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Deus absconditus, anno 98, n. 4, Ottobre-Dicembre 2007, pp. 143-166

 

 Padre Adalberto PIOVANO

 

La vita monastica, un cammino di unità: il monachesimo come luogo ecumenico.

 

O. Introduzione

 

Accanto a spazi di dialogo e riflessione teologica tra le chiese cristiane, oggi più che mai, di fronte a lentezze, ai fallimenti, alle resistenze ecumeniche, si sente la necessità di individuare "luoghi ecumenici", luoghi di vita ecumenica, luoghi che favoriscono una esperienza di unità, in cui la condivisione di un cammino di fede, di valori spirituali, comuni alla grande tradizione cristiana, possano plasmare modalità concrete ed esperienze di dialogo. Uno di questi luoghi in cui la ricerca dell’unità diventa la dinamica essenziale che ritma uno stile di vita, coinvolgendo vari livelli della persona, sia comunitariamente che singolarmente, è il monachesimo[1]. In una interessante analisi delle varie esperienze monastiche presenti nelle confessioni cristiane e particolarmente sensibili al cammino ecumenico, sr.Monique Simon riassumeva in questi termini le potenzialità del monachesimo di fronte al dramma della divisione tra i cristiani: “Collocarsi accanto ad uno spazio di vita centrato sull’essenziale – l’ascolto di Dio, la lode, la preghiera, la sequela di Cristo, l’apprendimento della perfetta carità – si ha come uno svelamento di questa comunione già donata: tutti i cristiani delle varie confessioni, non sono forse già stati immersi nell’unico battesimo in Cristo nel nome della Trinità santa, e forse che un medesimo Spirito Santo non è già operante? Ne deriva che le differenze e le divisioni possono essere situate al loro giusto posto, in uno sguardo di umiltà, di pentimento, d’amore e di speranza”[2]

Possiamo subito mettere a fuoco alcune domande che ci aprono ad altrettante piste di riflessione. Anzitutto, qual è il rapporto tra monachesimo ed ecumenismo? A quale livello cogliere, situare la tensione ecumenica dell'esperienza monastica? Tale tensione, se c'è, in quali forme può essere concretizzata? Si possono individuare intuizioni, esperienze, episodi maturati nel contesto monastico i quali hanno chiarificato e dato impulso al cammino ecumenico? Questi interrogativi di fatto ci impongono una scelta, un orientamento riflessivo. E credo che già il titolo della conferenza possa offrire una angolatura con cui guardare al rapporto tra monachesimo e ricerca dell’unità. Infatti affrontare tale rapporto individuando nella esperienza monastica un ‘luogo’ di ricerca dell’unità significa collocarsi nel cuore stesso di tale forma vitae ed individuare in essa quelle costanti o valori spirituali, quegli itinerari di ricerca, quelle dinamiche che rendono possibile una reale tensione alla unità interiore ed alla comunione fraterna. In un certo senso, possiamo cogliere nel monachesimo un luogo di incontro delle dinamiche o costanti che sono alla base di ogni autentica vita secondo lo Spirito, patrimonio comune della tradizione cristiana. Questa angolatura, d’altra parte, ci libera subito da un equivoco latente nella stessa espressione ‘monachesimo, luogo di ricerca dell’unità’. E si tratta della visione ambigua (più occidentale che orientale, più debitrice alla divisione giuridica tra consilia  e praecepta, che alla visione unitaria della sequela evangelica) che fa del monachesimo uno status a parte, una condizione privilegiata rispetto alla vita dei semplici battezzati. Le costanti che scopriremo all’interno di questo ‘luogo ecumenico’ appartengono alla sequela sic et simpliciter, sono patrimonio comune di tutti coloro che vivono da battezzati, sotto la guida dello Spirito. Possiamo ricordare,  a questo proposito, quanto Giovanni Paolo II dice sul rapporto tra monachesimo e vita cristiana nell' Orientale Lumen 9: “Il monachesimo non è stato visto in Oriente soltanto come una condizione a parte, propria di una categoria dei cristiani, ma particolarmente come punto di riferimento per tutti i battezzati, nella misura dei doni offerti da ciascuno dal Signore, proponendosi come una sintesi emblematica del cristianesimo”.

Certamente questa prospettiva può, sotto certi aspetti, sembrare più ‘ideale’ e non sempre corrisposta da realizzazioni storiche del monachesimo. Ma come vedremo, questo humus spirituale comune alla esperienza monastica (presente con forme e tonalità diverse in tutte le principali confessioni cristiane e non) può giocare un ruolo fondamentale, al di là della consapevolezza degli stessi monaci. Come scriveva con entusiasmo Giovanni Paolo II nella Orientale Lumen: “I forti tratti comuni che uniscono l’esperienza monastica d’Oriente e d’Occidente fanno di essa un mirabile ponte di fraternità, dove l’unità vissuta risplende persino più di quanto possa apparire nel dialogo fra le Chiese”[3].

Prima di collocarci a questo livello ‘interiore’ del monachesimo, dobbiamo con molta onestà riconoscere i limiti e i fallimenti che hanno segnato il cammino storico del monachesimo in rapporto a questa vocazione all’unità nascosta nella sua identità più profonda.

Di fatto, il monachesimo, anche se si è formato prima dei grandi scismi dei secoli XI e XVI, non gode di alcuna presunzione di innocenza: di fronte ai drammi della divisione che hanno lacerato il tessuto ecclesiale; porta la sua parte di responsabilità e, di conseguenza, non può apparire come un antidoto infallibile o un rimedio miracoloso, in quanto senza sosta è chiamato ad un cammino di conversione alla luce del Vangelo. Inoltre, dopo la divisione delle chiese, i monaci sono come fatalmente trascinati in questa rottura facendo corpo con la chiesa alla quale appartengono al momento in cui la spaccatura si produce. E, in certi casi, hanno potuto giungere fino ad identificarsi con la divisione, divenendone i difensori più fanatici e contribuendo in modo determinante a creare queste rotture, ad innalzare muri di incomprensione, addirittura anche ad una violenza nella difesa della verità, ad una esasperata opposizione ai tentativi di ricomposizione della unità perduta. E questo fino a tempi recenti. E’ un peccato ecclesiale che i monaci devono aver il coraggio di riconoscere con molta umiltà: spesso il monachesimo, come nota E.Bianchi, è stato “una contraddizione ad ogni possibile irenismo, ad ogni rappacificazione tra cristiani e tra chiese”[4].

La serietà di una riflessione storica non può eludere alcune domande da rivolgere al monachesimo. “Dobbiamo perciò chiederci: - scrive ancora E.Bianchi - quale era quella verità cristiana o quella concezione della verità che accettava di lasciarsi servire dalla violenza? Perché i monaci, così impegnati a vivere il cristianesimo nella forma della prima chiesa, cioè della chiesa degli apostoli, la chiesa nata dalla Pentecoste come koinonia, hanno potuto essere protagonisti di ferite così 'gravi al comandamento unico, al comandamento unico e al veritatem facere in caritatem (Ef 4, 15)? Perché il monachesimo non ha saputo sempre rendere ragione della speranza che lo abitava "con dolcezza, con rispetto e con buona coscienza" (1Pt 3,15-16), come chiede l'apostolo Pietro alle comunità cristiane in diaspora nel mondo?”[5]. Questi interrogativi devono risvegliare nella coscienza dei monaci un atteggiamento critico verso una storia che presenta ferite e resistenze. Ciò significa non perdere mai la memoria di quella necessaria e continua conversione alle radici autentiche dell'esperienza monastica.

Tuttavia il coinvolgimento del monachesimo nella rottura della oikoumene ecclesiale non ha frantumato, nelle sue radici, quella koinonia di vita che è stata plasmata da un camino comune nel solco della Chiesa indivisa.Il monachesimo, a qualsiasi latitudine o confessione appartenga, conserva, più o meno consapevolmente, quella che potremmo chiamare “la memoria storica delle origini”. Nota p.Pierre Miquel, già abate di Ligugé, esperto dell’antica spiritualità monastica e sensibile alla dimensione ecumenica del monachesimo: "’E nei monasteri che si può trovare al meglio la chiesa indivisa. È là che si vive il patrimonio comune con un'intensità maggiore: la fede dei primi concili, il pensiero dei Padri della chiesa, la preghiera liturgica". E aggiunge anche un'altra ragione interessante: "Il monachesimo è ugualmente anteriore alla divisione così incresciosa tra teologia e spiritualità. La spiritualità monastica è teologica e la sua teologia è spirituale. Al monachesimo ripugna spontaneamente di isolare una scienza teologica che operi fuori da un clima spirituale e una pratica spirituale che si sviluppi al di fuori di una struttura teologica. Quando una teologia non è più ispirata dallo Spirito, essa diventa presto polemica"[6]. Di fatto, nelle forme e nelle strutture essenziali, nei suoi valori fondanti, il monachesimo appartiene alla chiesa del primo millennio, a quella chiesa che, nonostante tensioni e scismi, ha conosciuto il dono dell’unità. Anzi, in un certo senso, il monachesimo ha plasmato alcuni tratti essenziali della chiesa delle origini, assumendo quelle caratteristiche comuni che hanno reso ogni chiesa locale partecipe della cattolicità, della ecumenicità: sono i tratti che rendono l’esperienza liturgica spazio privilegiato della coscienza ecclesiale, che nutrono quella sapienza  presente nella visione teologico-spirituale dei Padri, che animano una ecclesiologia di comunione. Tutto ciò è impresso indelebilmente nel monachesimo tanto che, al di là delle forme confessionali, esso, sia in oriente che in occidente, parla un linguaggio comune. Ed è, fondamentalmente, il linguaggio dello Spirito, l’unico linguaggio capace di creare comunione. ‘E quanto dice P.Evdokimov proprio a riguardo del monachesimo: “La divisione della cristianità non è un ostacolo formale, ma una mancanza di vera libertà, di quella che trova la sua origine nella verità totale. Più di tutti gli altri, i monaci faranno l’unità organicamente, per il fatto che la faranno liturgicamente…Attraverso la loro adorazione e i loro canti di lode, non escludono nessuno, invitano solamente tutti ed ognuno a diventare adulti in Cristo. Secondo la bella espressione di san Simeone il Nuovo Teologo, lo Spirito Santo non teme nessuno e non disprezza alcuno. Icona dello Spirito Santo, il monachesimo è una viva epiclesi ecumenica. L’unità non può trovarsi che in questa dimensione del monachesimo universale se egli sa rendersi alla fine così libero come i soffi del grande Liberatore”[7].

