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Deus absconditus, anno 78, n. 4, Ottobre – Dicembre 1987, pp. 23-27 e anno 79,
n. 1,  Gennaio – Marzo 1988, pp. 9-15

 

Mons. Amedeo Grab, osb *

Sulla regola di San Benedetto Rapporto tra Eucaristia e Oratio benedettina

I – L’Eucaristia e l’«Opus Dei» nella vita monastica

L’Eucaristia è il cuore della vita cristiana e monastica e della vostra vita in particolare. Molti lettori moderni potrebbero rimanere sorpresi per il fatto che la S. Messa non venga neppure nominata nel Direttorio liturgico posto nella S. Regola.

In realtà non c’è da stupirsene se si ricorda quanto dice De Vogüé e cioè che la celebrazione dei santi Misteri dipende dall’autorità chiesastica e non rientra nel campo dell’«Opus Dei» disciplinato dai legislatori in base alla tradizione cenobitica, del resto variabile. San Benedetto non solo è consapevole di questa mutabilità dell’Opus Dei, anzi la ritiene normale.

Là dove innova, sa di innovare e ad altri dottori o abati consente di prendersi qualche libertà sul suo Direttorio redatto con tanta cura, con tanta precisione. Nel cap. 18° si legge: «Facciamo notare che se a qualcuno questa distribuzione dei salmi non piace, li disponga pure in altro modo, come meglio crede, purché il salterio venga recitato integralmente ogni settimana e si ricominci sempre da capo nell’officio notturno della domenica», che lo stesso San Benedetto inizia non col salmo 1°, ma col salmo 20°.

1. L’Eucaristia presso i monaci dell’Egitto

I monaci dell’Egitto dimostravano la loro appartenenza al popolo di Dio recandosi alla Messa festiva nella chiesa del paese.

Dal Pacomio ci si radunava per la preghiera all’aurora, a mezzodì, alla sera e a mezzanotte.

Gli ebdomadari davano il segno per la sinassi che era presieduta dai Superiori. Questa comprendeva la salmodia, le letture della S. Scrittura e le orazioni. Di sabato si andava in paese ad assistere all’offerta dei doni e a ricevere la benedizione, quindi, penso, alla S. Messa. Di domenica il clero parrocchiale andava a celebrare i santi Misteri nel monastero. Tuttavia i monaci egiziani conservavano l’Eucaristia in monastero per la Comunione quotidiana. Ci può sembrare strano questo modo di fare, e cioè, il partecipare alla Messa nei giorni di sabato e di domenica, e il fare la S. Comunione negli altri giorni.

Ma tale modo di fare era legato a queste due motivazioni. La prima: che l’Eucaristia è il nostro Pane quotidiano, mentre la celebrazione della S. Messa imposta da Gesù come memoriale, ma senza indicazioni di frequenza, è particolarmente indicata nel giorno della domenica, che è sempre una piccola Pasqua. La seconda è che la Messa quotidiana in quel tempo era un’eccezione. Difatti gli antichi riservavano la celebrazione della Messa alla domenica e alle feste per mettere in maggior evidenza la grandezza dell’Eucaristia, allo stesso modo che noi moderni dimostriamo la nostra stima al volere di Gesù rinnovando il Suo Memoriale ogni giorno.

In queste cose non ci sono verità apodittiche, bensì una pratica variabile che si adatta alla sensibilità delle generazioni cristiane. Lo dimostra il fatto di monaci che nell’era carolingia celebravano nove volte al giorno. Naturalmente ogni calcolo di quantità è sbagliato in un simile Mistero. È invece affare di fervore, di capacità di unirsi all’unico Sacrificio, offerto una volta per sempre a salvezza dell’umanità. La sua attuazione è legata ad un preciso comandamento: «Fate questo in memoria di me», ma la frequenza non è per niente indicata.

Anziché giudicare questa prassi come meno pia, è bene dire di essa ciò che Agostino dice della Comunione quotidiana: «Ille honorando non audet quotidie sumere, et ille honorando non audet ullo die praetermittere» (Uno per devozione e omaggio per il SS. Sacramento non osa tralasciarla ogni giorno, un altro proprio per la venerazione che porta al SS. Sacramento non si permette di riceverla ogni giorno).

