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Deus absconditus, anno 98, n. 4, Ottobre-Dicembre 2007, pp. 95-103

 

Francesca CONSOLINI

 

Madre Caterina Lavizzari Benedettina del SS. Sacramento missionaria dell’Eucaristia

 

            Cenni biografici. Luigia Lavizzari (madre Caterina di Gesù Bambino) nacque a Vervio (Sondrio) il 6 ottobre 1867 da Enrico Giovanni Battista e Giuseppa Meraviglia; era la primogenita di dieci fra fratelli e sorelle e non l’unica a scegliere la vita religiosa: la sorella Barbara (madre Giuseppina) entrò anch’ella fra le Benedettina dell’adorazione perpetua in questo monastero di Ghiffa e il fratello     divenne sacerdote. Luigia crebbe intelligente e vivace in una famiglia permeata da grande senso di onestà e fede. Ricevette il sacramento della Cresima il 13 luglio 1871 a Berbenno dove la famiglia si era trasferita. Particolarmente incisiva nella sua vita spirituale fu la preparazione alla prima confessione, in cui la piccola dimostrò di aver capito perfettamente il senso del peccato come offesa a Dio che “straccia l’anima dal di dentro”.

            L’infanzia di Luigia si svolse tutta tra Grosio, Berbenno e Sondrio, sotto la guida della madre, molto attenta all’educazione dei figli. Due volte dal 1871 al 1880 Luigia, in fin di vita, venne miracolosamente guarita dalla Madonna invocata dalla mamma. Dal 1880 al 1884 fu educanda presso il Collegio delle Marcelline di Vimercate, con un intervallo dal 1881 al 1882, in cui rientra in famiglia per riprendersi dal tifo che l’aveva condotta in fin di vita e dal quale era guarita ancora una volta per intercessione della Madonna. E’ in quel periodo che si chiarifica in lei la vocazione religiosa. Rientrata in famiglia, si dedicò all’insegnamento del catechismo e alla visita ai malati; edificava amiche e famigliari per la franchezza della sua fede.

            Sotto la guida di mons. Colturi Luigia approfondì la sua vocazione allo stato religioso e su suo consiglio, nel 1889 scelse di entrare a far parte del monastero benedettino dell’adorazione perpetua di Seregno. Una fondazione giovanisima perché, guidate da madre Thérèse Lamar le benedettine erano arrivate a Seregno solo nel 1880. Ma anche questo poteva dirsi in sintonia con il carattere della giovane: le difficoltà di una fondazione nascente e umile non la spaventano; anzi, volle assicurare la madre, perplessa, con le parole: “Vedrai, mamma, che mi faccio santa”.

             Luigia entrò dunque nel monastero di Seregno il 21 novembre 1889; il 21 marzo 1890 indossò l’abito religioso ed assunse il nome di Maria Caterina di Gesù Bambino. Dal maggio 1890 all’8 luglio 1891 venne inviata a compiere il noviziato nel monastero francese di Arras. Fu madre Maria della Croce prima compagna di madre Lamar ad intuire la ricchezza umana e spirituale della novizia e per questo volle che completasse la sua formazione in un monastero esemplare, dove, avrebbe potuto anche leggere e studiare le Costituzioni della Fondatrice madre Mectilde del Ss. Sacramento nella lingua originale. Ad  Arras Suor Maria Caterina fu edificata dall’ambiente austero, dalla perfetta osservanza della comunità, dall’esattezza con la quale venivano osservate la Regola e le Costituzioni. Rientrò a malincuore a Seregno, dove invece, si stentava a trovare tanta stabilità. Tuttavia, pur combattuta dal desiderio di rimanere in Francia, in obbedienza a mons. Colturi, accettò di riprendere il suo posto nella piccola comunità italiana. Il 21 novembre 1891 emise la professione religiosa. In comunità era molto apprezzata per la sua pietà, la carità verso le sorelle, il buon senso. Già da allora, infatti, metteva in pratica quella che più tardi lei stessa avrebbe definito la “mistica del Pater noster”, cuore in cielo, ma occhi e mani e piedi ben saldati in terra, coniugando mirabilmente una profonda vita spirituale, con uno straordinario senso pratico.