Dunque a questo livello più profondo, più vitale, si possono intravedere quelle potenzialità che rendono il monachesimo vera ‘epiclesi ecumenica’. Nel monaco “rimane impresso in profondità il sigillo dell'unità e della ecumenicità. Ha ricevuto una certa esperienza ed un gusto di Dio che vanno al di là delle formule che tentano di circoscriverlo. Possiede anche, attraverso la preghiera, un senso della comunione universale nel Cristo che supera le frontiere visibili delle chiese così come si sono cristallizzate dopo le scosse delle grandi divisioni…. Anche quando è chiamato a tener conto della lentezza ecumenica inevitabile tra le chiese, il monaco, per la grazia che ha ricevuto, porta in sé un appello profondo verso l'unità totale di coloro che seguono lo stesso Signore. "Questa unità la possiede in se stesso, in qualche luogo. Gli è donata in ciò che Thomas Merton ha chiamato il 'punto vergine' che si trova in ogni uomo. L'invisibile così circoscritto nel proprio cuore, gli permette di percepire una pienezza che le divisioni, all'esterno, non hanno contaminato, un punto di chiesa indivisa che non è mai stato violato, a partire dal quale, se in esso, anche solo per un istante, noi potessimo ritrovarci tutti insieme, diventerebbe infinitamente più facile accogliere il dono dell'unità visibile che il Signore vuole sempre accordare alla sua chiesa"[8]

Cerchiamo allora di scendere in questo luogo interiore di incontro, nel cuore della vita monastica, in quello spazio che fa del monaco un cercatore di unità.

 

1. Il monachesimo: cammino di unificazione.

 

Se si prende in considerazione l’uso della parola monachos nella versione greca della Bibbia oppure nella letteratura monastica antica, ci si accorge immediatamente che tale termine ha un utilizzo non univoco. può indicare una solitudine derivante da una scelta di vita (più relativa al celibato che alla separazione dal mondo), la unicità o irripetibilità di una esistenza, l’unità di un cuore indiviso nel servizio del Signore. Soprattutto quest’ultimo aspetto ha trovato significativo riscontro nella definizione che molti autori monastici danno al identità monastica a partire dal nome stesso di monachos. Citiamo solamente due testi della tradizione monastica: ambedue sottolineano il rapporto tra il cammino di unificazione a cui è chiamato il monaco e l’etimologia del termine monachos. Nella sua Gerarchia Ecclesiastica lo Pseudo-Dionigi ci offre questa definizione della vocazione monastica: “…gli uni li chiamano servitori, gli altri monaci in seguito al loro puro servizio e culto di Dio ed alla loro vita indivisa ed unita, in quanto li conserva nell’unità, pur nelle sante complicazioni di cose diverse, per imitare il Dio unico e per raggiungere una perfezione cara a Dio”[9].Un autore occidentale, che la tradizione ha identificato con Gregorio Magno (ma in realtà, secondo gli studi di p.A. De Vogűé, si tratta di Pietro di Cava), commentando 1Sam 1,1 si sofferma sulla espressione “erat vir unus”  e scopre in essa una rivelazione della tensione che abita il monaco. Così scrive:

Vi era un uomo…In quest’uomo uno non possiamo vedere raffigurato, in modo più esatto, se non tutti coloro che ai nostri giorni disprezzano questo mondo?

Infatti è chiamato uomo poiché è forte in ciò che si è proposto; e uno poiché non è diviso nell’amore. Si, è uomo poiché disprezza con una forza virile tutto ciò che lo circonda; ma è uno poiché desidera godere la sola visione del Dio onnipotente: Infatti colui che disprezza in modo radicale ciò che è terreno è uomo a causa della fortezza; ma se non desidera ardentemente vedere colui che lo ha creato, non è uno nella sua intenzione.

Così la perfezione dell’uomo  consiste nell’elogio della sua unità: colui che disprezza completamente il mondo, non deve dividere la sua mente; ma ricercare unicamente i beni celesti e sospirare soltanto le gioie eterne della visione del suo Creatore.

Senza dubbio faceva questa esperienza colui che, confidando in Dio, dice: ‘Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra’. E ancora: ‘Il tuo volto, Signore, io cerco’. Colui che non desidera nulla sulla terra, certamente è uomo;  ma colui che in cielo e sulla terra non desidera altro che il Solo, colui che dopo aver disprezzato tutto cerca soltanto quel volto, questi non è soltanto uomo, ma diventa uno…..

E per ottenere questa unità ecco che cosa ci insegna la Verità: ‘Chi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo’. E tutto ciò possiamo realizzarlo anche noi; poiché noi, che abbiamo rinunciato al mondo, abbiamo cercato il segreto della vita più nascosta, ci chiamiamo monaci. Monos è il termine greco, in latino diciamo unus.

Dunque siamo iscritti e chiamati con questo nome: la parola che ci definisce faccia penetrare in noi l’altezza della dignità e il nostro animo si innalzi in una ardente tensione a contemplare il Creatore e a quella sublimità di luce nella quale sempre deve immergersi, quasi a farla trasparire dal volto”[10].

In questi due testi, il cui linguaggio risente forse di un certo influsso filosofico o di una visione del modo eccessivamente dicotomica, troviamo presente la dinamica della ricerca dell’unità presente nella esperienza monastica. Si potrebbe sintetizzare così il cammino verso l’unificazione: dalla consapevolezza della divisone interiore causata dal peccato come idolatria delle realtà mondane, attraverso un doloroso combattimento condotto sotto la guida dello Spirito, si giunge a quella unificazione del cuore (luogo simbolico della vita) che rende lo sguardo interiore (o meglio l’uomo nascosto nella interiorità) capace di contemplare ogni realtà nell’unità stessa di Dio, uno sguardo capace di ricomporre ogni divisione nella comunione stessa della Trinità. Il monaco è colui che cerca di ritrovare in sé stesso l’unità perduta a causa del peccato, è colui che tende ad una unificazione. Nelle sue radici più profonde, questa è l’esperienza e la tensione di ogni cristiano, direi di ogni uomo, desiderio che la vita monastica cerca di tradurre in itinerario ed esperienza concreta di ricerca del punto unificante: Dio (‘Si revera Deum quaerit’ è, per Benedetto, la motivazione fondante di una scelta monastica). Soffermiamoci brevemente su questi passaggi che di fatto rappresentano la tappe o le costanti di ogni cammino spirituale.

L’uomo fa esperienza di divisione, frammentazione, confusione. Essa viene colta in vari aspetti della realtà concreta: il tempo (l’uomo lacerato tra il presente ed un tempo che non gli appartiene più o non gli appartiene ancora), il dubbio (che genera preoccupazione ed angoscia); ma soprattutto il peccato, questa divisione interiore paradossalmente prodotta da una ricerca di una unità idolatrica, da una pretesa di impossessarsi autonomamente della unicità di Dio (‘sarete come Dio’). Tale idolatria frantuma ogni armonia: nell’uomo (rottura dell’unità corpo, anima, spirito), nel rapporto con gli altri (assolutizzando l’unicità dell’individuo a scapito della diversità dell’altro e disseminando ogni rapporto di quella lunga serie di ‘vizi relazionali’ elencati da Paolo in Gal 5); nel rapporto con Dio, producendo quella separazione che genera paura, allontanando l’uomo da Dio stesso. E più l’uomo si allontana da Dio, più la sua chiamata interiore alla unità è minacciata e resa facile preda di colui che è divisore sin dalle origini (non dimentichiamo che diavolo deriva da dia-ballo, cioè ‘disperdo’). Questa potenza dissipatrice e frantumatrice nascosta della dinamica del peccato è stata puntualmente descritta dagli autori monastici quando si soffermano sulla penetrazione del pensiero malvagio nel cuore dell’uomo. Progressivamente il pensiero (logismos) attraverso le tappe della suggestione (un fascino diabolico di una unità idolatrica), del dialogo (la progressiva dispersione attraverso le molte parole), della lotta (un tentativo di resistere per mantenere una armonia con Dio), del consenso (la capitolazione di fronte al potere dispersivo/dia-bolico), giunge a soggiogare il cuore attraverso quella passione (pathos) che è l’esperienza tragica della dissipazione. Facendo accenno al racconto biblico di Gen 3 così P.Evdokimov evidenzia la radice del peccato alla luce di questa dinamica:

“il racconto biblico del ‘frutto proibito’ mette in evidenza la potenza della suggestione; esso suscita il desiderio con la sua apparenza estetica e sensuale al tempo stesso: ‘l’albero era buono e bello a vedere e desiderabile’. La disubbidienza formale è trapassata dalla freccia della tentazione che colpisce la libertà umana e perverte la sua opzione. ‘E chiaro il significato essenziale della caduta: il frutto desiderabile, concupito sensualmente immerge nella vita dei sensi, preferita all’approfondimento spirituale della comunione con Dio. L’uomo appare colpevole, non tanto negativamente, per disubbidienza, ma positivamente, perché non si arricchisce con la prossimità di Dio. ‘Se si fosse attaccato a Dio fin dal primo movimento del suo essere, avrebbe subito raggiunto la sua perfezione’, dice san Gregorio di Nissa”[11]

Ritrovare quella ‘prossimità con Dio’ è possibile solamente se si ha il coraggio di allontanare, distogliere lo sguardo interiore da ogni tendenza idolatrica che lo cattura e lo rende preda della dissipazione. Descrivendo il rito del battesimo, e in particolare il momento in cui il catecumeno si volge verso occidente “nell’atto di confessare ogni completa rinuncia a ciò che è contrario alla vita divina”, lo Pseudo-Dionigi sottolinea che “non è possibile partecipare nello stesso tempo a due cose perfettamente contrarie, né è possibile che chi ha una comunione con l’Uno conduca una vita divisa, se si attiene alla solida partecipazione dell’Uno, ma in tutto ciò che lo può dividere dall’uniformità deve mantenersi inafferrabile ed inviolabile”[12].

‘E questa la conversio morum che è la ‘professione’ stessa del monaco, la sua modalità tipica di collocarsi nella koinonia  ecclesiale. Tutto il cammino del monaco, dalle sue dimensioni più profonde (l’uomo nascosto nel cuore), sino alle sue manifestazioni esteriori (si pensi alla scala dell’umiltà della RB), non è altro che questo faticoso cammino (processu conversationis et fidei) che avvicina a Colui che ridona la unità. Come dice Benedetto nel prologo alla sua Regola: “Ut ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras”.  Nella sua dimensione più globale questo  labor, questa  conversio  è ciò che la tradizione monastica antica, soprattutto orientale, ha chiamato ‘combattimento spirituale’, quella ‘guerra del cuore, come la definisce Antonio il Grande, che accompagna l’uomo sino alla fine. Questa lotta, che passa attraverso l’esperienza umiliante e liberante della tentazione ( in cui ci si scontra con la propria debolezza e viene messa a prova la qualità dei propri desideri in rapporto allo Spirito), è di fatto la cifra riassuntiva di ogni cammino spirituale, la condizione per diventare spazio aperto al dono dell’unificazione. Camminando nel deserto (simbolo di quella verità che smaschera ogni idolatria), il monaco fa esperienza della propria fragilità, scopre ciò che abita il suo cuore, prende coscienza delle divisioni che sono in lui e impara a lasciarsi guidare, ormai privo di difese, da quello Spirito che è unità e verità.  In questo progressivo abbandono da ogni forma di idolatria dissipatrice, il monaco ritrova quella unità liberante che è Dio stesso. Nel suo discorso al monastero di Rila, Giovanni paolo II ricorda in due passaggi questo faticoso cammino di unificazione che, fondamentalmente, è proprio di ogni cristiano:

“Il monaco è memoria evangelica per i cristiani e per il mondo. Come insegna san Basilio magno, la vita cristiana è anzitutto apotage, ‘rinuncia’: al peccato, alla mondanità, agli idoli, per aderire all’unico vero Dio e Signore, Gesù Cristo. Nel monachesimo tale rinuncia si fa radicale: rinuncia alla casa, alla famiglia, alla professione; rinuncia poi dei beni terreni nella incessante ricerca di quelli eterni; rinuncia alla philautia, come la chiama san Massimo il Confessore, cioè all’amore egoistico, per conoscere l’infinito amore di Dio e divenire capaci di amare i fratelli. L’ascesi del monaco è anzitutto un cammino di rinuncia per potere aderire sempre di più al Signore Gesù ed essere trasfigurato dalle energie del suo Spirito…

La ‘lotta spirituale’ è un altro elemento della vita monastica, che oggi è necessario reimparare e riproporre a tutti i cristiani. Si tratta di un arte segreta e interiore, un combattimento invisibile che il monaco conduce ogni giorno contro le tentazioni, le suggestioni malvagie, che il demonio cerca di insinuare nel suo cuore; è una lotta che diventa crocifissione nell’arena della solitudine in vista della purezza del cuore che permette di vedere Dio e della carità che consente di partecipare alla vita di Dio che è amore”[13]

Tuttavia il monaco è ben consapevole che questo cammino faticoso, in cui sono coinvolte tutte le componenti dell’uomo, non è frutto di una conquista ascetica autonomamente gestita. Se così fosse, non sarebbe che una idolatria peggiore di tutte le altre. L’uomo da solo non può ritrovare quella unità distrutta dal peccato. Forse un certo protagonismo ascetico eccessivamente centrato sulle opere, può aver suggerito tale illusione. Ed è fondamentalmente la visione di vita monastica giustamente rifiutata da Martin Lutero (che di fatto giunge a contestare la nozione di ‘voti monastici’ come realtà non corrispondente alla libertà evangelica). Raccogliendo la provocazione rivolta dal Riformatore a quel tipo di vita monastica che lo aveva lacerato, A.Louf con onestà riconosce che “una certa immagine di vita monastica, immagine pagana tutto sommato, che fa appello alla sua abnegazione naturale, di punto in bianco non regge più. Come per Lutero, viene un momento in cui il monaco non può più fidarsi delle proprie forze, radicalmente insufficienti nel mantenerlo saldo nel suo proposito monastico. Egli si trova ridotto alla propria debolezza che, accettata gioiosamente, a poco a poco fa nascere la vera umiltà. ‘E alla mercé della misericordia di Dio che lo ha raggiunto in quel punto di povertà in cui tutte le sue energie naturali si sono esaurite. La mano salvifica della grazia può, da qual momento, agire liberamente, e la vita monastica, ammesso che essa sia possibile ad un credente, diventa ora l’unica cosa che può davvero essere: un miracolo della Parola e della Grazia in un credente ridotto alla sua miseria ma – e qui cito non più Lutero ma santa Teresa di Lisieux – ‘ che confida sino alla follia nella misericordia di Dio’. Benedetto ha riconosciuto il ritratto ideale del monaco nell’immagine del pubblicano dell’evangelo, colui che, cosciente del proprio peccato, non osa più levare gli occhi al cielo, ma senza sosta ripete nel suo cuore: ‘Signore, abbi pietà di me, peccatore’. ‘E un capolavoro di pentimento, di dolcezza, di amore autentico, umile ed universale”[14].

Il monaco è colui che sa di avere il cuore di pietra, è colui che sa che deve fissare lo sguardo sul crocefisso trasfigurato e che solo lui può trafiggere il suo cuore e trasformarlo in cuore di carne. E così il monaco, o più semplicemente il cristiano, ritrova quella unità a cui è chiamato sia come uomo che come credente non con uno sforzo proprio, ma attraverso la forza deificante (la grazia) di Colui che è unità; e l’unità interiore del monaco è il riflesso della unità interiore di Dio nella Trinità

Giunto cosi ad una unificazione interiore, in cui tutta la complessità della vita, le componenti della persona, ogni forma di alterità trova un punto di sintesi in rapporto al mistero di unità-diversità esistente in Dio, il monaco è capace di uno sguardo di comunione, un sguardo, potremmo dire, sapienziale, che sa ricomporre in unità ogni diversità, senza eliminarla. Un esempio di questo ‘sguardo unitivo’ si può trovare in una esperienza mistica di Benedetto, narrataci da Gregorio magno nel suo II libro dei Dialoghi.  Ed è significativo che Gregorio Palamas, nella sua difesa dell’esperienza dell‘esicasmo, riporti proprio questo episodio di san Benedetto[15]. Al termine del suo racconto sulla vita di Benedetto, prima di narrare la morte del santo, Gregorio Magno colloca una visione singolare: di notte , il monaco “volgendo al cielo lo sguardo”, vide un intenso raggio luminoso e “come raccolto in quest’unico raggio di sole”, “il mondo intero fu posto davanti ai suoi occhi”. La capacità unificante dello sguardo di Benedetto, spiega Gregorio, deriva da un cuore  dioratico, un cuore che vede tutto in Dio e che è ormai dilatato (il dilatato corde  del Prologo alla Regola) alla misura stessa di Dio, se così si può dire: “è la stessa luce della contemplazione a dilatare la sua interiore capacità di penetrazione e, nella misura in cui si espande in Dio, essa è sollevata e resa superiore al mondo…Nessuna meraviglia dunque, se vide tutto il mondo raccolto davanti a sé, colui che, sollevato nella luce dello spirito, era già oltre il mondo”

Uno sguardo trasfigurato è reso capace, si potrebbe dire, di vedere il chiaroscuro della diversità (che altrimenti appare limite che minaccia e crea paura) nella prospettiva della luce di Dio, l’unica che permette di raccogliere e ricomporre tutto nella comunione.

