Deus absconditus, anno 98, n. 4, Ottobre-Dicembre 2007, pp. 130-137
Madre Anna-Maria Cànopi, osb
La comunità monastica: segno escatologico
della Chiesa pellegrinante verso la Gerusalemme celeste
La più limpida e suggestiva icona della dimensione escatologica presente nella vita e nella Regola di san Benedetto è forse quella dell’ultimo incontro con la sorella Scolastica seguita poi dalla visione da lui contemplata mentre l’anima della sorella, sotto forma di colomba, vola verso le altezze del cielo (cf. Gregorio Magno, Dialoghi, II,33-34). Icona escatologica è pure la stessa morte di Benedetto in piedi, munito dell’Eucaristia, in preghiera fino all’ultimo respiro, e ancora la visione dei due discepoli che lo contemplano mentre sale al cielo per una via larga e luminosa (cf. Dialoghi, II,37).
San Gregorio Magno, nel secondo libro dei Dialoghi ha evidenziato con queste immagini quanto Benedetto aveva scritto nella Regola tracciando per i monaci la rettissima via che riconduce a Dio.
Già nei primi versetti del Prologo, infatti, si trova l’affermazione che possiamo tornare alla casa del Padre unicamente per la via dell’obbedienza imitando, quali figli nel Figlio, il Signore Gesù Cristo. Come tali, di lui siamo stati fatti coeredi, ma se rifiutiamo di obbedire, ci poniamo come servi malvagi che non lo vogliono seguire nel regno della gloria. Il Signore ogni giorno domanda: «C’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per vedere il bene?» (cf. Prol. 14). Per meritare di vedere Colui che ci chiama al suo regno bisogna procedere sulle sue vie – quelle dei suoi voleri – sotto la guida del Vangelo, muniti di una fede robusta e comprovata dal compimento delle buone opere (v. 21). Non solo bisogna camminare, ma correre con ardore proprio nel compiere il bene.
C’è dunque anche da considerare il modo di compiere le buone opere: non confidando in se stessi, non ritenendosi capaci da soli, ma unicamente in forza della grazia divina. Riconoscendo che è Dio ad operare in noi, come Maria dobbiamo magnificarlo (cf. vv. 22.29). Nella sua bontà il Signore giunge a tale empatia da assumere il nostro peccato e la conseguente morte per darci la sua vita (cf. v. 38).
In contrapposizione alla beatitudine della vita eterna, Benedetto mostra la realtà dell’inferno, ossia del regno delle tenebre, dove il castigo consiste nell’essere privi della visione di Dio e della partecipazione alla sua vita che è comunione d’amore.
La vita eterna deve però essere desiderata; la si desidera nella misura in cui si crede che c’è. È proprio l’intensità del desiderio a sospingere, a farci correre, ossia a farci operare all’istante tutto ciò che ci può giovare per sempre (v. 49).
È accaduto che in una Trappa nelle vicinanze di Parigi si dovesse far coincidere nello stesso giorno le esequie di un monaco anziano e la professione solenne di un giovane. Davanti alla bara ancora aperta il neo-professo canta il suo “Suscipe” levando al cielo le braccia e lo sguardo con voce vibrante di amore e di gioia…
Assiste alla celebrazione un ragazzo di vent’anni. Intuisce come per una folgorazione interiore il valore della vita, il significato di quell’unica festa per l’inizio e per il termine del cammino verso Dio…
Dopo un’ora si presenta all’abate e gli dice con risolutezza: «Voglio diventare monaco». Ed entra in monastero (cf. Marie-Gérard Dubois, Passione estrema per l’assoluto, Piemme, Casale Monferrato 1997, pp. 5-11).
Tenendo lo sguardo rivolto al Cielo, diventa più facile accettare le fatiche e le sofferenze del tempo presente come partecipazione al mite patire del Cristo, per meritare di condividerne pure la gloria nel suo Regno (cf. v. 50).
