesù e che noi dobbiamo avere come membra di questo Capo adorabile, ma il nostro guaio è che non ci guardiamo come sue membra, ci sottraiamo a quest’unione per vivere da noi e per noi stesse come persone particolari. Questo «tuo» e «mio» sono causa d’ogni disordine. Non vediamo di buon grado che vengano favorite le altre, che siano consolate: ciò denota che non siamo unite al nostro Capo. Vi chiedo se la mano si lamenta di ciò con cui è calzato comodamente il piede. Assolutamente no! Abbandoniamo perciò quello che ci è proprio per tenerci unite al cuore di Gesù, nostro Capo». (1552)

«II legame delle membra è così stretto che si sente il dolore dell’altra, o almeno ci si sforza di aiutarla. Se ci si ferisce un piede, il corpo si curva subito, la mano lo tocca, tutte le membra vanno a soccorrerlo e a dare la loro assistenza. Così se una delle nostre sorelle è malata, ognuna da parte sua la assista: una per scusarla, l’altra per pregare, per compatirla, per sopportare le sue debolezze. È ciò che dovete fare. Parlo della malattia più importante, quella spirituale». (1240)

«Amatevi vicendevolmente; ognuna contribuisca da parte sua a mantenere nella Comunità la pace e l’unione; dato che tutte costituite un solo corpo, non vi sia tra voi che un solo cuore e un solo spirito, e non regni altro Spirito se non quello di Gesù Cristo. Chiedete questa grazia alla Madre di Dio. Siate affabili e dolci; non urtatevi mai per nulla, non dite parole dure e sconvenienti. Non create rapporti che, sotto pretesto d’amicizia e confidenza, ledano la carità; prendete sempre bene ogni cosa e scusate più che condannare. Se pensassimo che il prossimo di cui parliamo è caro a Dio come la pupilla dell’occhio, che è il prezzo del sangue di Gesù, saremmo maggiormente attente a non dire nulla che gli possa dare dispiacere, perché Dio stesso se ne ritiene offeso. Anche se vi esorto per quanto mi è possibile ad amarvi vicendevolmente, non intendo portarvi a farlo attraverso un’amicizia puramente umana, giacché questo genere d’amicizia non conviene a delle anime religiose e non può produrre che pessimi effetti, rovina delle case religiose. Non appena ve ne sono, non si vedono che parzialità e divisioni. Fuggitele, e fuggite ogni amicizia umana; non vi sia nulla d’umano[1] nella vostra amicizia, la vostra carità sia una carità tutta divina».

In quest’ultimo testo è evidente come la vera carità sia fonte d’unione, mentre l’amicizia detta «particolare», che ricerca il personale piacere d’amare, che ricerca se stessa, è soltanto fonte di divisione e di disordine. Ovviamente c’è tutto un cammino da fare. All’inizio crediamo di amare in modo puro, mentre il nostro amore è ancora molto mescolato all’egoismo, all’amor proprio, direbbe Madre Mectilde. Le difficoltà di rapporto ci rivelano quanto il nostro amore sia imperfetto: «l’amo, ma...» e ci aiutano in una progressiva e sempre maggiore purificazione. Si giunge a constatare di essere incapaci di amare veramente, e allora si è pronti a lasciarsi invadere dalla carità divina che può prendere possesso dei nostri cuori.

«Sorelle mie, Gesù passa e ci invita a seguirlo al martirio, ma un martirio nascosto che ci fa morire a noi stesse, alle nostre passioni, ai nostri cattivi umori, a mille piccole gelosie e spregi; martirio che ci rende senza misericordia verso di noi, e ci obbliga ad usarla nei riguardi del prossimo». (1552)