Quanto abbiamo detto può apparire forse troppo ideale e certamente nella concretezza di un cammino personale assume tonalità molto più quotidiane. Ma resta pur sempre il cuore della vita monastica, se non addirittura il cuore della vita cristiana. E, in un certo senso, è il luogo misterioso in cui l’unità tra coloro che credono in Cristo può già realizzarsi. Infatti, scrive Matta el Meskin, un monaco copto contemporaneo (morto recentemente nel 2006):

“la via dell’unione con Dio non è una strada a senso unico, che sbocca esclusivamente in Dio; al ritorno essa riconduce verso il prossimo, lo straniero, il nemico, e verso tutto il creato. Colui che si unisce a Dio si impegna di conseguenza a studiare in qual modo egli possa unirsi a tutti e non si dà riposo fino a quando questa unione sia compiuta. Ora tale via che conduce a Dio e ne ritorna è tracciata nel cuore dell’uomo. Se dunque l’unità cristiana attualmente non è realizzata, ciò è dovuto al fatto che: a) la stiamo cercando prima di esserci abbandonati completamente – cuore, anima mente – in Dio; b) la stiamo cercando al di fuori di noi, cioè cerchiamo di realizzarla oggettivamente e non interiormente”[16]

 

2. Monachesimo: cammino di comunione ecclesiale

 

Questo cammino di unificazione interiore non è una dinamica  disincarnata o semplicemente interiore. Ogni realtà che è in relazione con lo Spirito coinvolge spazi e tempi che formano il tessuto della esperienza umana. Il processu conversationis et fidei  del monaco, quell’itinerario di conversione dalla divisione all unità, si situa in un contesto vitale fatto di strutture, di luoghi, di ritmi che plasmano un clima ed uno stile favorevoli perché possa esercitarsi quella che Benedetto chiama ars spiritalis (RB 4), quell’esercizio quotidiano che, quotidianamente appreso nella schola Dominici servitii, rende il monaco malleabile alla azione dello Spirito e che, nello stesso tempo, è opera dello Spirito nell’uomo. Questo spazio vitale non è altro che la vita monastica nella sua quotidianità la quale, nei suoi valori più profondi, ma anche nelle sue strutture e forme essenziali, è rimasta unita nonostante le rotture che si sono prodotte tra le chiese. I monaci in Oriente e in Occidente, al di là di sviluppi storici  o sensibilità culturali ed eccelsili differenti, comunicano ad un medesimo linguaggio monastico unitario, partecipando a quella che A.Louf chiama ‘la stessa grazia monastica’. In una intervista, alla domanda relativa all’origine del comune sentire presente tra monaci d’oriente e d’occidente, p.Louf così rispondeva: “probabilmente dal fatto che condividiamo la stessa grazia monastica, e che, a quel livello di profondità nel quale le nostre due chiese sono unite e forse non sono mai state separate, tale grazia è esattamente identica in oriente ed in occidente. ‘E questo che probabilmente ci permette di riconoscere l’altro nella sua differenza e al di là di essa. Per esprimere questa comunione, Olivier Clément avanza l’ipotesi…che scopriamo allora di essere ‘membri della chiesa da sempre indivisa’”[17]. Ma ci si potrebbe spingere oltre in questa visione unitaria del monachesimo. Infatti non va dimenticato che il monachesimo obbedisce, sia in alcune sue dinamiche interiore come pure nella scelta dei mezzi per favorirle, ad esigenze radicali dell’uomo. Alcune di queste le abbiamo già sottolineate, come la tensione verso una armonia integrale dell’uomo, la necessità di una ascesi per giungere ad una reale padronanza di sé, l’equilibrio nei rapporti con la creazione. Di fatto il monachesimo è un fenomeno umano che trova spazio anche in altre religioni (si pensi anzitutto all’induismo o al buddismo, nelle sue varie forme). Il dialogo interreligioso tra monaci cristiani e monaci di altre religioni evidenzia la presenza di un linguaggio comune in cui la visione antropologica che l’esperienza monastica propone può offrire una solida base per percorsi comuni su varie tematiche. Così annota a questo riguardo E.Bianchi: “Presente in tutte le grandi religioni, anche in quelle come l’islam che hanno cercato di negarlo di fatto, (il monachesimo)si nutre di una antropologia propria: il celibato, la vita comunitaria o la solitudine, la ricerca dell’assoluto, l’ascesi nelle differenti forme sono tutti elementi di una vita così segnata nella carne, nel corpo, in tutta la persona, che di fatto inducono alla consapevolezza di una somiglianza, di una ‘monotropia’ tra quelli che li vivono pur in contesti religiosi differenti. Non a caso Thomas Merton poteva dire di sentirsi più vicino a un monaco buddista che ad un ecclesiastico dell’apparato cattolico…”[18]

Questo linguaggio spirituale presente nell’esperienza monastica e condiviso da monaci d’oriente e d’occidente, crea uno stile di vita che si riflette, ad esempio, sulle strutture, sulle scelte ecclesiali, sul modo di rapportarsi al mondo, su modalità di preghiera ecc… . Esso può assumere varie tonalità. Ne vorrei sottolineare due: uno stile che potremmo chiamare ecclesiale-ecumenico e uno stile che mantiene la vita, in tutte le sue manifestazioni, orientata verso un unico scopo.

Un esempio significativo della esperienza monastica come esperienza di comunione con la chiesa nella sua dimensione oikoumenika è offerto dal capitolo 73 della Regola di Benedetto. Senza equivoci, Benedetto si situa in una tradizione che percepisce la vita monastica come una, cioè ovunque la stessa, suscitata dallo stesso Spirito, orientata verso la medesima ricerca. Benedetto, infatti, nel capitolo finale della sua Regola, presentando la propria proposta come regola per principianti, un initium conversationis, dice:

"Ma per chi vuole procedere celermente verso la perfezione di tale vita, vi sono i precetti dei santi Padri, che fedelmente praticati sono ben atti a condurre l'uomo al culmine della virtù. Quale pagina infatti o quale parola d'autorità divina dell'Antico e del Nuovo Testamento non è rettissima norma per la vita umana? O quale libro dei santi Padri cattolici non ci esorta con insistenza a correre per via diritta verso il nostro Creatore? Così pure le 'Collazioni', le 'Istituzioni' e le ‘Vite dei Padri', e la Regola del nostro santo Padre Basilio, che altro sono se non strumenti di virtù per i monaci buoni ed obbedienti?"[19].

Benedetto si colloca con umiltà di fronte a questa grande tradizione che presenta ai propri discepoli come punto di riferimento nel proprio cammino di ricerca di Dio. E questa tradizione, tesoro della comunione ecclesiale, è costituita anzitutto dalla Parola di Dio; poi dall'esperienza della chiesa riflessa nei Padri (che lui chiama catholici, cioè coloro che sono universalmente riconosciuti nella retta fede); e, infine, dall'esperienza monastica mediata dagli autori monastici (di cui Benedetto cita espressamente Cassiano e Basilio). Chiudere una regola con una significativa apertura di orizzonte ecclesiale è segno di uno stile di ascolto e di comunione che supera la tentazione di una visione ‘confessionale’ della vita monastica; essa si pone, in linea di continuità con tutta una tradizione spirituale realmente oikoumenika , in ascolto di quello Spirito che è donato alla chiesa come principio vivificatore. Ed è sorprendente notare come il luogo concreto attraverso cui lo Spirito comunica la vita è la Parola di Dio (rectissima norma vitae humanae). ‘E il punto unificatore di un movimento concentrico in cui la esperienza storica e concreta di una comunità monastica è quasi risucchiata per essere continuamente resa autentica ed aperta allo Spirito.

Questa presenza di radici così profonde, comuni anche oggi alla vita delle chiese (si pensi al riferimento ‘normativo’ alla Scrittura e l’approccio esperienziale alla tradizione patristico-monastica) deve rendere l'esperienza monastica portatrice di una sensibilità spirituale e di un linguaggio che superano le particolarità che rendono incomprensibili alle chiese diverse dalla nostra, la propria esperienza di fede. Dunque, Benedetto, al cap. 73, ci presenta, potremmo dire, una porta aperta, un cammino che, se storicamente ha come punto di riferimento la Tradizione, è d'altra parte continuamente sottomesso alla imprevedibile azione dello Spirito. Benedetto si situa umilmente in questa Tradizione che supera le divisioni (interessante l'espressione che usa nei confronti di Basilio il Grande, il padre della vita cenobitica, nella tradizione bizantina, 'il nostro santo padre Basilio') per trasmetterla agli altri, si fida più della forza di Dio che della propria debolezza e di quella dei fratelli a cui si rivolge.

Il monachesimo, inoltre, presenta uno stile di vita che conserva, al di là delle differenti sfumature accentuate nelle varie realizzazioni storiche, una visione profondamente unitaria del fine che si propone. Esso pur mediato da strutture, forme, modalità differenti nel corrispondere alle esigenze ecclesiali e storiche, resta fondamentalmente uno: attestare, attraverso uno stile di vita (le strutture ed i valori monastici) e un cammino di conversione sotto la guida dello Spirito (per ducatum evangelii), la signoria di Dio di fronte ad ogni idolatria, orientando la propria esistenza nel tempo, alla attesa della venuta del Signore Gesù. Ciò che ho appena detto, non è certamente una definizione esaustiva della vita monastica, ma solo la sottolineatura di alcuni elementi che creano quella unità di fine a cui tutto in essa è orientato. Ciò appare in modo evidente nella tradizione monastica orientale e Giovanni Paolo II, nell’Orientale Lumen 9, non manca di sottolinearlo con forza. Conviene rileggere questo passaggio dell’enciclica:

“In Oriente il monachesimo ha conservato una grande unità, non conoscendo, come in occidente, la formazione di diversi tipi di vita apostolica. Le varie espressioni della vita monastica, dal cenobitismo stretto come lo concepivano Pacomio e Basilio. all’eremitismo più rigoroso di un Antonio o di un Macario l’egiziano, corrispondo più a stadi diversi del cammino spirituale che alla scelta tra diversi tipi di vita. Tutti comunque si rifanno al monachesimo in sé, in qualsiasi forma esso si esprima. Inoltre il monachesimo non è stato visto in oriente soltanto come una condizione a parte, propria di una categoria di cristiani, ma particolarmente come punto di riferimento per tutti i battezzati, nella misura dei doni offerti a ciascuno dal Signore, proponendosi come una sintesi emblematica del cristianesimo”.