            Il 2 luglio 1894 venne letta vice-priora e dal 10 marzo al 2 luglio 1900 maestra delle novizie. In quella data venne eletta priora; subito si assunse l’impegno di portare la comunità ad una regolare osservanza, completando l’opera delle due priore precedenti, madre della Croce e madre Scolastica Sala. Sue maggiori cure furono la formazione delle novizie, con una severa selezione a livello vocazionale, l’osservanza della clausura, la scelta di buoni e saggi confessori e predicatori, la cura delle fanciulle che frequentavano la casa per la scuola e egli esercizi spirituali. Risale ai suoi primi anni di priorato l’incontro con padre Celestino M. Colombo che fu vero padre della comunità.

            Il 15 agosto 1900 con la professione di Suor Rosina Crippa madre Caterina istituì le Oblate regolari.

            Dal 1903 al 1906 si svolse il complesso periodo che portò al trasferimento della comunità da Seregno a Ronco di Ghiffa, dovuto, soprattutto, ad una contesa con il monastero di Arras che rivendicava alcuni diritti sul monastero di Seregno. Furono tre anni durissimi per madre Caterina e per la comunità tutta; vista poi l’impossibilità di arrivare ad una conciliazione con il monastero di Arras che non ledesse il diritto di autonomia del monastero di Seregno, madre Caterina, nel 1906, in obbedienza alle Costituzioni dell’Istituto e in accordo con l’arcivescovo di Milano, b. Card. Andrea Ferrari, decise il trasferimento della comunità a Ronco di Ghiffa, diocesi di Novara. Fu una decisione molto sofferta che metteva la comunità nella condizione di rincominciare tutto da capo, ma che salvava un principio fondamentale delle Costituzioni di madre Mectilde de Bar. Lasciavano un monastero avviato con tanto sacrificio, ma ormai ben consolidato, per una casa semi diroccata, in un piccolo paese.

 Dal 1906 al 1910 madre Caterina fu tutta presa dal consolidamento del nuovo monastero: lavori da far eseguire, formazione delle monache, scelta accurata delle numerose vocazioni che affluivano ed avvio a forme di apostolato esterno destinate ad avere continuità quali i corsi di esercizi spirituali per giovani donne, l’accoglienza ai sacerdoti, l’ospitalità ai malati e ai poveri.

            Dal 1910 al 1927 si susseguirono le aggregazioni di antichi monasteri benedettini dell’Italia centro meridionale all’Istituto mectildiano, tramite l’opera delle monache di Ghiffa e soprattutto di madre Caterina. Considerate le difficoltà che madre Caterina dovette affrontare fu un’impresa davvero notevole[1].

            Intanto a Ghiffa continuavano ad affluire vocazioni, si susseguivano i corsi di esercizi spirituali per laiche fino a sei corsi l’anno, sempre seguiti dalla Madre che intratteneva le giovani con conferenze spirituali, si intensificava l’opera di accoglienza e la cura della liturgia. Il monastero stava cominciando a diventare quello che è oggi: un faro per tante anime. la presenza della Madre era da tutti sentita come sicurezza, garanzia di continuità, forza. Ma madre Caterina, che fu sempre alquanto cagionevole di salute, il 25 dicembre 1931 chiuse la sua operosa giornata terrena; le sue ultime parole: “Dio, Dio, Dio”, pronunciate con calore ed amore, furono la mirabile sintesi della sua santa vita.

 

            Il “presepe” di Ghiffa. Il trasferimento da Seregno a Ghiffa si svolse in diversi momenti: il 1° ottobre partì il primo imballaggio, qualche giorno dopo la vice priora madre Lucia Silva vi si recava con alcune monache “per ricevere la roba, pulire e mettere in ordine la casa”[2]. Il 24 ottobre madre Caterina giungeva a Ghiffa con la maggior parte della comunità; suo primissima preoccupazione fu ultimare la piccola cappella ricavata in un sala, “onde collocare decentemente il SS. Sacramento e stabilire la regolare osservanza”. Infatti, appena due giorni dopo, il 26 ottobre, la comunità, pur con tutti gli inconvenienti di un trasferimento ancora in atto, dava inizio alla osservanza regolare, vivendo cioè la giornata monastica in conformità alla regola e secondo l’orario prescritto dalle Costituzioni. Rapidamente la vita regolare prende il suo corso: il 31 ottobre padre Celestino celebra la prima messa nella cappella; il 9 novembre, festa delle dedicazione della basilica lateranense la cappella, dedicata alla SS. Trinità viene solennemente benedetta con la partecipazione del clero locale; l’11 novembre comincia l’adorazione perpetua del sacramento con la prima giornata di riparazione fatta da madre Caterina e l’elezione della Madonna ad abbadessa del nuovo monastero.

