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Deus absconditus,  anno 95,  n. 3, Luglio-Settembre 2004, pp. 42-45
 

Sr. M. Cecilia La Mela osb ap *
San Benedetto e Madre Mectilde: seminatori di speranza

La speranza, tra le tre virtù teologali, sembra la meno scontata, forse la più facile, ma non sempre diventa emblema peculiare del cristiano. Invece, la speranza è una caratteristica propria del cristianesimo in quanto religione del Risorto, della vita eterna, della gioia. Non si tratta soltanto di una dimensione escatologica, quasi una realtà futura, ma è uno stile di vita, una tensione evangelica che fa del presente una risorsa infinita di ottimismo e di apertura. Un’alunna della nostra scuola, S. R., che frequenta la seconda elementare e che un anno prima aveva perso il papà in un incidente stradale, alla domanda nata occasionalmente nell’ora di religione, «cosa è la speranza», senza aver ricevuto nessun suggerimento in merito, ha risposto: «La speranza è aspettare qualcuno e sapere che viene». Una definizione così concisa e profonda non l’ho trovata in nessun manuale di teologia! Ha ragione San Benedetto quando afferma che «Spesso ad uno più giovane il Signore ispira un parere migliore» (RB 3,3).

La speranza non è soltanto attesa, ma è certezza, è fede, è un riconoscere Colui in cui è posta la nostra fiducia; è saper cogliere, nei tempi, ritmi e modalità divini, il momento di grazia che diventa foriero di doni, di crescita, di maturazione, anche quando la nostra impazienza, il nostro soffrire, la nostra oscurità potrebbero gettarci nell’ansia o nello scoraggiamento. E allora, come l’apostolo Pietro, possiamo dire: «Sulla tua Parola getterò le reti».

San Benedetto è un uomo di grande speranza, un uomo forte, sapientemente accorto e profondo conoscitore dei dinamismi psicologici dell’uomo, dei vari stadi di maturazione, delle tappe, più o meno comuni, del cammino umano e spirituale del singolo e della comunità. La speranza benedettina, che è il corrispettivo del coraggio, la possiamo include tra le prime affermazioni e la conclusione della Regola:

«Dobbiamo dunque costituire una scuola del servizio del Signore. E nel costruirla noi speriamo di non stabilire nulla di penoso, nulla di pesante. Ma se qualche cosa un pochino dura, suggerita da un ragionevole equilibrio, dovrà pure introdursi per la correzione dei vizi o per la conservazione della carità, non ti lasciar subito così cogliere dallo sgomento da abbandonare la via della salute, che non può intraprendersi che per uno stretto imbocco. Ma con l’avanzare nelle virtù monastiche e nella fede il cuore si dilata, e la via dei divini precetti si corre nell’indicibile soavità dell’amore». (RB, Prologo, 45-49).

Nel mezzo, tra il Prologo e la conclusione, iscriviamo tutte le volte in cui il nostro Santo Padre dispone la vita comunitaria in modo che nessuno si rattristi, sia turbato, o si scoraggi perché «A quelle più alte vette di dottrina e di virtù, che abbiamo sopra menzionato, potrai certo facilmente giungere con la protezione di Dio. Amen». (RB, 73,9). Così si chiude la Regola, con la stessa certezza che con l’aiuto di Dio e tanta buona volontà la meta, anche la più difficile o lontana, non diventerà mai occasione di rinuncia, di ripiego, di abbandono. È questo il messaggio evangelico, la novità di un Dio talmente vicino alla sua creatura da non permettere che la tentazione sia al di sopra delle forze umane; è la richiesta del Padre Nostro, è la risposta di Cristo: «Non temere, piccolo gregge, il Padre vostro sa di che avete bisogno». (Lc 12,32).

Tra i vari e numerosi testi di Madre Mectilde de Bar è possibile rintracciare una varietà considerevole di rimandi alla speranza, di forti dosi d’incoraggiamento, di quella dimensione benedettina della pace, della serenità interiore, della stabilità di fondo che fa da substrato a tutta l’impalcatura umana e spirituale della Fondatrice e del suo specifico carisma. La parola ‘coraggio’, poi, risuona forte e incisiva in numerosissime lettere e conferenze. Mi limito a proporre soltanto uno spezzone, estrapolato dal testo Attesa di Dio, non per nulla affiancato alla lettura della Regola, quasi un commento e un corollario al femminile dell’antropologia acuta di San Benedetto. 

«La bontà di Dio avrà cura di tutto ciò che vi riguarda, se voi avete come unica cura di piacergli e di desiderare Lui solo, lavorando per la sua gloria. Posso assicurarvi che le vostre fatiche saranno ben ricompensate. Risollevate ogni giorno il vostro coraggio; non vi spaventate delle difficoltà. Le opere di Dio si stabiliscono nella croce. Occorre perseverare per non spaventarsi delle difficoltà che si incontrano»[1].