In questo testo, vengono indicate tre angolature da cui si può cogliere il carattere e lo stile unitario del monachesimo, sia come forma vitae, sia come esperienza spirituale[20].

Anzitutto il monachesimo, in Oriente, ha mantenuto una unicità di scopo, evitando una frantumazione in differenti forme di vita legate a scopi ben determinati. Lo sviluppo della vita religiosa in Occidente, a partire dal secondo millennio, ha conosciuto il formarsi di una varietà di stili di vita o di strutture canoniche legati a differenti esigenze che man mano emergevano nel contesto storico ed ecclesiale, creando religiosi/e ‘specializzati’ in determinate diakonie ( socio-caritativa, educativa, missionaria, pastorale, ecc…). Questo sviluppo, pur legittimo e rivelativo di una capacità di incarnazione della vita religiosa, ha tuttavia condotto quest’ultima ad una frantumazione e ad un allontanamento (o almeno un indebolimento) da quella tensione unitaria espressa dalla vita monastica. Il monachesimo orientale non è stato indifferente alle richieste sociali o ecclesiali di una diakonia attiva. Ma ha cercato di corrispondere ad esse senza creare forme diversificate di vita religiosa, mantenendo così maggiore malleabilità (si pensi ad esempio alla assenza di una ‘clausura’ concepita in modo giuridico come in occidente). Per questo, tale ‘servizio’ alla chiesa e al mondo non è mai stato staccato dalla matrice strutturale e dalla forma vitae caratteristica del monachesimo, non ha mai condotto alla frantumazione dell’ordo monasticus in esperienze a se stanti, non ha mai perso un linguaggio spirituale unitario, pur nella varietà delle risposte agli appelli dello Spirito ‘che parla alle Chiese’, il monachesimo in oriente si è mantenuto radicato su quel terreno di valori essenziali attraverso cui si esprime, il primato della interiorità, la signoria dello Spirito, la tensione escatologica, il ruolo profetico.

L’aver conservato questa tensione unitaria, ha permesso al monachesimo orientale di mantenere unite altri due aspetti. Anzitutto una certa unità di strutture, espresse tuttavia in una pluralità di forme. Un linguaggio comune nella struttura monastica non è stato mediato da una visione eccessivamente giuridica di ‘regola’ o di ‘ordine’. ‘E rimasto aperto ad accogliere forme di vita differenti come risposta personale allo Spirito, ma sempre legate all’”insegnamento dei santi Padri”(formula tipica per esprimere la tradizione viva del monachesimo). Questa duttilità ha permesso il convivere, all’interno delle varie esperienze monastiche, di tendenze a volte antinomiche ma, proprio perché non cristallizzate in strutture canoniche, positive e vitali per la stessa tradizione monastica. Così ad esempio, la presenza in uno stesso monastero di cenobiti ed eremiti ha potuto diventare espressione più completa della ricchezza dei cammino che conducono alla comunione e alla unità con Dio e con i fratelli.

Infine, l’aver colto il monachesimo come “sintesi emblematica del cristianesimo”, ha permesso all’oriente di superare una certa frantumazione nel linguaggio spirituale. Il cammino spirituale proposto dal monachesimo è la sequela Christi, è la radicalità dell’evangelo. Se il monaco la traduce in forme e strutture particolari, tale scelta non è compiuta in vista di una posizione ‘privilegiata’ all’interno della chiesa. P.Evdokimov sintetizza con precisione l’angolatura con cui la tradizione ortodossa legge il rapporto tra spiritualità monastica e spiritualità laicale:

“Quando Cristo comanda, dice s.Giovanni Crisostomo, di seguire la via stretta, egli si rivolge a tutti gli uomini. Il monaco ed il laico devono giungere alla stessa altezza. ‘E evidente che vi è una medesima spiritualità per tutti, senza distinzione, quanto alla sua esigenza, sia come vescovi, che come monaci e laici, ed è la spiritualità monastica. Questa è forgiata dai monaci-laici, e questo da al termine ‘laico’ un senso massimalistico spirituale e ecclesiale”[21]

Per noi occidentali può apparire un tentativo di monasticizzare tutta la vita cristiana, annullando le differenze. Su questo chiaramente si può discutere: il rischio c’è. Ma forse in occidente, abbiamo corso il pericolo opposto. In occidente si è troppo separato “salvezza” e “perfezione” (o, in altri termini, parecepta e consilia) e diviso in categorie troppo distinte coloro che vogliono ‘essere salvati’ (uno dei concetti in cui i monaci antichi si riconoscevano) e coloro che tendono alla perfezione. E d’altra parte i grandi maestri della vita monastica, nonostante l’alta stima che avevano della loro professione,  hanno sempre mantenuto questa identificazione tra spiritualità monastica e spiritualità cristiana: non è l’esperienza monastica come tale che esige la tensione verso la perfezione, ma il cristianesimo stesso e i monaci sono semplicemente dei cristiani che hanno compreso la loro vocazione e che hanno deciso di usare tutti i mezzi necessari per corrispondervi. Contestando quella divisione sopra accennata, P.Evdokimov nota come questa separazione a causato una perdita di armonia e di omogeneità nella esperienza spirituale cristiana. Secondo il teologo ortodosso essa piò essere superata solamente se le esigenze e i valori della vita monastica (povertà, castità, obbedienza), liberati dalle loro forme concrete, diventano impegno di ogni cristiano che vive nel mondo:

“Vi sarà una terza soluzione? Senza pregiudicare nulla, si può dire almeno che essa deve far proprie le due soluzioni esistenti, interiorizzandole, il che significa far proprio i loro principi al di là delle loro forme precise. “Non siete del mondo, ma nel mondo”; questa parola del Signore preconizza un ministero del tutto particolare, che è quello di essere segno, riferimento al ‘totalmente altro’. ‘E già stato realizzato in modo diverso qua e là: attualmente sembra che il segno si mostri al di sopra della città e del deserto, perché è chiamato a superare ogni forma, per esprimersi ovunque ed in ogni circostanza….Il monachesimo centrato sulle cose ultime, ha cambiato la faccia del mondo. Oggi fa appello a tutti, laici e monaci, e propone una vocazione universale. Si tratta per ciascuno di trovare il suo genere di adattamento, l’equivalente dei voti monastici”[22]

Penso che questo linguaggio trovi una connaturale sintonia in un monaco occidentale. E in un certo senso questa dimensione unitaria del monachesimo orientale, espressa a vari livelli, è una provocazione ad un esame di coscienza per le comunità monastiche cattoliche. Quella tensione verso un unico scopo è presente nel monachesimo occidentale, ma storicamente, in tante esperienze, è stato dimenticato. Riscoprirlo (con le conseguenti scelte) è di fatto far riemergere “quei forti tratti comuni” che possono fare da “ponte di fraternità, dove l’unità vissuta risplende persino più di quanto possa apparire nel dialogo fra le Chiese” (Orientale Lumen 9). E forse anche suscitare alcuni ripensamenti più globali nel modo di percepire ala vita religiosa o la spiritualità nella chiesa cattolica.

 

3. Monachesimo: cammino di compassione

 

“L’identità del monaco può essere riassunta in questa frase, tratta dalla tradizione antica: ‘Il monaco è colui che è sperato da tutti e unito a tutti’. Il termine monachos…, che significa ‘solo’, può dare l’impressione che la vita monastica sia un isolamento. Tuttavia i monaci e le monache non sono dei celibi isolati. Questa vita si fonda sul dono totale di sé a Dio, nel legame permanente con lui. Tutto è compreso, organizzato, vissuto ed espresso a partire da questa relazione fondamentale. Tutto deve essere unificato a partire da questo centro. In questo senso il termine monachos può indicare l’essere umano interiormente unificato. Per questo l’attività più importante della vita monastica è la preghiera”[23]. Queste parole di una monaca rumena contemporanea (madre Eufrasia Poiana), sintetizzando quanto abbiamo detto in precedenza, sottolineano bene due movimenti che il monachesimo esercita in rapporto al mondo, movimenti che riflettono le dinamiche stesse di ogni cammino di ricerca dell’unità. “Essere separati” dal mondo ed “essere uniti” con il mondo sono due movimenti che possono apparire contraddittori. Di fatto sono la autentica dinamica che purifica la ricerca di unità da ogni ambiguità.