            Grandi furono gli sforzi di madre Caterina e delle monache perché l’amore per Gesù Eucaristia non restasse chiuso solo fra le mura del monastero, ma si espandesse anche al di fuori, soprattutto fra la vicina popolazione. Le oblate, in quei primi tempi, furono davvero le missionarie di Gesù Eucaristico: assistevano gratuitamente malati e moribondi nelle case, premurandosi di prepararli a ricevere i sacramenti; visitavano i poveri a domicilio e li accoglievano alla porta del monastero; madre Caterina vedeva in loro la reale presenza di Gesù e provava per essi la venerazione e l’amore che effondeva davanti all’Eucaristia: “Aveva dispiacere quando non si vedevano poveri alla porta e ci faceva pregare perché Iddio ne mandasse. Aveva insegnato alle oblate a dire ogni qualvolta compariva un povero: C’è Gesù”[3]. Così volle anche le oblate si dedicassero all’apostolato religioso preparando i bambini alla prima Comunione e collaborando con i sacerdoti per la cura delle liturgia nelle parrocchie.

            Il monastero era un casa aperta dove trovavano conforto e riposo sacerdoti, malati, famiglie in difficoltà, bambini, poveri e dove, con gli esercizi spirituali ed i ritiri le persone avevano la possibilità di ritemprarsi l’anima.

            Il 12 settembre 1907, il can. Giovanni Battista Piolini visitò, per incarico del vescovo di Novara mons. Giuseppe Gamba, il nuovo monastero per relazionare sullo stato della casa e soprattutto sullo spirito delle monache; le Benedettine dell’Adorazione perpetua, in Italia, erano ancora una novità e ben poco si conosceva di loro. Nella sua relazione al vescovo mons. Piolini, fra l’altro scrive: “Prima di terminare questa mia relazione, mi permetta l’Ecc. vostra R.ma che le manifesti l’ottima impressione che mi ha lasciato nell’animo quella comunità religiosa. Da quanto ho potuto conoscere, quelle monache hanno il vero spirito religioso. Credo che la loro venuta in questa diocesi sia una vera benedizione del Signore. Esse faranno un gran bene, primieramente colle continue loro preghiere, fatte con vero sentimento di pietà. Esse fanno per turno la continua adorazione di giorno e notte al SS. Sacramento semiesposto [...] Credo che poi le dette religiose faranno un gran bene, perché essendo esse tanto buone, non potranno fare a meno di ispirare i più bei sentimenti di pietà e di virtù”.

            Madre Caterina, ricordando l’esperienza di Seregno e quanto, ancora novizia aveva sperimentato ad Arras, in un primo momento aveva pensato di affiancare al monastero un piccolo educandato. L’esperimento, però, fallì sul nascere, per difficoltà legate soprattutto alla posizione stessa della casa. Ne venne quindi una decisione: la comunità si sarebbe dedicata esclusivamente alla preghiera e all’adorazione riparatrice, mente le oblate avrebbero continuato ad occuparsi delle opere di apostolato e carità: “L’anno di grazia 1910 comincia con una rinnovazione dei voti più fervente del solito [...] comincia un’epoca nuova: una vita esclusivamente dedicata all’adorazione ed alla riparazione del SS. Sacramento, nella fedele osservanza della Regola, in un’attività che esclusivamente si svolgerà nel lavoro manuale, ostie, disegno”[4].

            “Ghiffa era un presepe - scrisse nel dicembre 1909 a madre Caterina il b. Luigi Talamoni - miserabile e forse ributtante. ma dappoi che vi giunsero le suore benedettine del SS. Sacramento e con esse Gesù e per esse Gesù, divenne e sarà sempre casa e oggetto di venerazione, come il presepe di Betlemme. E Gesù stesso vi è felice”.

 

            La spiritualità eucaristica di madre Caterina.