2. L’Eucaristia in San Benedetto

San Benedetto prevede la celebrazione della S. Messa in monastero. Il capitolo 62° della sua Regola «I sacerdoti del monastero» parla dell’ordinazione sacerdotale del monaco, il quale a causa del ministero dell’Altare viene tolto dal suo rango. Il che si verifica in modo evidente quando il monaco-sacerdote presiede o concelebra l’Eucaristia. Ancora, San Benedetto parla dell’Eucaristia a proposito della Professione del monaco. Egli prevede un altare fisso, su cui il novizio depone la sua scheda di professione, redatta in nome dei Santi le cui reliquie si conservano su quello stesso altare. In altro luogo della S. Regola si accenna all’Eucaristia (cap. 38°) quando S. Benedetto prevede che il lettore di settimana riceva la benedizione dopo la S. Messa e S. Comunione.

La S. Comunione viene menzionata due volte nella S. Regola e precisamente, una prima volta nel cap. 38°: « II lettore prenderà un po’di vino a causa della Comunione». Si trattava di una abluzione, come spiega la Regola del Maestro che al cap. 24° dice: «II lettore dopo la S. Messa prenderà un po’ di vino perché non abbia a sputare il Sacramento». Probabilmente la Comunione di allora non avveniva come ai nostri giorni con l’Ostia sottilissima, ma con un Pane e quindi per evitare che restassero frammenti in bocca, prima che uno cominciasse a leggere, si sciacquava la bocca.

La seconda volta si trova menzionata nel capitolo 63°, dove San Benedetto stabilisce che i fratelli si presentino all’amplesso di pace e alla Comunione secondo l’ordine stabilito dall’abate.

Un altro accenno alla S. Messa lo si trova al cap. 59° dove dice che i genitori che offrono i loro figli a Dio nel monastero « avvolgeranno la loro petizione nel velo dell’altare insieme alle oblate ».

Non è invece sicuro che si tratti della S. Messa in questi due passi. Il primo, al capitolo 35°, dove san Benedetto prevede che nei giorni solenni, anziché un’ora prima del pasto i servitori attendano a prendere lo spuntino sino alla fine della «messa», o meglio sino «alla fine della preghiera e del ringraziamento» («missa» con la «m» minuscola vuol dire «la fine», il momento del congedo: «ite, missa est »). Il secondo, al capitolo 60° dove si legge: «ai sacerdoti che eventualmente desiderassero farsi monaci viene concessa dall’abate la licenza di benedire «aut missas tenere», che può significare « celebrare la Messa», come dicono quasi tutte le tradizioni, ma anche «la preghiera finale delle Ore corali», e quindi può pure indicare la chiusura della celebrazione anche non sacramentale.

Sono quindi pochissimi i cenni relativi alla celebrazione della S. Messa in Monastero nella Regola di S. Benedetto. Non si può però escludere che essa sia stata frequente.

S. Gregorio Magno loda il Vescovo di Narni, Cassio, per aver celebrato quasi ogni giorno, vedendo nella S. Messa un mezzo di propiziazione accanto alla elemosina e alle lacrime. S. Agostino ci fa capire in diversi passi delle sue opere che la Messa quotidiana era in onore nella sua città episcopale. S. Cesario si limita a dire che la S. Messa sarà celebrata con la frequenza che piacerà all’abate o all’abbadessa. E si limita a prescrivere la S. Comunione alla domenica. Il che prova che prevede anche la possibilità che la Messa non possa venir celebrata un giorno festivo.

3. L’Eucaristia e l’Opus Dei

Per De Vogüé la scarsità delle annotazioni che si trovano in merito nella S. Regola è legata non solo al fatto che la disciplina eucaristica è ecclesiale o gerarchica e non prettamente monastica, ma anche al fatto che non le si può assegnare – come alle varie Ore corali – un posto necessario o unico nell’«Ordo».

Le Ore vengono distribuite secondo la convenienza per santificare tutta la giornata e la notte e quindi ci si deve chiedere, circa le stagioni, a che ora convenga celebrare Terza, Sesta, Nona, Lodi e Vespro.

La S. Messa, invece per sua natura non richiede un’ora fissa, non fa parte di quelle strutture della giornata il cui orario viene determinato in base alle tradizioni monastiche. Oggi verrà celebrata anche tenendo conto delle possibilità dei cappellani.

Dice De Vogüé: «Sebbene la Messa non abbia una relazione intima al tempo, perché santifica tutto il tempo umano (e non singoli momenti della giornata come la Liturgia delle Ore), la Messa diventata quotidiana e solenne deve apparire come il centro, il coronamento dell’”Opus Dei”».