Il monachesimo ha sempre ritenuto essenziale, per perseguire il proprio cammino di ricerca, una certa posizione di marginalità nel contesto mondano ed ecclesiale. Il deserto ne è il simbolo; il distacco da tutto ciò che può soffocare la verità di un cammino, la visione lucida dell’essenziale, ha spinto i monaci di ogni epoca, in forme differenti, a prendere le distanze da quella ‘mondanità’ che può insinuarsi ovunque, anche nel rapporto con Dio. A questo riguardo sono significative alcune riflessioni del filosofo danese S.Kirkegaard, in cui  il rapporto tra mondo e monachesimo evidenzia il ruolo di quest’ultimo “come memoria della differenza tra sequela e mondanità”[24]. Di fatto Kirkegaard vive in una chiesa, quella luterana di Danimarca, che ignora il monachesimo e che manifesta, secondo una espressione dello stesso filosofo, una "indifferenza pagana", una mondanità al riparo dai conflitti e dalle preoccupazioni, da ciò che suscita normalmente un autentico cristianesimo. L'antidoto a tale mondanità della chiesa è l'esperienza monastica: l'assenza del monachesimo in una chiesa ha delle conseguenze per la sua vitalità e per la sua autenticità cristiana. E una concezione che si avvicina in qualche modo all'orientamento con cui la tradizione orientale legge il monachesimo: come modello del cristiano, come esemplificazione radicale della sequela. Per esempio, Kierkegaard scrive:

“Il monastero fu in ogni caso un punto di vista per determinare dove si fosse, se si era saliti nella perfezione più in alto che nel monastero o se si era caduti nella pura mondanità. Si lasciano in seguito cadere i monasteri, e oggi ecco che da tempo si va a tentoni in piene tenebre per sapere dove ci si trovi, e tutto il campo del profano ha fatto più che mai degli affari d'oro. La fede è diventata oggi a tal punto una interiorità nascosta, perfettamente indiscernibile nella vita degli uomini. [...]

La domanda pertanto è di sapere se gli ordini monastici non torneranno ad essere una necessità al fine di avere dei pastori o delle persone che vivano solo per predicare. ... A condizione di comprendere correttamente il celibato, la religione ha sempre bisogno di celibi, soprattutto ai nostri giorni. [...]

Il punto di Archimede fuori di questo mondo è una cella di preghiera, dove un vero orante prega in tutta sincerità; ed egli solleverà terra. Sì, se esistesse questo orante e la sua vera preghiera, quando chiude la porta, è incredibile quello che egli potrebbe fare. […]

Il monastero è un momento dialettico essenziale nel cristianesimo, così è necessario averlo al largo come si ha una boa per vedere dove ci troviamo, anche se per quanto mi riguarda io non vorrei entrarvi”[25].

In particolare la scelta monastica, nella sua radicalità e nella sua marginalità, prende le distanze non solo da ogni forma di divisione, ma anche da ogni forma di unità idolatrica che tende a eliminare ogni differenza e a sacrificarla in nome di un potere spersonalizzante. A questo riguardo si possono richiamare le due figure simboliche della torre di Babele e di Nabuccodonosor (cfr. libro di Giuditta), tipi di una unità trasformata in idolo. L’attenzione alla persona, così come la concepisce Benedetto nella sua regola, la signoria della Parola, l’umile servizio ai fratelli (schola dominci servitii), la ricerca della pace, la scelta di essere ai margini, lo spossesso di sé ecc…sono un antidoto ad ogni imperialismo e di fondamentalismo che tende a rigettare ogni forma di alterità. Di fatto solo l’umiltà, che è riconoscimento della verità di sé stessi di fronte a Dio e ai fratelli, permette una unità interiore che sappia accogliere come dono e grazia , come ricchezza dello Spirito, ogni diversità. Non per nulla Benedetto pone al termine della scala dell'umiltà la figura del pubblicano al tempio, tipo di colui che, abbandonando ogni forma di predominio sugli altri (anche se questo può avere il volto del merito o della giustizia), si abbandona totalmente alla misericordia di Dio, a colui che è fonte di ogni unità. Matta el Meskin, applicando questo cammino alla unità della Chiesa, contrappone ad una unità fusionale o espressione di una tendenza di coalizione, una unità in qualche modo legata a forme di potere, una unità che parte dalla forza della debolezza:

“L’unità delle chiese cristiane dà alle coscienze malate l’illusione di garantire uno stato di forza temporale, mentre proprio la debolezza temporale è ciò che la chiesa possiede di più prezioso: è il suo vanto e la sua forza, perché è una debolezza divina e, come afferma Paolo apostolo, ‘la debolezza di Dio è più forte degli uomini’. Una chiesa che si affida alla potenza ‘temporale’ non può gustare, in condizioni di forza, la crocifissione; un uomo non può essere crocefisso che per debolezza, come il maestro di tutti che ‘fu ucciso per  la sua debolezza’. Per le chiese considerate ‘potenti’, o sostenute dalle potenze di questo mondo, la prospettiva dell’unità cristiana rappresenta la tentazione di cadere in un complesso di superiorità che comporta atteggiamenti di ‘liberatore’….Se l’unità cristiana si allea all’idea di forza temporale, anche se è per tutelare gli interessi dei deboli o se pure può sembrare utile per fare pressione sulle pecorelle smarrite, essa perde subito il suo peso divino; allora non diventa che un insieme di coalizioni destinate a disintegrarsi e a sparire come tutte le imprese degli uomini”[26]

In queste parole del monaco copto sembra quasi di udire una eco di ciò che V.Solov’ev intuiva in forma narrativa ne I tre racconti dell’Anticristo: ad un potere che offre una pseudo-unità che ha il volto di una religione universale si oppone l’umile dialogo tra le tre figure-simbolo di un cristianesimo ormai marginalizzato ma capace, nella debolezza, di convertirsi a quel dono di comunione che viene dall’alto.

Questa separazione e allontanamento dalla logica mondana, non è per il monaco rifiuto del mondo, degli uomini. Il monaco sa che solo in una unità interiore ritrovata, può ritornare al mondo, chinarsi su di esso e dare quella parola di pace di cui ogni uomo ha bisogno. “Trova la pace interiore molti in te troveranno salvezza”: è questa la sintesi, secondo Serafino di Sarov, del cammino di unificazione del monaco. “Proprio nel progressivo distacco da ciò che nel mondo lo ostacola alla comunione col suo Signore – scrive Giovanni paolo II in Orientale Lumen 14 – il monaco ritrova il mondo come luogo ove si riflette la bellezza del Creatore e l’amore del Redentore. Nella sua orazione il monaco pronuncia un’epiclesi dello Spirito sul mondo ed  è certo che sarà esaudito, perché essa partecipa delle stessa  preghiera di Cristo. E così egli sente nascere in sé un amore profondo per l’umanità, quell’amore che la preghiera in Oriente così spesso celebra come attributo di Dio, l’amico degli uomini che non ha esitato di offrire suo Figlio perché il mondo fosse salvo. In questo atteggiamento è dato talora al monaco di contemplare quel mondo già trasfigurato dall’azione deificante del Cristo morto e risorto”.

Dunque, attraverso un cuore reso ‘uno’ e capace di accogliere la philantropia divina, il monaco acquista uno sguardo di compassione (sun-pathein) che sa accogliere ogni diversità per purificarla e collocarla nello spazio di Colui che è comunione. Frutti di questo cammino di unificazione nella misericordia è questo testo di Isacco il Siro:

“Cos’è la purezza? ‘E un cuore misericordioso per ogni natura creata…E cos’è un cuore misericordioso? ‘E l’incendio del cuore per ogni creatura: per gli uomini, per gli uccelli, per le bestie, per i demoni e per tutto ciò che esiste. Al loro ricordo ed alla loro vista, gli occhi (di un tale individuo) versano lacrime, per la violenza della misericordia che stringe il suo cuore a motivo della grande compassione. Il cuore si scioglie e non può sopportare di udire o vedere un danno o una piccola sofferenza di qualche creatura. E per questo egli offre preghiere con lacrime in ogni tempo….a motivo della sua grande misericordia, che nel suo cuore sgorga senza misura, ad immagine di Dio”[27].

In questa linea si colloca anche Benedetto quando invita il monaco ad accogliere ogni uomo come se fosse Cristo stesso: “inclinato capite vel prostrato omni corpore in terra Christus in eis adoretur qui et suscipitur”[28]. ‘E proprio questa ospitalità monastica, riflesso concreto della compassione divina, ad andare al di là di ogni differenza, anche di fede. ‘E lo stile di condivisione monastica che colloca ogni disputa o divisione (di fatto non negata) nella fornace della carità. Interessati a questo riguardo, due esempi tratti dall’antico monachesimo. “Un giorno – narra un apoftegma – vennero dal padre Poemen alcuni eretici, che cominciarono a parlar male dell’arcivescovo di Alessandria…L’anziano, dopo aver taciuto, chiamò il fratello e gli disse: ‘Prepara la tavola, falli mangiare e rimandali in pace”[29]. Ancora più significativi sono due passaggi tratti dalle lettere di Barsanufio e Giovanni di Gaza.

In essi intuiamo già abbozzato, adombrato uno stile ecumenico, una certa accoglienza della diversità di colui che appartiene ad un'altra chiesa (in questo caso è "l'eretico nestoriano"). Ci sono due domande a cui questi monaci rispondono. Nella prima domanda ritroviamo un atteggiamento radicalmente evangelico, una sorprendente "connivenza" tra il monaco e l'eretico. Il monaco, anche lui peccatore, come potrebbe arrogarsi il diritto di condannare un miscredente, poiché tutti e due non hanno altra speranza se non nella misericordia di Dio?

Nella seconda domanda, ritroviamo una prima traccia di una preghiera per l'unità delle chiese, inscritta nel cuore di qualcuno che ha abbandonato tutto per seguire il suo Signore fino nel cuore del deserto, luogo dell'incontro con Dio:

 

Domanda. Se qualcuno mi dice di anatematizzare Nestorio e i suoi seguaci eretici, lo faccio o no?