L’itinerario è già tutto chiaramente tracciato nel Prologo della Regola. San Benedetto poi, esponendo le norme di vita per i monaci, continuamente mostra loro la direzione del cammino, lo scopo di tutto il loro essere e agire: giungere alla comunione di vita con Dio nella sua eterna dimora di luce e di pace, dove regna in assoluto l’Amore.
Nel capitolo 2º, Benedetto si preoccupa di offrire ai monaci una guida e un durevole sostegno nella persona dell’abate, il vices Christi che funge da padre, madre, buon pastore, medico sapiente, servitore…
Egli non deve perciò mai perdere di vista la giusta direzione del cammino per condurre il gregge affidatogli dal Buon Pastore verso i pascoli della vita eterna:
«Soprattutto l’abate non trascuri né tenga in poco conto il bene spirituale dei suoi monaci preoccupandosi maggiormente delle cose transitorie, materiali e destinate a perire. Pensi invece continuamente che egli ha avuto in consegna persone da guidare e che di esse dovrà rendere conto a Dio. Perché poi non gli accada di giustificarsi adducendo il pretesto della scarsità di mezzi, ricordi che sta scritto: Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (vv. 33-35).
L’abate, dunque, deve prodigarsi perché tutti i membri della sua comunità possano raggiungere il fine della loro vocazione: Dio. Egli mette a disposizione tutto se stesso, senza risparmio di forze fisiche e morali, ma soprattutto la sua incessante preghiera per tutti e per ciascuno, con particolare premura per quelli che sono malati spiritualmente:
«L’abate sia estremamente sollecito, e si prodighi con tutta saggezza e perspicacia per non perdere nessuna delle pecore che gli sono affidate. Sappia di aver ricevuto anime inferme da curare, non anime sane su cui esercitare un potere dispotico. Tema la minaccia del Profeta, per bocca del quale il Signore dice: Prendevate ciò che vedevate grasso e invece gettavate via quello che era debole. Imiti il gesto tenerissimo del buon Pastore che, lasciate sui monti le sue novantanove pecore, andò alla ricerca di quella sola che si era smarrita, e tanto si mosse a compassione per la sua debolezza, da degnarsi di caricarsela sulle sacre spalle e così riportarla in seno al gregge (RB 27,5-9; cf. RB 28).
Comportandosi così l’abate potrà un giorno comparire davanti al Signore e sentirsi dire le consolanti parole rivolte al servo fedele della parabola evangelica, che a tempo opportuno aveva distribuito il grano ai suoi compagni: «In verità vi dico: lo mise a capo di tutti i suoi beni» (Mt 24,47; cf. RB 64).
La prospettiva della vita eterna e il necessario impegno per giungervi si presenta con frequenza quasi incalzante nel capitolo 4º in cui sono indicati gli strumenti delle buone opere:
«Rendersi estraneo al modo di pensare e di agire del mondo.
Nulla anteporre all’amore del Cristo. […]
Pensare con terrore alla realtà dell’inferno.
Desiderare con tutto l’ardore dell’animo la vita eterna».
(RB 4,20-21.45-46).
Qui san Benedetto usa un vocabolo che solitamente si riferisce alla sfera delle passioni terrene: concupiscentia, ma vi aggiunge: spiritali. Aveva invece già detto:
«Non cercare con avidità i piaceri» (RB 4,12).
Presenta poi gli strumenti della continua vigilanza e del santo timore di Dio:
«Avere ogni giorno davanti agli occhi il pensiero della morte.
Vigilare costantemente sulla propria condotta di vita.
Essere ben consapevole che in ogni luogo Dio ci vede»
(RB 4,47-49).
Ci sarebbe quasi da sgomentarsi davanti a tale serietà dell’impegno, ma ecco che Benedetto consegna per ultimo lo strumento dell’estrema fiducia:
«E della misericordia di Dio mai disperare.
Ecco, dunque, gli strumenti dell’arte spirituale.