Infatti così appare nelle Costituzioni benedettine odierne.

Per la sua grandezza sublime, per il Mistero ineffabile che in essa viene celebrato, in un certo senso, la S. Messa schiaccia quasi le Ore del giorno dell’«Opus Dei», che non possono competere quanto a importanza liturgica con essa.

È da notare tuttavia che qualsiasi Ora si fosse scelta per celebrare l’Eucaristia, era rarissimo nel monachesimo antico il caso che quest’Ora si trovasse in coincidenza con un’Ora dell’«Opus Dei», per evitarne appunto la soppressione.

Oggi la tendenza della riforma liturgica postconciliare è quella di evitare la concomitanza di due celebrazioni. Se, per esempio, non si recita Vespro il Venerdì Santo perché in quell’ora ha avuto luogo la celebrazione liturgica, non vedo perché lo si debba sopprimere all’ora stabilita – per es. alle ore 16 – se la celebrazione liturgica avviene alle ore 19 o 20 di sera.

Questa osservazione rende problematico l’abbinamento – caro a qualche riformatore monastico – di un’Ora con la Messa conventuale. Mi riferisco alla pratica per la quale l’Introito della messa e l’Inno dell’Ora sono una cosa sola; dopo l’Introito della Messa, in certi monasteri, si recitano i salmi (o di Lodi o dei Vespri), indi si ritiene che la prima Lettura e il vangélo della Messa sostituiscano il capitolo delle Ore e che le preci della Messa sostituiscano quelle dell’Ora corrispondente e che il «Padre nostro» della Messa valga per quello delle Ore. Poi si canta, dopo la Comunione – secondo l’Ora di Benedictus o il Magnificat –. È un metodo comodo, ma non privo di aspetti discutibili.

La considerazione sulla diversità della natura della celebrazione (l’Ora canonica santifica l’ora del giorno, mentre la S. Messa celebra la pienezza del Mistero di Cristo) giustifica il fatto, che appena celebrata la funzione più nobile (la S. Messa), si aggiunga ad essa la celebrazione dell’Ora minore. Ad esempio, prima si celebri Vespro poi la S. Messa e quindi Compieta. Non si tratta di doppioni, nonostante i doppioni apparenti dei due Pater, delle doppie preci, ecc.

È legittimo celebrare la S. Messa prima dei Vespri o delle Lodi o dopo queste Ore. Ciò che la riforma liturgica ha voluto sensatamente evitare è che si dicano di fila tutte le Ore. Se una Comunità – non obbligata a tutta la celebrazione corale – non può dire l’Ufficio integralmente, perché i monaci sono pochi, si dicano le Ore che si possono dire all’ora giusta, dando la preferenza alle Ore centrali: Lodi e Vespro.

II – L’adorazione del SS. Sacramento nella prospettiva della regola benedettina

S. Benedetto non dice espressamente di rimanere nell’Oratorio dopo la Sinassi, per adorare il SS.mo Sacramento. Dice invece che «se qualcuno voglia pregare privatamente entri semplicemente e preghi con lacrime e compunzione del cuore e non già a voce alt » (c. 52).

La prima disposizione che si trova in tale capitolo (52), che cioè «L’Oratorio sia tale, quale è nominato, né vi si faccia o vi si riponga cosa estranea» si riferisce all’uso egizio di lavorare durante la salmodia, per cui venivano lasciati in coro gli arnesi del lavoro.

L’adorazione del SS.mo Sacramento è nata in età posteriore, per ispirazione dello Spirito Santo e fu praticata anche nei monasteri.

Per voi Benedettine del SS.mo Sacramento è parte integrante della vostra vita monastica.

A proposito dell’adorazione vorrei fare qualche osservazione prendendo spunto dalla Regola di S. Benedetto. Molto infatti si scrive sull’adorazione sotto prospettive diverse da quella benedettina.

1. L’adorazione del SS.mo Sacramento è l’attuazione dell’ideale della S. Regola: vivere alla presenza di Dio

La presenza di Dio, per S. Benedetto, è qualcosa di assolutamente fondamentale.

Narra S. Gregorio Magno che S. Benedetto, avendo provato per un certo tempo a governare la comunità ingovernabile di Vicovaro, dove ognuno faceva solo ciò che gli piaceva, vi rinunciò. E tornò alla sua cara solitudine e solo – sotto lo sguardo del supremo Testimone – abitò con se stesso.