Risposta. - Che Nestorio e gli eretici suoi seguaci siano soggetti ad anatema, non c‘è' dubbio; tu però non anatematizzare nessuno; giacché chi si giudica peccatore deve fare lutto sul proprio peccato e nient'altro. Ma non bisogna neppure giudicare coloro che anatematizzano qualcuno; poiché ciascuno prova se stesso.

Domanda. E se, in una discussione un eretico circuisce col suo discorso un ortodosso, è bene che io venga in aiuto con le mie parole a quest'ultimo per quanto so, perché vinto, non sia danneggiato nella sua retta fede?

Risposta. - Se tu ti metti a parlare, parli di fronte a Dio e di fronte agli uomini, e ti metti nella condizione di chi insegna; ma se uno insegna senza averne le capacità, il suo discorso non è convincente, ma infruttuoso. E quando non serve a nulla che bisogno c'è di parlare? Se invece vuoi aiutare veramente, parla nel tuo cuore a Dio che conosce le cose nascoste e che può fare al di là di ciò che gli chiediamo, ed egli farà con i disputanti secondo la sua volontà, mentre tu, in questa faccenda, troverai l'umiltà”[30]

Da questi testi appare una particolare sfumatura che caratterizza questo sguardo compassionevole del monaco e lo rende disponibile alla comunione, liberandolo da ogni pretesa di giudizio: è la consapevolezza del proprio peccato. Nella tradizione monastica, una delle figure evangeliche più amate è il pubblicano della parabola di Luca: cosciente della propria miseria, il monaco si sente solidale con ogni uomo e donna che fanno l’esperienza del peccato e che sanno attendere quella salvezza che non può venire dalla propria giustizia (la logica del fariseo), ma solo dalla infinita misericordia di Dio. In una conferenza ad alcuni superiori religiosi, p.A.Louf, parlando della vita contemplativa e del ruolo del monachesimo nel mondo d’oggi, riprende la figura del pubblicano e dice:

“Meno che mai (il monaco) è tentato di passare avanti nella Chiesa, in prima fila, per così dire. Egli ritrova il suo vero posto, quello del pubblicano del vangelo, proprio al fondo, e ne ripete l’invocazione – abbi pietà di me peccatore – che san Benedetto gli ha lasciato come formula di preghiera perfetta e perpetua. Glielo ha insegnato una esperienza profonda della sua chiamata alla contemplazione”

Proprio questa chiamata alla contemplazione pone il monaco di fronte alla dura prova della sua debolezza. ‘E un cammino doloroso che “sottomette ad uno spogliamento radicale”, lo spogliamento della umiltà evangelica e della ricerca di un Dio “che sembra nascondersi nella sua inguaribile debolezza”, un Dio che appare più assente che presente in questa lunga traversata nel deserto. Solo a questa condizione, fedele nella notte, il monaco si rende disponibile al miracolo della misericordia di Dio. Ma, come sottolinea A.Louf, è questo il cammino che rende il monaco vicino a tutti coloro che faticano a credere, a ogni peccatore:

“Più di qualsiasi altro credente, il contemplativo diviene allora un eminente “esperto in ateismo”. Egli crede? Può darsi, ma senza credere, gli sembra….

Purificata dai suoi falsi dei, (la vita contemplativa) si sente vicina a tutti coloro che dubitano e sono in ricerca, e particolarmente a coloro che si ritengono atei. Essa è particolarmente più vicina ai peccatori, afferrati alla disperazione e che vengono e che vengono spesso a bussare alle sue porte, perché essa ha qualche esperienza della misericordia sconvolgente di Dio e sa che il gioioso pentimento è l’unica via, sia per il peccatore come per il giusto, per conoscere fino a qual punto noi siamo amati”[31]

Questa solidarietà con i peccatori, con coloro che vivono ogni sorta di divisioni, con coloro che faticano a credere, ha un luogo unificante: il ministero della intercessione. In esso si accetta di vivere, di fronte al dolore del mondo, ad ogni divisione, “un ateismo di compassione, che ci colloca senza dubbio nell’Eli, Eli, lama sabactani’ del Golgota”[32]. Se intercedere è fare un passo all’interno di una situazione difficile e “stare là, senza muoversi, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla”[33] delle due parti in conflitto, “accettando il rischio di questa posizione”, allora il monaco, attraverso la sua preghiera, si colloca nello stesso tempo al centro di ogni situazione umana di rottura e di peccato e al centro del mistero di unione che è in Dio; si pone là dove c’è divisione nella chiesa e nell’umanità per portarla a Dio ed essere, attraverso l’intercessione quotidiana, strumento di riconciliazione. La posizione dell’intercessore è estremamente difficile: in essa si sperimenta la pesantezza del proprio ed altrui peccato, delle contraddizioni e richiede un spogliamento continuo dalla pretesa di un risultato immediato. Silvano del Monte Athos aveva riassunto in questa espressione lapidaria e paradossale tutta la sua esperienza monastica: “Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare”. Avendo fatto della preghiera per i nemici un soigillo della sua vita poteva così scrivere:

“C’è chi dice che i monaci devono servire il mondo per non mangiare il loro pane senza guadagno. Ma bisognerebbe sapere in che cosa consiste questo servizio del monaco, in qual modo egli deve aiutare il mondo. Il monaco prega con lacrime per tutto il mondo e in questo consiste il suo lavoro principale. E che cosa lo spinge a  piangere e a pregare per tutto il mondo? Gesù il Figlio di Dio, da al monaco, nello Spirito santo, l’amore, e la sua anima sente una continua angoscia per gli uomini, poiché molti non cercano la salvezza della loro anima. Io non desidero altro se non pregare per gli altri come faccio per me stesso. Pregare per gli uomini vuol dire: dare il sangue del proprio cuore…”[34]

Lo stesso atteggiamento di fronte al mondo diviso dal peccato è espresso da queste parole che F.Dostoevskij pone sulle labbra dello starec Zosima. In questa straordinaria figura di monaco coscienza della propria realtà di peccatori e preghiera di intercessione si uniscono profondamente:

“Noi non siamo migliori della gente del mondo per il fatto che siamo venuti qui e ci siamo chiusi far queste mura; anzi, chiunque è venuto qui, proprio per il fatto di esserci venuto, ha riconosciuto di fronte a sé stesso, di essere peggiore della gente del mondo…E quanto più un monaco vivrà fra le sue quattro mura, tanto più profondamente dovrà rendersene conto. Perché, in caso contrario, non valeva nemmeno la pena che ci venisse. Questa consapevolezza è il coronamento della nostra vita di monaci, e anche della vita di ogni uomo. Giacché i monaci non sono esseri diversi dagli altri; essi sono soltanto come dovrebbero essere tutti gli uomini sulla terra. Solo così il nostro cuore potrà gustare un amore infinito, che abbracci tutto l’universo, che non conosca mai sazietà. Allora ciascuno di voi avrà la forza di conquistare col suo amore il mondo intero, e di lavare con le sue lacrime i peccati di tutti gli uomini…Non odiate né gli atei, né chi insegna il male, né i materialisti…Nelle vostre preghiere ricordateli così: ’Salva, Signore, tutti quelli per i quali nessuno prega, salva anche quelli che non ti vogliono pregare’. E aggiungete subito: ‘Non te lo chiedo per superbia, o Signore, perché anch’io sono un miserabile, peggio di tutti loro…”[35]

 

Conclusione

 

Tutto ciò che abbiamo detto finora potrà avere il sapore di utopia o più semplicemente di ideale di fatto irrealizzabile nella realtà concreta del monachesimo. Non abbiamo voluto presentare nel monaco l’icona perfetta dell’homo oecumenicus, né il monachesimo come toccasana per il problema della divisione tra le chiese. All’inizio, abbiamo sottolineato i rischi che il monachesimo ha avuto e ha tuttora in questo ambito. E anche dove si è sviluppata una certa sensibilità ecumenica, soprattutto in occidente, si ha l’impressione che nei monasteri il problema dell’unità tra le chiese resti ancora qualcosa di superficiale, ridotto ad alcune attività anche lodevoli, ma che si affiancano ad altre; di fatto lo stile profondo o la sensibilità di una comunità monastica non restano realmente trasformate da tutto questo. Forse questo ‘ecumenismo di superficie’ è la causa di una mancata consapevolezza delle radici profonde della vita monastica: come cammino di unificazione in Dio e di conversione. Probabilmente sta proprio in questa presa di coscienza, che matura quotidianamente in quella dimensione che A.Louf chiama la ‘paradosis  del carisma monastico’[36], il primo passo che trasforma l’esperienza del monaco in ‘luogo ecumenico’. Il monachesimo è un luogo ecumenico non tanto per ciò che fa in favore del cammino dell’unità tra le chiese, ma per ciò che è, per le potenzialità che custodisce. Sono quelle fonti vitali che irrorano la vita monastica in oriente e in occidente e che, al di là delle divisioni, la rendono tuttora ‘una’. Ogni comunità monastica è chiamata a vivere una fedeltà a quei valori essenziali che rendono la sua esperienza typos della vita cristiana, attraverso una continua conversione del cuore e in una accoglienza di ogni diversità per trasfigurarla, nel ministero delle intercessione, in Cristo.