            Parliamo di madre Caterina come missionaria dell’Eucaristia, come di colei che, con sacrificio e fede, portò il carisma delle Benedettine dell’Adorazione Perpetua là dove venne chiamata. Fu missionaria perché obbedì alla voce della Chiesa. Non fu infatti una sua scelta quella di aggregare altri monasteri, ma venne fortemente sollecitata in tal senso ed obbedì, anche quando questo obbedire le costava fatiche e rinunce. Ma madre Caterina, oltre allo spirito mectildiano così come si trova scritto nelle Costituzioni dell’Istituto, portava anche una parte del suo spirito. Aveva educato generazioni di monache, oltre cento le postulanti accolte a Ghiffa durante il suo priorato, e queste portarono nei monasteri aggregati quella nota particolare della spiritualità eucaristica della Madre. Non si può quindi parlare di madre Caterina missionaria dell’Eucaristia, senza dare uno sguardo, seppure brevemente, al suo mondo interiore, alla sua dimensione eucaristica,

 

 “Vivere di adorazione, di semplicità, di fede”. Il tema dell’Eucaristia, dell’amore totale e pieno verso Gesù pane vivo, è dominante nelle esortazioni di madre Caterina: i capitoli che settimanalmente rivolgeva alla comunità.  Quello che colpisce in queste esortazioni non è solo lo slancio eucaristico, perché questa è la dimensione propria della benedettina dell’adorazione perpetua, quanto piuttosto l’aspetto concreto che madre Caterina imprime alla devozione eucaristica che vuole vissuta da lei e dalle sue figlie. Adorare il SS. Sacramento vuol dire farlo con la costanza che nasce “dalla fede viva, dall’umiltà del cuore, dal vero amore, dalla coerenza alla finalità della propria vocazione”, partendo dalla vita quotidiana. “Fare tutto per Gesù Ostia” significa “vivere di adorazione, di semplicità, di fede [...] raccolte, ma senza affettazione e senza smorfie. Occhio basso, ma che vede ciò che deve vedere”[5].

            La santificazione della quotidianità come atto di amore a Gesù Eucaristia può essere considerata la dimensione fondamentale della missionarietà di madre Caterina e il suo messaggio è vivo e stimolante non solo per le monache, ma anche per noi laici.

            La riflessione sul mistero di Gesù presente nel SS. Sacramento, ci porta a meditare l’ubbidienza del Figlio alla volontà del Padre. Adorare Gesù significa fare nostro questo suo atteggiamento di abbandono, vissuto soprattutto nelle piccole cose quotidiane. La vita terrena di Gesù fu intessuta di piccoli gesti, di quotidianità; anche la nostra fedeltà si esprime soprattutto nella perfezione degli atti di ogni giorno: “La perfezione consiste negli atti di ogni momento, perché - avverte m.  Caterina - i grandi atti si presentano raramente. Consideriamoci come i prigionieri dell’amore d’amore di Gesù che si fece prigioniero per noi e vuole che imitiamo il suo stato. Siamo dunque fedeli in tutto, apprezzando anche le minime cose come espressione della volontà di Dio”; e a questo proposito la Serva di Dio suggerisce che se non abbiamo in noi la forza di sostenere la prova della Passione e della Crocifissione, tutti possiamo però vivere la sua piccolezza: “Gesù non ha detto: ‘Imparate da me ad essere grandi e forti e a fare miracoli’, ma: ‘Imparate da me, che sono dolce e umile!’. Se dunque non possiamo portarlo crocifisso, portiamolo Bambinello!”[6].

            “In una parola - conclude m. Caterina - tutta la perfezione consiste nel fare la volontà di Dio in modo simile a quello di Gesù”[7].

            E’ sufficiente vivificare i nostri doveri quotidiani con l’amore: “Abituiamoci a fare tutto bene e ad amare ciò che dobbiamo fare, senza trascurare nessun particolare, dando a Gesù il bel frutto intero. Se volete aspettare le grandi occasioni, o se volete accontentarvi solo dei buoni desideri, non arriverete a far nulla”[8].

            E’ questo il cammino verso la perfezione, verso la santità. Una meta grande conquistata a piccoli passi, ma con eroica costanza: “La santità non è un mantello che si possa indossare come si vuole, ma una stoffa che bisogna tessere filo per filo e giorno per giorno. Lasciar passare i giorni senza produrre fili positivi di virtù, è una grande responsabilità. La perfezione è cosa concreta”[9].

            Numerosi sono i suoi richiami a tanti piccoli gesti di amore verso Gesù presente nel SS. Sacramento, ma, anche in questo caso, si tratta sempre di gesti concreti che partono dall’amore verso il prossimo, proprio nel senso di coloro che ci vivono accanto ogni giorno. E’ quella che madre Caterina chiamava “la mistica del Pater noster”, la mistica di una preghiera semplice che si rivolge al Padre per chiedere il pane di ogni giorno, ma che si impegna anche a dargli lode, ad amare e perdonare

Si comincia dalle piccole cose, per essere poi pronti a sostenere quelle più impegnative: “non pensiamo di dare la vita - ci ricorda Madre Caterina - se non sappiamo dare un capello o la testa, se non siamo capaci di rinunciare ad una delle nostre volontà, se non sappiamo sacrificare un nostro desiderio. Non facciamoci illusioni di essere sereni nel più se ci spanzientiamo nel meno, se ci mostriamo di cattivo umore o se ci indispettiamo con noi stessi per ciò che non ci piace o ciò che ci fa male”.