Tutta la vita di Benedetto è presenza a Dio e, meglio ancora, è presenza di Dio a Benedetto. L’immensità di tale oggettiva Presenza riempie il suo universo interiore. Prima che noi possiamo guardare in faccia Dio, è Dio che guarda noi. Benedetto ha un senso profondissimo di quel Dio che è a lui presente, che lo guarda: il Dio vivente, il Dio che vede. Crede nella trascendenza di Dio, crede nella sua grandezza infinita, ma questa stessa sua trascendenza e grandezza è immanenza. Il Dio di Benedetto non è un Dio lontano, inaccessibile, estraneo all’impurità del mondo, alle realtà contingenti. Benedetto è lontanissimo dai sistemi gnostici e del manicheismo; Dio sarebbe meno grande ai suoi occhi se non fosse presente ad ogni modalità del suo essere umano. Egli è estraneo alle difficoltà che sollevano i filosofi. Benedetto conosce solo il Dio della Bibbia, l’Altissimo che nel con-tempo è il vicinissimo, che si china su di noi e aspetta ogni giorno una risposta alle sue profferte d’amore.

S. Gregorio soggiunge nei Dialoghi in risposta alle domande insistenti del Diacono Pietro, cui di proposito attribuisce una mente chiusa e lenta: «Io dico, dunque, che il sant’uomo abitò con se stesso, perché sempre attento alla custodia di se stesso». Esaminandosi sempre agli occhi del Creatore, badò di non lasciare la presenza di Dio, di non permettere all’occhio del suo spirito di vagare fuori. Lo sguardo di Dio provoca il santo alla custodia del cuore. Tale descrizione di S. Gregorio ci fa raggiungere Benedetto nel suo effettivo comportamento. Il pensiero della presenza di Dio gli era troppo familiare, perché S. Gregorio lo possa avere inventato. E Benedetto insisterà sempre su questo aspetto della vita monastica che è una vita sotto lo sguardo di Dio che vede tutto, che si posa su di noi. È un concetto che ritornerà spesso nella sua Regola, dove soprattutto al c. 4 ci consegna due strumenti importantissimi dell’arte spirituale «custodire sempre le azioni della propria vita», «ed in ogni luogo essere sicuri che Dio ci vede»; averne una tale certezza che ci porti ad una vigilanza continua.

In fondo questo è il motivo del comportamento dell’umile.

L’umile (c. 7), infatti, «riflette che Dio sempre e senza posa lo guarda dal Cielo e che le sue azioni in ogni luogo sono vedute dall’occhio divino, riferite dagli Angeli ad ogni momento. È ciò che ci manifesta il profeta: «Dio scruta i cuori e le reni». E similmente: «II Signore conosce i pensieri degli uomini» ; così pure dice «ha visto i miei pensieri da lontano», e altrove «il pensiero dell’uomo sarà svelato dinanzi a te».

La presenza di Dio è un dato fondamentale della vita benedettina e l’adorazione non può che conformarci in tale atteggiamento. Infatti come ci insegna S. Benedetto non siamo tanto noi a cercare lo sguardo del Signore e il suo volto, quanto Lui a cercare noi.

E allora possiamo incontrare lo sguardo del Signore quando nell’adorazione oltre all’atteggiamento esteriore ci dedichiamo effettivamente col cuore, con la mente, con ogni pensiero e con tutta la nostra persona.

2. Non c’è alcun antagonismo tra Opus Dei e Adorazione Eucaristica

Non c’è diversità di prospettiva tra l’Opus Dei e l’Adorazione, quasi che salmeggiando ci si rivolga a Dio Padre, mentre nell’Adorazione eucaristica ci si rivolga a Gesù.

Secondo tutta la dottrina della Scuola francese del 1600, di cui la spiritualità mectildiana è tributaria, Gesù è considerato come il perfetto Adoratore del Padre, il perfetto Religioso che introduce mirabilmente il cristiano nella condivisione dei suoi stati, in quello spirito di annientamento e di obbedienza, tanto raccomandati da S. Benedetto nei capitoli 5 e 7 della S. Regola.

a) Gesù Cristo, perfetto adoratore del Padre

E a proposito di Gesù Cristo, perfetto adoratore del Padre, vorrei sottolineare, che tale prospettiva – sviluppatasi nel 1600 – la si trova già presente nella Regola benedettina. Lo stato religioso infatti fa del monaco la «res Dei» cioè «La cosa di Dio», il Suo dominio. Il monaco consacra a Dio quanto ha, quanto può dare e scarta tutto ciò che lo può distrarre da Lui. Il suo è uno stato di consacrazione, di donazione completa. È da questo stato che gli derivano i suoi doveri di adorazione e di preghiera riparatrice. Il dovere di aggiungere sacrifici e rinunce alla solita vita cristiana.