Se noi ce ne serviremo giorno e notte senza stancarci per riconsegnarli nel giorno del giudizio, riceveremo dal Signore la ricompensa che egli stesso ci ha promesso» (RB 4,74-76).
Anche a proposito dell’obbedienza immediata (RB 5) san Benedetto mette in evidenza anzitutto che essa «è propria di coloro che ritengono di non avere assolutamente nulla più caro di Cristo» e che inoltre sono «presi dal timore dell’inferno e accesi dal desiderio della vita eterna», ossia dal desiderio di raggiungere Cristo nella gloria (vv. 2-3).
La medesima tensione alla vita eterna pervade tutto il capitolo 7º, in cui con la figura simbolica della scala dell’umiltà si propone al monaco un’ascesi che mira a spogliare l’io da ogni peso di orgoglio per farlo ascendere – abbassandosi! – fino alla cima della perfetta carità, che coincide con Dio: Deus charitas est!
«Se dunque, fratelli, noi vogliamo toccare la vetta della più grande umiltà, se noi vogliamo giungere rapidamente a quella celeste altezza cui si può salire mediante l’umiltà della presente vita, dobbiamo innalzare – ascendendo con i nostri atti – quella scala che apparve in sogno a Giacobbe, sulla quale egli vedeva angeli scendere e salire.
Il primo grado di umiltà consiste dunque nel porsi sempre davanti agli occhi il timor di Dio… Occorre infatti ravvivare sempre il ricordo dei divini comandamenti e considerare in ogni momento la realtà dell’inferno che – come fuoco divorante – consuma, per i loro peccati, i dispregiatori di Dio, mentre coloro che lo temono hanno sempre davanti agli occhi la vita eterna per loro preparata. […]
Il secondo grado di umiltà è non amare la volontà propria. Sta scritto: La volontà propria subisce la pena, mentre la costrizione dell’obbedienza procura in premio la corona della gloria» (RB 7,5-6.10-11.31.33).
Identica è la motivazione che fa salire al 4º gradino dell’umiltà che consiste «nell’obbedire, pur trovandosi di fronte a qualcosa di molto duro e contrariante per la natura, e persino di fronte a ingiustizie di ogni genere», abbracciando «la pazienza con maturo e consapevole silenzio interiore, e si rimane saldi, non ci si scoraggia né si indietreggia, poiché la Scrittura dice: Chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato» (cf. RB 7,35-39).
Di gradino in gradino si arriva alla cima. Ed ecco:
«Il dodicesimo grado di umiltà si ha quando il monaco, permeato di umiltà nell’intimo del cuore, con modesto atteggiamento la manifesta anche in tutta la sua persona sentendosi come uno che sta per comparire davanti al tremendo giudizio di Dio. […]
Ascesi dunque tutti questi gradi di umiltà, il monaco perverrà a quell’amore di Dio che, essendo perfetto, scaccia il timore. Allora non agirà più per timore dell’inferno, ma per amore del Cristo» (RB 7,62-69, passim).
Poiché si riconosce il primo posto al Cristo e tutto si fa convergere a Lui, la celebrazione dell’Opus Dei avviene con la consapevolezza di essere alla presenza di Dio – Santissima Trinità – e di tutta la celeste assemblea – gli angeli e i Santi.
Riverenza e amore devono quindi contrassegnare le celebrazioni della Liturgia delle Ore e quella eucaristica.
Al capitolo 19º si dice esplicitamente:
«Sappiamo per fede che Dio è ovunque presente, e che in ogni luogo il suo sguardo scruta i buoni e i malvagi. Ma dobbiamo essere assolutamente certi che egli ci è presente soprattutto mentre celebriamo l’Ufficio divino. Richiamiamo perciò continuamente alla memoria la parola del Profeta, che dice: Servite il Signore con timore, e: Cantate inni con arte, e ancora: A te voglio cantare davanti agli angeli. Consideriamo dunque quale debba essere il nostro atteggiamento alla presenza di Dio e dei suoi angeli, e quando cantiamo i salmi cerchiamo di mettere in sintonia il nostro cuore con la nostra voce» (RB 19,1-7).