Cercando di descrivere lo stile ‘ecumenico’ della comunità monastica da lui riformata., il monastero di s.Macario nel deserto egiziano, Matta el Meskin così dice:

“Il nostro monastero vive pienamente l’unità della chiesa in spirito e verità, attendendo che essa si realizzi ugualmente al livello della lettera e della gerarchia. A motivo della nostra sincera apertura di cuore e di spirito verso tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro confessione religiosa, ci è diventato possibile riconoscere noi stessi negli altri, o piuttosto riconoscere Cristo in ogni uomo. L’unità cristiana, per noi, è vivere assieme nel Cristo per mezzo dell’amore. Le barriere cadono da sole e le differenze scompaiono. Non rimane altro che il Cristo unico che ci riunisce tutti nella sua santa persona.

Il dialogo teologico deve proseguire, ma lo lasciamo ai responsabili competenti. Per quanto ci riguarda, noi percepiamo che l’unità della chiesa esiste in Cristo e, di conseguenza, nella misura in cui noi ci uniamo al Cristo scopriamo in lui la pienezza dell’unità. “Se qualcuno è nel Cristo, è una creatura nuova” (2Cor 5,17). E in questa creazione nuova, non c’è nessuna molteplicità ma ‘un solo uomo nuovo’ (Ef 2,15). Anche se noi viviamo integralmente la nostra fede ortodossa, coscienti di tutta la verità e della ricchezza spirituale che in essa si trovano, noi sappiamo d’altra parte che in Cristo, ‘non c’è più né Greco né Giudeo, né circoncisione o incirconcisione, né barbaro o scita, né schiavo o uomo libero; non c’è che il Cristo che è tutto in tutti’ (Col 3,11). In questa lacerazione interiore, noi vorremmo morire ogni giorno in sacrificio per la riconciliazione delle chiese”[37]



[1] Riportiamo alcuni contributi relativi al rapporto tra monachesimo ed ecumenismo, senza pretendere di proporre una bibliografia al riguardo. La rivista Collectanea Cisterciensia ha dedicato un intero numero a questo tema: L’oecuménisme des moines, in  Colectanea Cistercensia 32 (1970) n°1 (con articoli di A.Plamadeala, A. Louf, A.M.Allchin, F.Poswick, R.-A.Botteman). Nella stessa rivista ritroviamo altri articoli: P.HART, Le souci oecuménique chez Thomas Merton, in Coll.Cist. 40(1978)pp.287-293; A.M.ALLCHIN, La vie monastique et l’unité dans le Christ, in ibid., pp171-181; A.LOUF, Moines et oecuménisme, in ibid. 44(1982), pp.169, 182.

Altri studi: I:HAUSSER, Spiritualité monastique et unité chrétienne,  in Il monachesimo orientale (=OCA 153) Roma 1958, pp.15-32; F.BIOT, Communautés protestantes. La renaissance de la vie régulière dans le protestantisme continental, Paris (Fleurus) 1961; G.DI AGRESTI, Risposta ad una crisi cattolica: monachesimo protestante,  Firenze (Libreria Editrice Fiorentina) s.d.; P.MIQUEL, La voie monastique, (=Vie mon. 18), Bellefontaine 1986, pp.282-283; MATTA EL MESKIN, Comunione nell’amore, Bose/Magnano (Qiqajon) 1986, pp.237-257; AAVV, Voci dal monte Athos, Milano (CENS/INTERLOGOS) 1994,pp.67-76; G.BRUNI, Servizio di comunione. L’ecumenismo nel magistero di Giovanni Paolo II, Bose/Magnano (Qiqajon)1997, pp.139-165; M.SIMON, La vie monastique, lieu oecuménique. Au coeur de l’Eglise communion, Paris (Cerf) 1997; E.BIANCHI, Monachesimo ed ecumenismo, (=Temi di vita religiosa Q), Bose/Magnano /Qiqajon) 2000; M.VAN PARYS, Incontrare il fratello, Bose/Magnano (Qiqajon) 2002, pp.pp.175-200; AA.VV, Il ruolo del monachesimo nell’ecumenismo. Atti del Simposio Ecumenico Internazionale, Monte Oliveto Maggiore 30 agosto-1settembre 2000,  cur. D.Giordano (=Studia Olivetana VII), Monte Oliveto Maggiore 2002; A.MAINARDI, Monachesimo occidentale e monachesimo orientale: quale scambio di doni?, in Il monachesimo tra eredità ed aperture, cur.M.Bielawski-D:Hombergen  (=Studia Anselmiana 140) Roma 2004, pp.869-891.

 

[2]  SIMON, La vie monastique, p.15.

[3]  Orientale Lumen,  9

[4]  E.BIANCHI, Monachesimo ed ecumenismo, p.3.

[5]  Ibid, pp.5-6..

[6]  P.MIQUEL, Monachisme et oecumenisme, in Lettre di Ligugé n°219, 1983/3, p.1.

[7]  Cit. in N.PECHEFF-EVDOKIMOFF, Le “Monachisme intériorisé” chez Paul Evdokimoff, in Collectanea Cistercensia 34 (1972) p.119.

[8]  LOUF, Moines et oecuménisme, pp. 174-175.

[9]  PSEUDO DIONIGI, Gerarchia Ecclesiastica, VI, I, 3: tr.it. in DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere,  cur.P.Scazzoso. Milano (Rusconi, 1983, p.222.

[10] GREGORIUS MAGNUS, In I Reg., I, 61: ed. GREGOIRE LE GRAND, Commentaire sur le premier livre des Rois, ed.A. de Vogűé (= Sources Chrétiennes 351) Paris (Ed Cerf) 1989, pp.280-285.

[11]  P.EVDOKIMOV, Le età della vita spirituale, Bologna (Il Mulino) 1968, 180.

[12]  PSEUDO-DIONIGI,  Gerarchia Ecclesiastica, II, III, 5: DIONIGI AREOPAGITA, Tutte le opere,  p.165.

[13]  Cfr.il testo del discorso pronunciato da Giovanni Paolo II al monastero ortodosso di Rila il 25 maggio 2002 in Il Regno-Documenti 1/2002, pp.324-325.

[14]  A.LOUF, La vita spirituale, Magnano/Bose (Qiqajon) 2001, p. 196.

[15]  GREGORIUS MAGNUS, Dialogi II, 35: in GREGORIO MAGNO, Dialoghi (I-IV), cur.B.Calati (=Opere di Gregorio Magno IV) Roma (Città Nuova) 2000, pp.204-207. Cfr. anche GREGORIO PALAMAS Sui  santi esicasti I, 3, 22: in GREGORIO PALAMAS, Atto e luce divina. Scritti filosofici e teologici,  cur.E.Perrella, Milano (Bompiani) 2003, pp.409-410. Su questo testo  cfr E. LANNE, L’interprétation palamite de la vision de saint Benoît,  in Le millénaire du Mont Athos.963-1963, II, Venezia/Chevetogne 1964, pp.21-47.

[16]  MATTA EL MESKIN, Comunione nell’amore, Magnano/Bose (Qiqajon) 1999 (terza edizione) p.279.

[17]  A.LOUF, Cantare la vita, Magnano/Bose (Qiqajon) 2002, pp.241-242.

[18]  E.BIANCHI, Monachesimo ed ecumenismo, p. 8

[19]  Regula Benedicti 73, 2-7.

[20]  Cfr. a questo riguardo A.PIOVANO, L’Orientale Lumen  e i suoi riflessi sul monachesimo contemporaneo, in Tradizione monastica e monachesimo contemporaneo. Atti del XIII incontro di Monte Oliveto, 10-1 settembre 1996, cur.D.Giordano, Supplemento a L’Ulivo “26/1997, n°2, pp.136-157.

[21]  EVDOKIMOV, Le età della vita spirituale, p.141.

[22]  Ibid., p.140.

[23]  I.BALAN, Volti e parole dei padri del deserto rumeno, Magnano/Bose (Qiqajon) 1991, pp.194-195

[24]  BIANCHI, Monachesimo ed ecumenismo, p.4.

[25]  F.POSWICK, La place du monachisme pour Kirkegaard dans les rapports catholiques-protestants, in Collectanea Cisteciensia 1970/32, pp.78-79.

[26]  MATTA EL MESKIN, Comunione nell’amore, pp.285-286.

[27]  ISACCO DI NINIVE, Un umile speranza. Antologia,  cur.S.Chialà, Magnano/Bose (Qiqajon) 1999, pp. 194-195..

[28]  Regula Benedicti 53, 7.

[29] Poemen 78:Vita e detti dei padri del deserto, II, cur.L.Mortari, Roma (Città Nuova) 1975, pp.103-104.

[30]  BARSANUFIO E GIOVANNI DI GAZA, Lettere 699. 695, in  Spiritualità dei Padri del deserto. Lettere di Barsanufio e Giovanni di Gaza, cur. M.T.Lovato, Roma (Città Nuova) 1980, pp.298-299.

[31]  A.LOUF, Assetati di Dio, esperti in ateismo,  in Testimoni 1994, n°4, 6-7.

[32] O.CLEMENT-B.STANDAERT, Pregare il Padre Nostro, Bose/Magnano (Qiqajon) 1988, 114.

[33]  C.M.MARTINI, Un grido di Intercessione,Milano (Centro Ambrosiano) 1991, p.22.

[34]  SILOUANE, Ecrits spirituels,  cur.D.Barsotti-L.-A.Lassus, (=Spir.Or.5) Bellefontaine 1976, pp.46-47.

[35]  F.DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, I, Milano (Garzanti) 1974, p.176.

[36]  LOUF, La vita spirituale, p.227.

[37]  Testo citato in SIMON, La vie monastique, p.109.