Gesù, per l’Incarnazione, è in uno stato di radicale consacrazione a Dio suo Padre; lo stato religioso perpetua la religione di Gesù Cristo.

b) Pregare Gesù è pregare Dio

Secondo S. Benedetto la lode corale è sicuramente rivolta a Cristo. Voglio citare un passo di P. Oury che dice: «Se san Benedetto vuole che l’Abate sia assolutamente “Padre”, è perché egli ha un concetto elevatissimo della paternità di Cristo. L’Abate è vicario di Cristo, padre per i suoi monaci; è mandato ad ognuno di essi, affinché rappresenti Cristo nella vita di ciascuno. L’Abate è un semplice luogotenente, fa le veci di Cristo. La famiglia che regge non è sua, è di Cristo; la dottrina che insegna non è sua, è quella di Cristo; i figliuoli che circonda della sua sollecitudine non sono suoi, sono figli di Dio e sono quelli che Gesù Cristo chiamava «figliuoli». È padre chi genera, chi da la vita. I libri sapienziali che S. Benedetto cita moltissimo usano largamente il frasario della paternità, perché nell’ordine spirituale esiste una reale paternità.

Ora, S. Benedetto che conosceva molto bene il valore di questa paternità in tutta la tradizione monastica, allo stesso modo del Maestro, l’ha vista come paternità dottrinale esercitata da Cristo. È Cristo il maestro del singolo monaco. Spesse volte le relazioni tra Gesù e i suoi discepoli hanno avuto il carattere di rapporti: «padre-figlio». Nel discorso dell’Ultima Cena Gesù dice di non volerli lasciare orfani.

Li ha chiamati col nome di «bambini» «figlioli», come facevano i maestri della sapienza in Israele.

Il Maestro nella sua regola chiama Cristo: «Padre»; a lui rivolge l’orazione domenicale del « Padre nostro»; Cristo è il Signore, il Creatore, la fonte delle grazie, il Capo dell’umanità nuova.

S. Benedetto invece ha minor tendenza del Maestro a chiamare esplicitamente Gesù: «Padre»; e tuttavia nel 2° capitolo della Regola ce lo presenta quale Padre di famiglia, Padrone della casa, di cui l’abate è il sovrintendente: «Sappia l’abate che verrà imputato a colpa del pastore quel meno di utile che il Padre di famiglia avrà ritrovato nelle sue pecorelle». Nel Prologo, S. Benedetto ci presenta Gesù come Maestro, invitandoci ad ascoltare lui; e ancora ce lo presenta come il vero Re. Ed è ancora di Gesù che parla nei versetti seguenti, supplicandolo di voler dare vigore al proposito di vita monastica: è Gesù Cristo che si degna di annoverare il monaco tra i suoi figli; è Gesù Cristo, il Padre adirato, il Maestro terribile, che imporrà la pena e il castigo eterno al debitore insolvibile.

È quindi facile dedurre – se si vuole rifiutare ogni coerenza al pensiero di S. Benedetto e al modo logico con cui le sue frasi si snodano – che per S. Benedetto Cristo è il Padre, e che il monaco è unito a Cristo-Padre con rapporti filiali [1].

Così risulta secondaria la problematica di chi si chiede se recitando i salmi, li reciti insieme a Cristo, rivolgendosi con lui al Padre, o se prega il Cristo. Per S. Benedetto mi pare sia valida la seconda ipotesi. Per i Padri anteriori, Cassiano, ecc. la salmodia non era preghiera, ma ascolto della Parola di Dio, a cui si rispondeva con l’«oratio» breve, fervorosa e pura, rivolta a Cristo e, senza salto logico consapevole, a Dio uno e trino. E pure qui S. Benedetto fa un discorso che porta direttamente da Gesù Cristo alla SS. Trinità. Nell’Italia d’allora dominata politicamente dai Goti ariani, S. Benedetto ha affermato con chiarezza la sua fede trinitaria. Un segno di ciò lo troviamo nella struttura stessa dell’Ufficio divino. Ma non basta. Tutta la vita del monaco, infatti, è mossa da una dinamica segnata dall’azione delle tre Persone divine: l’Amore del Padre, manifestatosi nel Figlio provoca il monaco ad una risposta d’amore che conforma il suo agire a quello di Cristo, e trova la sua pienezza in una carità, liberata da ogni ostacolo, sotto la guida dello Spirito Santo.