Poiché la celebrazione liturgica ci mette in comunione con la liturgia della Gerusalemme celeste presieduta da Cristo sommo ed eterno Sacerdote, il tempo liturgico acquista valore di eternità.
La comunità monastica si impegna quindi nella continua vigilanza.
Bisogna persino dormire in modo da essere sempre pronti al suono della campana che raduna per la preghiera anche nel cuore della notte. Appunto per questo i monaci sono pure definiti “i vigilanti”, le sentinelle che scrutano nell’oscurità del secolo presente aspettando, e in certo modo affrettando, il compimento della storia e il ritorno del Signore nella gloria (cf. RB 22; 41). È da notare che, data l’importanza della preghiera corale, è compito dell’abate stesso «annunziare l’ora dell’opera di Dio, giorno e notte, sia facendolo personalmente, sia affidando l’incarico a un fratello diligente, perché tutto si compia nei tempi stabiliti» (RB 47,1).
E nel caso – ma non sia mai! – che si ritardasse la levata… il responsabile del ritardo – per non aver suonato puntualmente la campana – deve farne pubblica e adeguata penitenza (cf. RB 11). Tanto è il valore del tempo consacrato a Dio! Tutto è vissuto in prospettiva di eternità. La Quaresima, ad esempio, è vissuta anticipando la gioia della Pasqua e la Pasqua celebrata nel tempo presente è già un anticipo di quella eterna (cf. RB 49). Inoltre tutto l’anno liturgico viene scandito a partire dall’evento della Redenzione (cf. RB 41); lo stesso silenzio rigoroso della notte ha carattere di attesa, vigilante e orante, di Colui che è sempre alle porte. Egli è lo Sposo che può sorprenderci anche nel bel mezzo della notte (cf. RB 42; Mt 25), perciò persino nel riposo si tiene il cuore proteso all’ascolto della sua voce.
E poiché il Signore può venire a ogni ora nella persona dei poveri e dei viandanti, l’accoglienza degli ospiti e ogni altra opera di misericordia o servizio di carità sono praticate con quello spirito di fede che fa riconoscere il Cristo (cf. RB 36; 53) e, come ha detto Lui stesso, assumono un valore decisamente escatologico: «Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mia avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,34-36).
Oltre alle opere di misericordia corporale, vi sono quelle spirituali da compiere silenziosamente, quasi senza che gli altri se ne accorgano, soprattutto quando l’aiuto consiste essenzialmente nell’amare e pregare, all’insegna, quindi, della totale gratuità.
Proprio la gratuità è l’atteggiamento fondamentale richiesto quale requisito che garantisce l’autenticità della vocazione monastica.
Nel fare il discernimento vocazionale si deve osservare soprattutto se chi vuole intraprendere il cammino monastico «cerca veramente Dio, se si dedica con amore all’opera di Dio, all’obbedienza, e ai servizi più umili gli si deve prospettare chiaramente attraverso quali durezze e fatiche si va a Dio» (RB 58,7-8).
Come già nel Prologo, si prospetta la via regale dell’umile amore e dell’obbedienza sine mora, senza indugio, poiché «unicamente per questa via dell’obbedienza andranno a Dio» (RB 71,2).
Aiutandosi vicendevolmente a nulla anteporre all’amore di Cristo, i monaci si affidano totalmente a lui perché li conduca tutti insieme alla vita eterna (cf. RB 72). È questa la mèta a cui il monaco – ma anche ogni cristiano! – deve tendere incessantemente e con ardore. San Benedetto, concludendo la Regola, non tralascia di esortare alla corsa, sospinti dall’amore, dal vento dello Spirito Santo che gonfia e solleva le vele delle anime:
«Ma per chi vuole affrettarsi verso la perfezione della vita monastica, vi sono gli insegnamenti dei santi padri che, messi in pratica, conducono al culmine della santità. Infatti, quale pagina o quale parola rivelata, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, non costituisce una norma rettissima per la vita dell’uomo? Quale libro dei santi padri cattolici non è per noi una chiara indicazione della via più sicura e più veloce per ritornare al nostro Creatore?