Come coraggiosi missionari in terre lontane, siamo sempre in prima linea, ma con serenità. E’ bello pensarci “missionari dell’Eucaristia”, senza necessariamente dover lasciare i nostri impegni e le nostre famiglie, ma vivendo con autenticità e vero amore la nostra vita quotidiana, amando il prossimo e facendo in modo che anche gli altri ci amino. E’ così che amiamo Dio e dilatiamo il suo Regno.

           Madre Caterina ha una bella espressione per definire questo atteggiamento di amore fraterno che spesso implica sacrificio e rinuncia: “elasticità di umiltà”; questo significa che il nostro amore e, conseguentemente la nostra umiltà, non può avere un metro fisso: fin qui posso, ma poi...: “La vera carità non si mantiene che a prezzo di una catena di sacrifici: sacrificio della nostra volontà, dei nostri comodi, dei nostri gusti, dei nostri umori, sacrificio di preferire tutto ciò che piace agli altri, rallegrandosi con chi si rallegra, piangendo con chi piange, in uno spirito soprannaturale che ci faccia vivere nel nostro prossimo e ci faccia, senza eccezioni ed accettazione di persone, in esso amare Gesù”. La Serva di Dio aggiunge una sottolineatura: tutto questo può essere fatto per amore, sì, ma quasi rispettando un dovere, con un certo senso di distacco; non basta: “Dov’è la tenerezza della nostra carità ?”, quella tenerezza che attingiamo dall’Eucaristia traspare all’esterno, nei nostri gesti, nella nostra condivisione, sul nostro viso, nel nostro atteggiamento di accoglienza? : “Abbiamo verso i nostri fratelli quel tratto semplice, amabile, aperto, sincero, che è frutto della tenerezza che riceviamo e alimentiamo nella S. Comunione : tenerezza che si dilata al nostro esterno, domina in noi e influisce sui rapporti con i fratelli, tanto da farci diventare quasi una manifestazione di Nostro Signore che, per così dire, continua Sé stesso in noi, tanto interiormente che esteriormente ?”[10].

“Gesù Ostia è il nostro tutto”, ripeteva spesso madre Caterina, Egli “è il nostro Paradiso in terra” diceva alle novizie per innamorarle della vita di adorazione riparatrice; la sua fiducia in Gesù Eucaristia era totale e si manifestava anche in gesti concreti di abbandono. Una conoscente della Madre, teste al processo di beatificazione, riferì di averle confidato la grande pena che provava nel sapere il proprio padre lontano da ogni pratica religiosa. Madre Caterina le chiese una fotografia del papà e la pose accanto al tabernacolo, sicura, come di fatto avvenne, che Egli gli avrebbe toccato il cuore.

           Vivere la missionarietà dell’Eucaristia nella vita di tutti i giorni, nella semplicità del lavoro quotidiano, nella fraternità dei rapporti, nella sincerità del nostro atteggiamento verso Dio, gli altri, noi stessi. Una missionarietà, quella di madre Caterina, che non conobbe tregua, che la vide instancabile nell’accogliere le istanze dei monasteri che chiedevano di aggregarsi a Ghiffa.     