«Guardiamo incessantemente a Gesù Cristo, portiamolo ovunque con noi: in cucina, a ricreazione, nelle conversazioni, in una parola dappertutto, e vediamo come Egli si è comportato in simili occasioni. Ci darà la grazia per imitarlo. Ricorriamo molto a Lui, e quando si tratterà di sopportare un cattivo umore delle nostre sorelle, una parola urtante, una dimenticanza nei nostri confronti, ascoltiamo ciò che Gesù ci domanda: che siamo fedeli, che diamo a Lui quella parola, quell’occasione incresciosa, a Lui che tante ne ha sopportate per noi, che non ha proferito parola quando è stato ingiuriato, maltrattato e condotto alla morte come un agnello, senza inveire contro coloro che lo oltraggiavano in quel modo. Che? Sorelle mie, potete forse rifiutargli così poca cosa? No, certamente, se vigilerete su voi stesse, applicandovi a vedere il tesoro che possedete in voi, il quale non è altro che le tre Persone divine. Ah! Chi fosse ben assorbito in queste verità non si perderebbe in simili sciocchezze! Lavorate a questo, ve ne scongiuro, e a formare Gesù in voi».(2887)

Eucaristia

La grande fonte, la grande scuola di questa carità divina è Gesù nel Santissimo Sacramento:

«Avete bisogno di leggere sovente il capitolo delle Costituzioni che abbiamo appena letto: II buon zelo che i religiosi devono avere. Vi insegnerà la carità che dovete avere le une per le altre. È molto tempo che ve lo raccomando; è col cuore che si conosce se si possiede. Considerate se il vostro cuore è colmo di questa carità divina che dovete avere come cristiane e come religiose, ma ancor di più come Figlie del Santissimo Sacramento. Intendiamo questo nome in modo superficiale, senza rifletterci o metterci attenzione, ci pensiamo appena. Oh! Quanto è grande e quanto significa! E cosa significa? Che dobbiamo essere tutte di Gesù, che gli apparteniamo come sue Figlie, che dobbiamo cercare sempre la sua gloria e vivere solo per lui; che dobbiamo essere ricolme e animate dal suo Spirito. Ma qual è lo Spirito di Gesù nel Santissimo Sacramento? Guardate se non è uno Spirito d’amore e di carità. Se ne può forse trovare e vedere uno più grande del donarsi tutto a noi senza alcuna riserva? E dopo tutto questo non saremo tutte amore e carità per le nostre sorelle, essendo le Figlie di un Dio la cui carità è stata infinita? Questo deve portarvi ad avere una grande carità le une verso le altre. «Da questo — dice Nostro Signore — conosceranno che siete miei discepoli». Siete le Figlie del Santissimo Sacramento, dovete perciò essere ricolme di carità. Conservatela quindi preziosamente. Cedete sempre, non contendete mai, e amatevi vicendevolmente dello stesso amore con cui Gesù vi ama. Ve ne può testimoniare uno più grande di quello che vi testimonia nella santa Comunione? Egli viene in noi per trasformarci in Lui e non essere più che un’unica cosa con noi. L’effetto proprio del Santissimo Sacramento è quello di renderci dei Gesù Cristo; e se si potesse vedere un’anima quando si è appena comunicata, non si potrebbe vedere altri che Gesù Cristo». (3004)

Così, impariamo ad amare nello stesso modo in cui Gesù ci ama. Questo ci porta lontano:

«Mi è stato fatto conoscere, dopo la santa Comunione, che Gesù era tutto carità e dolcezza in questo divin sacramento e che noi, come sue vittime, dovremmo impegnarci in questa bella virtù su questo modello divino. Guardate, vi prego, se esiste carità più grande di quella che egli ci testimonia. Essa consiste nella sua consumazione, perché Egli non dà se stesso solo per le anime pure, ma anche per i peccatori più abominevoli, senza mostrar loro la minima asprezza. La sua dolcezza divina gli fa sopportare le ingiurie e i disprezzi senza dire una parola. Ecco, mie care sorelle, il nostro esempio. La nostra carità deve essere cordiale, sincera, (bisogna) volere e augurare alle nostre sorelle le stesse grazie e gli stessi favori che vorremmo per noi; abbracciare tutti con i vincoli della carità e sopportare con dolcezza tutto ciò che può urtarci. Facendo così, vivremo di quella vita di Gesù che costituisce la beatitudine dei Santi. Mi direte: «Ma non si soffre più in questo stato?». Vi rispondo di sì, ma le sofferenze di queste anime non sono come le nostre, che sovente sono causate dalle nostre passioni. Sono sofferenze nell’intimo dell’anima, che non turbano la sua pace e che l’anima stima migliori e preferisce a tutto quello che appare desiderabile, perché la rendono conforme a Gesù sofferente, che è in loro come la loro vita». (1172)