Quindi, chiunque tu sia che ti affretti verso la patria celeste, metti in pratica, con l’aiuto del Signore Gesù Cristo, questa piccola Regola per principianti; e così – sotto la protezione di Dio – giungerai sicuramente a quelle sublimi altezze di sapienza e di virtù che abbiamo sopra delineate. Amen» (RB 73,2-4.8-9).
A questo punto sarebbe interessante poter documentare ampiamente come nei monasteri veramente si viva e si muoia in prospettiva escatologica, dando al transitorio un valore relativo e a ciò che rimane in eterno un valore assoluto.
Credere nella vita eterna significa superare le barriere delle paure e dell’angoscia, guarire dalla paralisi interiore che fa morire prima di morire, che fa vivere una vita morta, senza slancio, perché senza futuro. Soltanto la fede e l’amore, infatti, aprono davanti a noi l’orizzonte infinito della “beata speranza”.
La qualità della nostra esistenza deriva proprio dalla nostra convinzione di fede circa la continuità della vita. Crediamo che quando si interrompe sulla terra, la vita è trasformata, non tolta – vita mutatur, non tollitur (cf. Prefazio della Messa per defunti). Non si va verso la fine, ma verso la pienezza. Perciò un senso di serenità, di pura gioia pervade i cuori dei veri monaci in procinto di tornare a Dio.
Emblematico è il transito di san Benedetto e di schiere innumerevoli di santi monaci, in maggior parte noti solo a Dio. Tra questi, come non ricordare la piissima, serena morte di Beda il Venerabile riportata anche nel Lezionario monastico L’ora dell’ascolto? Beda volle rendere l’anima a Dio, là, al suo posto di preghiera, con la faccia rivolta al cielo… terminando il «Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto…».
Spesso nei necrologi si segnalano coincidenze di giorni liturgici, di ore canoniche, di luoghi significativi per il monaco o la monaca che muore.
«Alla fine di una lunga veglia, all’alba di un bel giorno d’estate il Figlio dell’uomo è venuto incontro al suo servo. Due fratelli avevano appena terminato il canto delle vigilie presso il suo letto di agonia; il suono dell’Angelus si era appena spento nel silenzio, ed ecco, Egli era là. Beato il fratello Gilles, che il Maestro, al suo arrivo, ha trovato pronto e vigilante!
Egli vegliava. L’ultima ora della sua agonia fu la prima ora della vigilia monastica, che apriva un nuovo giorno». Così si legge in Seul l’amour souffirait di André Louf.
Ed ecco un’altra bella testimonianza presentataci dall’Abbazia della Pierre-qui-vire: «Al termine della liturgia della Passione dolorosa e della gloriosa Croce, eccoci riuniti attorno al feretro del nostro fratello Fedele che è tornato a Dio mercoledì, proprio nell’ora in cui noi ci alzavamo per cantare le Vigilie. Aveva sessantotto anni e trentasette di vita monastica. Come Gesù, il nostro fratello è stato provato, soprattutto negli ultimi anni di vita, ma Dio gli ha concesso la grazia di morire all’inizio della Settimana Santa per associarlo più strettamente a questa celebrazione del Venerdì Santo.
Fr. Fedele nel 1936 ha intuito la sua chiamata alla vita monastica, ma poté realizzare il suo desiderio solo il 25 aprile 1946, dopo il servizio militare, la guerra e cinque anni di prigionia. È stata forse questa lunga fedeltà (dieci anni di attesa) ad ispirare il nome “Fedele” come nome di vocazione.