È vero che la S. Regola si limita a descrivere il secondo momento di questo itinerario trinitario, vale a dire – la conformità a Gesù Cristo – ma tale momento non può spiegarsi senza il primo. Molte volte infatti S. Benedetto richiama il fine educativo della S. Regola, che è sempre la pienezza della carità nello Spirito (cfr. Prologo; c. 7; c. 71 e 72).

L’itinerario della vita spirituale incomincia con la rivelazione dell’Amore e si compie in un amore purissimo per Chi ha provocato in noi l’Amore.

3. La «Grazia» nell’adorazione eucaristica e nella Regola Benedettina

L’adorazione eucaristica è propiziatrice di Grazia divina per il mondo, su cui s’implora la misericordia di Dio; è riparazione del disprezzo quotidiano che il mondo ha della Grazia divina; ma è pure fonte di grazia per colui che adora. Questi viene trasformato in adoratore in spirito e verità, viene reso partecipe della adorazione che la Sacra Umanità di Gesù tributa al Padre, per la sua grazia divinizzante.

Desta meraviglia invece che nella Regola di S. Benedetto non sia quasi mai nominata la «Grazia».

Se si osserva ad es. nel Prologo e nel cap. 58 si ingiunge al discepolo di comportarsi in un determinato modo, così che la osservanza dei comandamenti sembra quasi dipendere dalla sola volontà del discepolo. Da ciò lo attende il premio eterno o il castigo eterno: la Geenna. «Se un giorno dovesse agire diversamente sappia che verrà condannato da Colui di cui si burla». Del resto prima che faccia professione gli si dica: «Ecco la Regola, la legge sotto la quale tu vuoi militare. Se puoi osservarla, entra. Se non puoi, parti pure liberamente» (c. 58). Si ha quasi l’impressione che per S. Benedetto il discepolo sia libero di fare il bene o il male senza dipendere completamente dalla Grazia. Gli si propone una strada difficile, gli si prospettano «dura et aspera» «le prove» del monastero, gli «obbrobria», le contraddizioni e le sofferenze; gli si dice: «Questa è la Regola: se puoi, vieni e resta; se non puoi, vattene».

Si sa che Cassiano stesso fu sospettato di pelagianesimo e che le sue opere furono condannate alla fine del secolo VI. Così che oggi dalle sue opere sono stati espunti i passi che sapevano di tale corrente pelagiana. Si aveva appunto l’impressione che l’uomo avesse la capacità di arrivare – da solo – alla meta della santità.

S. Benedetto non conosceva ancora la condanna di Cassiano, falsamente poi attribuita al Papa Gelasio.

In realtà, può giovare ricordare come la necessità della Grazia pervada tutta la S. Regola. « S. Benedetto non parlava da teologo, ma da autore ascetico, il cui proposito è di guidare lo sforzo morale dei discepoli. E tuttavia teneva ben presente il problema della Grazia. Nella sua Regola lo accenna – per chi legge bene – in più di 15 passi, correggendo certe esagerazioni del Maestro, relative al senso ortodosso della necessità della Grazia.

S. Benedetto ne riconosce l’assoluta necessità. È consapevole che l’imperfezione e l’impotenza dell’uomo-peccatore costituiscono di per sé un’invocazione permanente del soccorso divino. Tale consapevolezza si deve esprimere nella preghiera umile, in una insistente invocazione. Ogni forma di bene, ogni progresso nella vita della santità è riflesso di Dio e viene da Dio [2].

Nel Prologo S. Benedetto dice al monaco che prima di ogni azione chieda a Nostro Signore Gesù Cristo con una ardentissima preghiera « che porti a compimento il suo proposito ». Con tale atto – secondo S. Benedetto – il monaco protesta la sua umiltà, confessa la sua radicale impotenza e si appella alla divina misericordia. È il fondamento su cui costruisce l’umiltà.