La sofferenza, in questo caso, non proviene più dai nostri limiti, dalle nostre passioni, dal contrasto con i difetti e le difficoltà: è la sofferenza d’amore di Gesù che ama il peccatore e lo salva. Gesù soffre in noi, perché in noi vive, e ci trasforma in Lui nella sua Passione.

Riparazione

Madre Mectilde ci ricorda di frequente che siamo chiamate ad una sofferenza vicaria. Ecco quindi la nostra vocazione riparatrice:

«Sì, sorelle mie, siete state rese garanti le une per le altre, e dovete avere per le vostre sorelle un amore e una tenerezza grandissimi, cosa che non avviene affatto. Siete piccole vipere che si dilaniano reciprocamente. Ci si lamenta, si mormora. O sorelle mie! State attente: il diavolo progetta di distruggere quest’opera attraverso la mancanza di carità, è stato rivelato a qualche Servo di Dio. Mi direte che sono molto dura, che non c’è motivo di dirvi queste cose e che vi amate tutte. Volesse Dio! Ribatto sovente questo punto perché ne conosco l’importanza. Ho esperienza, e conosco cose che voi non vedete. Siate agnelli di dolcezza e di semplicità, è un vostro obbligo, non solo come pecore dell’ovile di Gesù Cristo, ma di più: come agnelli destinati al sacrificio in omaggio all’Agnello senza macchia, immolato nella legge antica e ora nel nostro adorabile Sacramento. Guardate alle vostre sorelle come vostre cauzioni e garanzie, che riparano incessantemente per voi davanti a Dio. Questo non è forse un forte motivo che vi obbliga ad amarle, ad amarle appassionatamente? Vedere che esse si offrono a Dio per portare la pena dovuta per i vostri peccati, che offrono la loro vita per placare la giustizia divina? Dare la vita per i propri amici è la prova estrema dell’amore. Vedete quindi come la qualità di vittima ci fa produrre atti di puro amore, che è cosa assai rara. Cosa sapete di quanto le vostre sorelle soffrono per i vostri peccati? E non vorreste sopportare da parte loro una parola, un’antipatia, un’azione che urta i vostri sentimenti? Ciò è veramente ingiusto. Si mormora, ci si lamenta come se ci venisse fatto chissà quale grande torto! O bisogna rinunciare alla qualità di vittima, o imparare a soffrire e a portare in spirito di morte tutto ciò che ci giunge dal nostro prossimo, ritenendoci indegne di essere considerate e di occupare posto nello spirito di qualcuno, non credendo che ci si possa fare torto, conservando ovunque la stima e l’amore per le nostre sorelle».  (196)

Abbiamo perciò il dovere di riparare per le nostre sorelle e dobbiamo dar loro il buon esempio. E come non amare una sorella che porta davanti a Dio la pena dei miei peccati? Si tratta di un servizio reciproco. Abbiamo anche il dovere della preghiera e della riconciliazione prima di presentare la nostra offerta all’altare:

«Cerchiamo di sopportare i temperamenti che ci contrariano nella carità di Gesù Cristo. Se le nostre sorelle hanno delle debolezze, preghiamo Nostro Signore di fortificarle e di aiutarle ad accettarle. Tuttavia, per quante possano averne, queste debolezze non devono toglierci la carità e l’affetto che siamo obbligate ad avere per loro in Gesù Cristo, che tanto ci raccomanda di amarci vicendevolmente come lui ci ha amate, dicendoci nel Vangelo: «Se presentando la tua offerta all’altare sai che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta e riconciliati con lui» (Mt 5,23). Gesù ci mostra con queste parole che preferisce l’unione e la carità vicendevole alle azioni che sembrano più sante, come quella di presentare offerte all’altare. Dio è amore, dice san Giovanni, e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui. Cerchiamo di possedere una tale fortuna, sorelle mie, poniamo questa virtù divina ben avanti nei nostri cuori. Ci farà pensare e agire come si deve verso il nostro prossimo. Siate così, sorelle mie, e non temete nulla. Dio si prenderà cura di voi. La Casa non cadrà per mancanza di cose materiali, e quand’anche cadesse, Dio è abbastanza potente da rialzarla prontamente. Essa invece cadrà per mancanza di carità: questo deve obbligarvi a ben conservarla e a non lederla mai, neppure minimamente con le vostre parole...»

Madre Mectilde era garante per tutte le sue figlie. Lo si vede dalle sue lettere e dai suoi scritti più personali. Scrive:

«Non so come sia per le altre, ma io porto il fardello dell’intimo delle mie sorelle, lo vedo più chiaramente del giorno che risplende: le debolezze degli spiriti, le infedeltà, tutto questo mi carica davanti a Dio(...) Dio mi ha dato una tenerezza e un non so che per le anime addolorate e afflitte, in modo tale che le ho sempre presenti allo spirito e non saprei abbandonarle fintanto che durano le loro sofferenze. Sembra che Dio mi abbia fatta per queste anime! Se conoscessero la loro fortuna!»

E in una lettera:

«Posso dirvi, carissime figlie, che mi siete sempre così intimamente care da non uscire mai dal mio cuore. Il mio dolore è sapervi nelle croci e non essere presente per provarle e sostenerle con voi». (2018)

E quante volte avrebbe desiderato attirare nel suo cuore le sofferenze delle sue figlie per liberarle! Scrive ad una suora in difficoltà:

«Venite semplicemente e fiduciosamente. Le vostre ferite sono le mie, i vostri peccati sono i miei... Vi nasconderò nel mio cuore, farò pregare Dio per voi...; dirò a Nostro Signore con tutto il cuore che non voglio andare in Paradiso senza di voi». (432)

E si potrebbero fare infinite citazioni in proposito.

«Ma... era Madre Mectilde! – direte voi. Prima di riparare per gli altri, bisognerebbe forse riparare per sé!».

È la reazione di una novizia. Notiamo la risposta della Madre:

«Essendosi la novizia raccomandata alle sue preghiere, la Madre le rispose: «Pregherò la Santissima Vergine di rompere le catene del vostro amor proprio». Avendo poi detto alla novizia di pregare per lei, questa le rispose: «Sono così miserabile e peccatrice che non posso riparare per i peccatori; sono già abbastanza indaffarata a chiedere perdono a Dio per me. Bisogna innanzi tutto che Egli ripari la sua gloria in me e mi renda degna di riparare per gli altri». Madre Mectilde le rispose: «Non è necessario che ripariate per gli altri, ma fate al plurale quello che fate per voi stesse, e tutto sarà compreso in questo».