In questo Venerdì Santo, due appellativi di Cristo possono evocare la vita di questo fratello: il Servo e l’Innocente. Servo. Fr. Fedele è stato un vero servo di Dio e della comunità. Era sempre presente alla preghiera comune, e anche durante la malattia trascorreva ore intere in questa chiesa.
Gesù è detto anche l’Innocente. In questi ultimi anni un velo è calato sul volto del nostro fratello Fedele. Perché la malattia? Nessuno lo sa, Dio solo ne conosce il segreto. Lotta tra la luce e le tenebre. Questo nostro fratello si è rivelato fra di noi uomo dolce e affabile. Se gli si domandava: «Non ti annoi? Le giornate non sono troppo lunghe?», egli rispondeva: «No, no, ho di che occuparmi!». Mistero del cuore di un uomo ricolmo del desiderio di infinito molto più che dell’agire e del fare, che spesso creano il vuoto! Gli ultimi anni della sua vita ci ricordano che il “niente” ha più significato dell’“importante” e che senza i “nulla” che tessono il nostro quotidiano, la vita non meriterebbe di essere vissuta. Sì, nella debolezza di un fratello umiliato dalla malattia si rivelano la profonda bontà e la luminosa bellezza di ogni essere umano. Debolezza e accettazione diventano un’unica realtà. Ogni cristiano è chiamato a diventare un “innocente” che accoglie Dio sotto le vesti del Servo e che sotto il velo della Croce scopre la gloria di Gesù trasfigurato» («Ecoute», n. 293; tr. it. Molti volti, un’unica vita. Profili di monaci, Abbazia Benedettina «Mater Ecclesiæ» 2006, pp. 73-74).
Anche la Beata Fortuna Viti di Veroli morì in un giorno per lei molto significativo: la sera del 20 novembre, già nella festa della Presentazione di Maria al tempio. Fu la Vergine stessa a presentare sr. Fortunata al tempio della Gerusalemme celeste! Leggiamo nella testimonianza del suo confessore don Giovanni Pasqualitti: «“Ogni giorno, per lunghissimi anni, aveva rinnovato l’accettazione della morte. Questa non veniva inaspettata. Non era il muro oltre il quale c’è il nulla. Davanti ai suoi occhi c’era il mistero del Cristo risorto dalla morte. E allora quando lo spirito si riprendeva, dopo aver vinto la ribellione della natura, andava ripetendo: Ora attendo la morte… Eterno godere! In sæcula sæculorum… Due ore prima di morire parve assopirsi. Al suono della mia voce, però, aprì nuovamente gli occhi, e mi guardò come se volesse dirmi qualche cosa. La compresi e la benedissi. Con uno sguardo implorante si rivolse al cielo e baciò per l’ultima volta il Crocifisso. Il respiro si fece ad un tratto più lento e leggero. Un sorriso le illuminò il volto, e la sua anima si staccò dal corpo. La sua morte fu tranquilla e serena”. Era l’ora del Vespero. Si era appena entrati nella liturgia della festa della Presentazione di Maria al Tempio» (cit. in Andrea Sarra, Potenza e carità di Dio, EP 1972, pp. 353-356, passim).
E che dire della vostra sr. Maria Letizia di Castel Madama?
Nel suo testamento spirituale scriveva: «Fin da bambina ho sempre pensato alla morte come ad una “festa di nozze”, perciò vorrei che nulla di triste accompagnasse il mio passaggio da questo mondo al Padre; vorrei che tutto esprimesse gratitudine e gioia…».
Così anche le nostre sr. Eletta Maria e sr. Maria Caterina…
Così tanti altri monaci e monache dei monasteri sparsi in tutto il mondo…
Chi vive guardando il Cielo, fa della morte un volo con ali di colomba o di aquila. Vola sulle stesse ali dell’Altissimo e lascia una scia luminosa per quelli che verranno dopo.
Conceda a noi tutti il Signore di vivere e morire rivolti al Cielo!