Ad ognuna di tali domande madre Caterina rispose sempre con un sì pronto, generoso e coraggioso; quando si trovò costretta ad un rifiuto, lo fece sempre a malincuore e per motivazioni gravi, non dipendenti dalla sua volontà[11]. Le sue figlie che parteciparono a questo momento tanto bello e importante per la comunità di Ghiffa e per l’intero istituto benedettino dell’adorazione perpetua ricordano che, per madre Caterina, “aprire una casa, era aprire un nuovo tabernacolo”. Per questo, nonostante la salute sempre alquanto compromessa, non si risparmiava: “in viaggio era una pena, perché soffriva, aveva delle crisi - ricorda la consorella che la accompagnava spesso - alle volte sudava all’inverosimile, pareva che mancasse. In treno dovevo trovare modo di farle una iniezione di canfora e si pregava, quanto pregare faceva. Ma non era il pregare di parole ripetute, no; erano gli slanci del cuore, i suoi gemiti, le sue invocazioni, le sue giaculatorie. Non passava campanile che non mandasse dardi a Gesù sacramentato; non vedeva miserie che non implorasse la Provvidenza [...] e dopo tante fatiche, dopo tanti strapazzi, giornate di letto, riprendeva il suo lavoro come se nulla fosse stato: ascoltava, dava consigli, teneva conferenze, faceva ore sante, visitava ogni angolo, rivedeva registri, prendeva appuntamenti, combinava orari di viaggi, presiedeva alle cerimonie di vestizione e professione. Tutto con un’attività sorprendente, con un’energia nuova [...] Ma la grande fede sua, il suo spirito di sacrificio, lo zelo, l’amore alle anime, la gloria di un tabernacolo non l’arrestavano, non la fiaccavano mai”.

Si trattava di aprire nuovi focolai di preghiera, di riportare l’Eucaristia al centro dell’adorazione e della riparazione. Tabernacoli da rinvigorire dai quali doveva scaturire una preghiera universale che avrebbe fecondato la Chiesa. Madre Caterina respirava questo respiro universale; la santificazione di ogni benedettina è la santificazione della Chiesa: “Riflettete sul bene che Gesù operò nella Sua Vita nascosta e affatto comune ; poi, a quello che si compie sotto il silenzio dell’Ostia. Non è dal Tabernacolo che emana tutto il bene che si opera nella Chiesa ? Non un predicatore, non un missionario, non una religiosa, possono fare a un’anima il pur minimo bene, senza che questo parta dall’Eucaristia ! E’ un lavoro universale, come disse Gesù stesso : « Senza di Me, voi non potete fare nulla ! ». Senza di Me : vale a dire, senza la Grazia. Ora, la Grazia ed il Suo Autore sono nell’Ostia. Se la nostra azione sarà semplice e unita a Gesù nel Tabernacolo, diventerà azione universale”[12].

 

Chiuderei questo incontro di riflessione con le parole di Madre Caterina, perché questo anniversario di presenza di Gesù Eucaristico nella chiesa del Monastero di Ghiffa segni per noi tutti un decisivo passo avanti nella vita cristiana, nel nostro impegno verso la santità: “Io auguro a tutti le grazie della vita nascosta delle Figlie del SS. Sacramento; vorrei rivelarvele, farvele godere, e stampare nei vostri cuori quanto sia grande questa voca­zione: “Diventare Ostie pure, Santi viventi!”[13].

 

 



[1] Monasteri aggregati all’Istituto delle Benedettine a.p.:

  - Monastero di S. Benedetto in Catania 1910

  - Monastero di Montevergine in Sortino (Siracusa) 1913

  - Monastero di S. Benedetto in Modica (Ragusa) 1914

  - Monastero di S. Maria in Foris in Teano (Caserta) 1914

  - Monastero di  S. Lorenzo in Amendola (Ascoli Piceno) 1915 - 1922

  - Monastero di S. Benedetto in Piedimonte d’Alife (Caserta) 1921

  - Monastero di S. Giuseppe in Ragusa-Ibla 1924

  - Monastero di S. Paolo in Sorrento 1925 - 1930

  - Monastero del SS. Salvatore in Piedimonte d’Alife (Caserta)

  - Monastero SS. Annunziata in Alatri (Frosinone) 1926

  - Monastero di S. Caterina in Teano (Caserta)

[2] Annali, I, p. 61.

[3] Summarium, p. 96.

[4] Annali I, p. 93.

[5] Capitolo del 10 dicembre 1926.

[6] Capitolo del 29 dicembre 1925.

[7] Capitolo del 3 marzo 1926.

[8] Capitolo del 4 luglio 1925.

[9] Capitolo del 26 giugno 1925.

[10] Capitolo del 30 dicembre 1925.

[11] Nel 1927 venne sollecitata da aggregare il Monastero delle Vergini in Ascoli Piceno, dovette rifiutare perché le aggregazioni già avviate richiedevano già troppi sforzi e si era nell’impossibilità di inviare altre monache fuori Giffa. per lo tesso motivo madre Caterina dovette rifiutare le domande di aggregazione del monastero di S. Marco in Offida (1929); del monastero benedettino di Fabriano (1929) e della fondazione di un monastero a Lucera  (1930).

[12] Capitolo del 15 dicembre 1925.

[13] Capitolo 1° agosto 1930.