Carità universale

D’altra parte questa carità della quale facciamo «tirocinio» durante tutta la nostra vita in Monastero, deve estendersi alla Chiesa e al mondo, come Madre Mectilde ricorda di frequente:

«Non dobbiamo avere carità soltanto per le nostre sorelle, ma abbracciare tutto il mondo in quest’unione di carità di Gesù. Non chiede forse questo attraverso la santa comunione che riceviamo così sovente?» (217)

«Comunichiamoci sempre con molta umiltà, non per noi ma per la gloria di Dio, per gli interessi del suo onore in terra e per il bene della sua Chiesa e delle anime che gli appartengono. Siamo membra di Nostro Signore, della sua santissima Madre e di tutti i santi e le sante. In questa qualità, dobbiamo fare ciò che loro hanno fatto e desiderano fare. Dobbiamo fare ciò che loro vogliono fare per noi, e ciò che farebbero e penserebbero di poter fare a gloria di Dio e per il bene della sua Chiesa, se fossero sulla terra. Dobbiamo appartenere totalmente a loro per comunicarci, e dobbiamo comunicarci con il loro spirito, come se vivessero in noi, e avessero diritto di usare di noi più di quanto non facciamo noi. Tutto quello che siamo è proprietà di Gesù e dei suoi; dobbiamo appartenere a loro in tutto ciò che essi vogliono, rinunciando alla nostra volontà per vivere nella loro e al nostro spirito per vivere del loro. Dobbiamo consegnarci a loro per vivere in questo modo». (1659)

Diventare dei Gesù Cristo: è ciò che Egli intende fare di noi:

«Oh! Chi potrebbe capire la felicità di un’anima divenuta Gesù Cristo! È ineffabile. Essa vive nella libertà dei figli di Dio. Mi direte: «Ma come? Voi mi parlate di una gioia e di una libertà tutta divina e tuttavia bisogna sempre rinunciare a se stessi e morire incessantemente». Sì, sorelle mie, non si arriva che così. Gli inizi sono difficili, bisogna soffrire, ma il progredire risulta dolce. Preferite essere schiave del peccato e delle creature piuttosto che di Dio? Qualcuna mi dirà: «Io non amo nulla, non sono attaccata ad alcuna creatura», e tuttavia frugate un po’ in questi cuori e li troverete tutti pieni d’amor proprio. Non vantiamoci di non amare nulla, i nostri cuori sono fatti per amare, non potrebbero vivere senza amore. Dobbiamo perciò rinunciare a noi stesse e all’amore del nostro spirito proprio, per amare soltanto con la carità di Gesù. Agendo così, vi prometto che diventerete dei Gesù Cristo e sarete in comunione tra voi e con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo».  (217)

Il Regolamento degli Uffici

Tutto quello che abbiamo spigolato dalle Conferenze, si trova concretizzato nel Regolamento degli Uffici, al quale possiamo dare solo una rapida scorsa.

Sugli Uffici in generale, Madre Mectilde ripropone l’immagine del corpo mistico, in cui ogni membro ha la sua funzione per il bene comune. Le più deboli sono talvolta le più necessarie, perché tutte concorrono ad aiutarsi vicendevolmente, con fedeltà e affetto, senza ricercare se stesse, ma per far contento Dio e per servire fedelmente la comunità. La Madre raccomanda che si mantengano la pace del cuore e lo spirito libero per Dio. Non dimentichiamo l’essenziale.

Esortando alla generosità nel servizio («sacrificare il proprio riposo, la propria salute, la propria vita») aggiunge saggiamente che bisogna avvertire la propria Priora quando si è stanche, senza aspettare di essere sfinite. Bisogna farlo presente con umiltà e in privato. Niente scandali! Ognuna si guardi bene dal riportare in modo brusco alla Madre Priora, sia in pubblico che in privato, le chiavi del proprio ufficio, dicendole senza rispetto né sottomissione di cercare qualcun’altra che possa assolverlo. Un simile atteggiamento richiederebbe una punizione esemplare.

Leggiamo poi una raccomandazione utilissima per la carità, e piena di buon senso:

«Quando a qualcuna sarà assegnato un incarico, questa lo manterrà allo stesso modo in cui era in precedenza, senza cambiarvi nulla a suo arbitrio. Se si rende necessario fare qualcosa in modo diverso rispetto alla precedente ufficiale, ciò avverrà con il permesso della Madre Priora, al fine di conservare il rispetto che ci si deve vicendevolmente, e di preferire il parere altrui al proprio».