È nota la fiducia che Madre Mectilde riponeva nella Divina Provvidenza, nel modo tenero e attento con cui Dio si prende cura dell’uomo, e che fa della speranza un contenuto della fede. Sia San Benedetto sia Madre Mectilde non hanno costruito la loro santità a tavolino, o ancor più l’hanno ricevuta in dono sin dalla nascita; il loro stile di vita cristiano è stato soprattutto un tenere vivo l’aggancio con l’umano, con la sfera propriamente emotiva, affettiva, intellettuale e psicologica di ogni individuo. La personalità di entrambi, senza dubbio eccezionale e carismatica, è frutto di un incessante lavoro su se stessi come risposta all’opera della grazia. Essi sanno che il novizio, il monaco, all’inizio del loro cammino sono fortemente attratti dall’ideale della ricerca di Dio ma che conservano ancora, anche involontariamente, molti legami con il passato, con le proprie idee, convinzioni, giudizi, esigenze varie; la scalata non è sempre facile o priva d’intoppi, contraddizioni, contrarietà. Ma solo uno sguardo di fede può indicare il metodo più rapido e corretto per affrontare di petto le difficoltà e risolverle in modo definitivo, senza fare delle proprie paure, delle grigie previsioni e dei rimpianti, occasione d’inciampo, di rallentamento, o peggio ancora, di rinuncia. Non possiamo porre mano all’aratro e poi voltarci indietro: non ci fa degni di Cristo, alla cui sequela ci siamo messi spinti da tanto ardore ed entusiasmo.

La speranza diviene una silenziosa ma essenziale compagna di viaggio; nella saccoccia che ci portiamo dietro, la giusta dose di coraggio non è mai troppa, e bisogna farsene una buona scorta ogni volta che il cammino si presenta più duro e tortuoso. Non ci devono fermare le inevitabili cadute, né il peso del peccato, perché nulla può essere più grande di Gesù, neanche il tuo peccato, le tue inclinazioni, le tue pene. Credi questo e vincerai nelle più gravi difficoltà e nelle lotte della fede, a favore della carità, sostenuto dalla speranza, perché come diceva il filosofo ateo Nietzsche «Ciò che non mi uccide mi rende più forte». In fondo, l’ultimo strumento delle buone opere, quasi il compendio di tutti gli altri, «Della misericordia di Dio giammai disperare» (RB 4,74), non è altro che l’atteggiamento più consono ad accrescere in noi la sfera della speranza, a renderci monaci e monache equilibrati, profondamente protesi verso l’abbraccio del Padre, che è misericordia infinita di bene per ogni suo figlio.

La festa della divina Volontà, voluta annualmente il 25 settembre dalla nostra Madre Fondatrice, non è, di fatto, la festa del trionfo di un’obbedienza che si fa speranza, di una luce più forte nelle tenebre, se ci lasciamo guidare da Dio? Madre Mectilde, inoltre, più volte insiste nell’esortarci a non ripiegarci su noi stesse, e afferma che l’eccedere nello scrupolo e nell’autocommiserazione è segreta umiliazione dell’amor proprio che non accetta di vedersi imperfetto e miserabile. Occorre avere un cuore dilatato in tutto per correre, anzi, per volare sulla via tracciata da Gesù Cristo, e Gesù non ci impone carichi pesanti, gioghi che schiacciano e umiliano la persona.

Il monastero è la scuola del servizio divino, è un’officina dove il monaco (ma il discorso vale anche per tutti i cristiani) è chiamato ad esercitarsi per crescere sempre più nell’amore come risposta alla volontà preveniente e susseguente del Signore che, anche nel deserto, apre una strada ai suoi figli viandanti e dà loro il Pane della sua Parola e del suo Corpo.

«È di fede», espressione usata sempre da Madre Mectilde per avvalorare le sue esortazioni, che le promesse di Dio non vengono mai meno. Basta prendere come modello la Vergine Maria, donna della speranza, e con Lei tutti coloro che, lungo il dispiegarsi storico e temporale del cammino della salvezza, hanno sperato contro ogni speranza. Occorrono perseveranza e fedeltà, ci suggeriscono i nostri Fondatori: solo così la meta finale non è più qualcosa di evanescente o di fugace, ma è la certezza di un possesso, la realizzazione di una promessa, la risposta ad una chiamata che sono già in noi, anche quando ancora il nostro tragitto umano, cristiano, monastico, si snoda tra incertezze, limiti, sforzi, difficoltà, ma sorretto dal desiderio, dal già e non ancora che diventa pienezza di vita anche nel presente, nella nostra quotidianità itinerante. Per cui: «Siate forti, riprendete coraggio, o voi tutti che sperate nel Signore». (Salmo 30).

 



* Monaca del Monastero San Benedetto di Catania.

[1] Catherine Mectilde de Bar, Attesa di Dio, ed. Jaca Book, Milano 1982, p. 64.