L’indispensabile umiltà, come S. Benedetto ce la presenta, in modo accentuato è la dichiarazione manifesta e palese della necessità della Grazia. Egli cita il salmo 113: «Non a noi, Signore, non a noi, ma al Tuo nome da Gloria!» e riprende la citazione di S. Paolo che non si è voluto attribuire nulla del bene che vede in sé e del successo della sua predicazione, ma che dice: «Gratia Dei sum id quod sum!»(1 Cor 15, 10), «Chi si gloria, si glorii nel Signore!» (2 Cor 10, 17).

Questo lungo paragrafo che si trova nelle prime pagine della Regola (Prologo) è fondamentale. Manifesta il pensiero del legislatore e proietta la sua luce sull’insieme del codice di vita perfetta che propone. L’uomo agisce sì, ma sotto l’influsso di Dio, e tutto il cammino verso la meta è sostenuto dalla vigilanza attenta di un Superiore. Il monaco si sforza di obbedire in ogni tempo, grazie ai beni che il Signore ha messo in lui. I talenti che si fanno fruttificare sono doni del Signore, senza i quali niente si sarebbe potuto intraprendere. Nelle difficoltà, S. Benedetto vuole che il discepolo ricorra alla preghiera, perché con l’aiuto di Dio ogni ostacolo può essere superato. «Per quello che la natura trovasse in poi di meno possibile, preghiamo il Signore di ordinare alla sua Grazia di fornirci il suo appoggio e soccorso» (Prologo).

Questo linguaggio, dell’immagine, ci fa capire in modo chiaro la necessità dell’aiuto di Dio per vivere nella fedeltà.

Al cap. 4, elencando gli strumenti delle buone opere dice esplicitamente: «Ciò che si troverà di buono in se stessi, lo si riferisca a Dio e non a se stessi; il male invece sia convinto d’averlo commesso lui e ne ritenga se stesso responsabile».

Nel cap. 7 S. Benedetto ci presenta l’umiltà, di cui il passaggio tra un gradino e l’altro richiede che la Grazia di Dio sostenga lo sforzo e la perseveranza.

Egli termina la S. Regola dicendo con certezza: «Tu riuscirai, tu arriverai». La speranza non sarà vana, ma non certamente quella collocata nell’uomo. Se l’uomo arriverà alla vittoria prospettata nell’ultimo capitolo, sarà unicamente per la protezione di Dio.

Per questo il monaco, sostenuto dalla Grazia, cercherà con generosità e costanza di compiere tutto ciò che la Regola prescrive. E spiegando in ultimo come la Regola sia appena un piccolo inizio di santità, S. Benedetto dice al monaco: «Compi dapprima – con l’aiuto di Dio – questo primo abbozzo di Regola» [3].

La Grazia è indispensabile ed è nell’adorazione eucaristica che la propiziamo a noi, alla Comunità, all’Ordine, alla Chiesa, al mondo intero.

4. L’adorazione eucaristica: ascolto del Verbo. Attività prettamente « benedettina »

L’adorazione è attività prettamente benedettina, perché tutta incentrata sull’ascolto del Verbo; è via e occasione per giungere a quella preghiera fervente, pura, fatta con lacrime a cui tutta la vita monastica deve condurre il monaco; è anticipazione alla vita celeste; è vita alla presenza di Dio; è pregustazione del Regno a cui siamo chiamati.

L’adorazione con le sue fervide implorazioni di aiuto e di perdono si inserisce nella continua ricerca di Dio.

«Tutto passerà – dice S. Paolo – ma non passerà mai la carità».

Quello che non passerà della vita monastica è l’«Oratio» e con essa l’adorazione, la preghiera pura, l’adorazione dell’Agnello.

La vostra vita di monache adoratrici è perfettamente monastica, perché è già quaggiù la vita perfetta, la pratica dell’unica attività che ci resterà nell’eternità.

 



* Aderendo anche all’invito dei lettori, riprendiamo ben volentieri la pubblicazione delle lezioni che l’allora P. Amedeo Grab osb, oggi Vescovo di Ginevra, tenne nel 1979 alla nostra comunità monastica. Le lezioni precedenti sono state pubblicate in «Deus Absconditus» nei nn. 2-3-4 del 1983; nn. 2-4 del 1984; n. 1 del 1986.

[1] Oury, Dom Guy-Marie, Ce que croyait Benoît, Mame, Tours, Paris, 1974, pp. 76-77.

[2] Oury, Ce que croyait Benoît, cit., pp. 88-89.

[3] Oury, Ce que croyait Benoît, cit., pp. 90-93.