Infatti, capita sovente che l’esperienza porti a capire le ragioni per cui le cose sono fatte in un certo modo, che non risulta essere poi così sbagliato…

Sottolineiamo soprattutto il rispetto vicendevole e la delicatezza nei riguardi delle anziane.

Madre Mectilde raccomanda anche la coscienza professionale: non appropriarsi di nulla, non sciupare nulla, nessuna negligenza nel lasciare che le cose si guastino, niente sotterfugi: Dio vede tutto. Economia, per soccorrere il più possibile i poveri. Giustizia nei confronti dei salariati. Madre Mectilde arriva al punto di chiedere di non farli aspettare in portineria, perché hanno bisogno di quel tempo per guadagnarsi il pane (erano pagati a cottimo e non ad ore!).

La Madre prevede la possibilità dei «conflitti di competenza»:

«Nessuno s’ingerirà senza un preciso ordine della Madre Priora, immischiandosi in ciò che riguarda l’incarico di un’altra; se avranno qualche divario tra loro, non discuteranno insieme, ma si rivolgeranno alla Madre Priora e seguiranno alla lettera ciò che questa ordinerà».

Un eccesso di sollecitudine fraterna può provocare disastri!

Alle suore che devono distribuire abiti, biancheria, ecc., viene raccomandata una grande carità: niente mormorazioni né ritardi, ma puntualità, come Gesù che compiva le sue azioni, durante la sua santa esistenza, esattamente nel momento in cui suo Padre gliele ordinava, non volendo anticiparle di un istante, neppure su richiesta della Santissima Vergine, sua degna Madre. Le ufficiali praticheranno questa rarissima virtù: trovarsi sempre nel luogo dove devono essere... sempre disponibili.

Questo spirito di servizio e mutuo rispetto vengono richiesti alle ufficiali anche nei riguardi delle loro subalterne:

«Non saranno autoritarie (con le loro aiutanti), non useranno mai parole ingiuriose, ma parleranno loro sempre in modo rispettoso, trattandole con dolcezza e con santa cordialità, non facendo far loro nulla per loro personale servizio. Le ufficiali si studieranno di ben formare le aiutanti, facendo loro fare talvolta anche lavori importanti..., saranno molto unite tra loro, sottomettendosi le une alle altre... »

E più avanti:

«... l’ufficiale non deve disprezzare quello che è più basso nel suo incarico, ma arrivare a compiere lei stessa queste cose, piuttosto che ordinarle alle altre».

Madre Mectilde raccomanda il dialogo frequente con la Madre Priora per favorire l’unione e la carità fra tutte.

«I mezzi più adatti e più sicuri per godere di questa stretta unione di carità di cui parla san Paolo e a cui esorta i primi cristiani, sono: parlare sovente con i Superiori e conformare i propri pareri e i propri giudizi ai loro, per vivere negli stessi sentimenti e con la stessa volontà. Se agirete così, Dio benedirà le vostre fatiche. (...) La buona intesa sarà totale e la vera carità si legherà con il consenso e la soddisfazione vicendevoli».

Paragona i suoi monasteri a:

«piccoli regni che, essendo retti da un governo monastico, sono molto più considerevoli agli occhi di Dio dei più grandi stati del mondo, perché sono più spirituali che temporali e compongono altrettante chiese particolari il cui Re è Nostro Signore, com’è Re della Chiesa Universale che chiama suo Regno».

       E la legge suprema di questo Regno è lo Spirito Santo, lo stesso Spirito di Gesù che grida nel nostro cuore: «Abbà, Padre», e ci introduce così nella vera vita comunitaria, la sola vera fraternità.

 



[1] L’«umano» per Madre Mectilde (e per il suo tempo) è tutto ciò che proviene dall’uomo vecchio, Adamo, e che è in contrapposizione a ciò che proviene da Dio, al «divino».