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Deus absconditus, anno 98, n. 4, Ottobre-Dicembre 2007, pp. 126-129

Dorino TUNIZ

Esercitare l’ospitalità è ricevere Cristo

 

 

         Il capitolo che Benedetto dedica nella Regola (c. 53) all’accoglienza degli ospiti1 offre un curioso contrasto tra il suo principio e la fine.

         Benedetto fonda il concetto di ospitalità su due citazioni scritturistiche:  Galati 6, 10 (“Operiamo il bene verso tutti”), ma soprattutto Matteo 25, 35 ( “Ero forestiero, e mi avete ospitato”), e  ordina di accogliere tutti gli ospiti come fossero Cristo, con una venerazione piena di entusiasmo: “Quando viene annunciato un ospite, il superiore o i confratelli gli vadano incontro con tutte le attenzioni dettate dalla carità… nell’atto di salutare si mostri profonda umiltà, e chinato il capo o prostrandosi con tutto il corpo a terra, si adori in essi il Cristo che viene accolto…” (vv. 3-7); all’ospite si usi   poi ogni attenzione  e riguardo (exhibeatur ei omnis humanitas; vv. 12-14): “L’abate versi l’acqua sulle mani degli ospiti, egli stesso con l’intera comunità lavi i piedi a tutti gli ospiti, e al termine della lavanda recitino questo versetto: ‘Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia dentro il tuo tempio’ (sal 47, 10). Anche  al portinaio del monastero, che di norma era la prima persona incontrata da chi  arrivava, il successivo capitolo 66 della Regola richiede di rispondere con zelo di carità e con l’affabilità che nasce dal timore di Dio2.

         Con il termine “ospiti” Benedetto intende tutte le persone che, a qualunque titolo, si presentano al monastero per essere accolte. Viene esclusa  esplicitamente ogni  differenza sociale (diversamente da altri legislatori monastici, ad esempio Pacomio, che riceveva “ciascuno secondo il suo rango”):  si ammonisce anzi  di usare   “la più grande cura e sollecitudine nell’accogliere poveri e pellegrini, poiché nelle loro persone si accoglie ancor di più Cristo: a onorare i potenti, infatti, siamo spinti dal timore stesso che essi incutono.”(v. 15). All’ospitalità viene così applicato il precetto già espresso nel cap. 4 della Regola: “Onorare tutti gli uomini”3.

           Il capitolo sugli ospiti si chiude, però, con una prescrizione che appare curiosamente strana: la proibizione ai monaci di parlare con i forestieri giunti in monastero (vv. 23-24). Dopo disposizioni di grande sollecitudine si passa a un atteggiamento molto più prudente e “difensivo”. Leggendo con attenzione tutto il capitolo, si  può notare come il discorso oscilli continuamente fra queste due posizioni, e sullo sfondo del rispetto e della benevolenza si inserisca una serie di osservazioni “in negativo”: ‘Per prima cosa preghino insieme, e poi si scambino l’abbraccio di pace. Questo sia dato, però, solo dopo aver pregato, per evitare gli inganni del Maligno’ (v. 4-5).  All’arrivo di un ospite  il digiuno viene interrotto, ma solo da parte del superiore;  l’ospite mangia alla tavola dell’abate, non con gli altri confratelli, e   la  cucina degli ospiti dovrà essere separata da quella degli altri monaci. Gli ospiti, insomma, mangiano, vivono e dormono separati dai membri della comunità, i quali non possono avere  contatti con loro né interrompere il digiuno per il loro arrivo.

 

         Lo stesso contrasto si avverte nel già citato capitolo sui portinai: il portinaio deve essere affabile, zelante, caritatevole, premuroso con gli ospiti che arrivano. Ma subito dopo la porta del monastero si chiude sul mondo, e il capitolo termina: ‘Il monastero sia costruito in modo da avere al proprio interno tutte le cose necessarie…così che i monaci non abbiano bisogno di uscire fuori, cosa che non giova alle loro anime’4

          Il lettore di oggi riceve dal capitolo sull’accoglienza le stesse impressioni contrastanti che suscitano tutti i testi della Regola riguardanti i rapporti del monastero con il mondo. Questo capitolo, infatti, propone con particolare forza il duplice tema dell’accoglienza e della separazione.

         L’accoglienza offerta dal monastero è quella di una comunità che si è costituita  separandosi dal mondo, e le restrizioni che l’accompagnano sono la conseguenza di quella separazione.

         Fra le motivazioni scritturistiche dell’accoglienza, la parola di Gesù “Ero forestiero e mi avete ospitato” è collocata come fondamento e insegna del capitolo sull’accoglienza: esercitare l’ospitalità è ricevere Cristo. A sua volta anche la separazione dal mondo è la risposta a un invito di Cristo. Amare Dio e compiere la sua volontà esige una attenzione ininterrotta, un cuore indiviso: separarsi dal mondo è seguire Cristo.

         Separazione e ospitalità appaiono così nella regola di Benedetto come due espressioni del medesimo amore: seguire Cristo, ricevere Cristo. Seguire Cristo porta fuori dal mondo, ma proprio là Cristo arriva di nuovo sotto la veste di coloro che sono nel mondo.

         Il monaco che ha lasciato il mondo per amore di Cristo e per cercare Cristo, deve allora accogliere la venuta di Colui che ha detto “Ero  forestiero e mi avete ospitato.”  Il punto di incontro con chi viene dal mondo non può essere il mondo stesso, ma Dio. E’ Cristo che deve entrare, non il diavolo, e l’ospite va ricevuto per amore di Cristo, non di Mammona.

         Queste riflessioni  aiutano a comprendere gli aspetti che ci erano parsi contrastanti nel capitolo sull’ospitalità. L’importanza di pregare prima di darsi il segno della pace, indica che il ringraziamento a Dio deve precedere ogni comunicazione umana; il rifiuto di valutare gli ospiti secondo una scala sociale significa il rifiuto dei valori mondani, e giustifica la preferenza accordata a poveri e  pellegrini, preferiti ai potenti. Nell’accoglienza visibile degli estranei si sottolinea la partecipazione alle umiliazioni di Cristo.5

         Questi credo siano i fondamenti dell’accoglienza benedettina, che ha contrassegnato lungo i secoli il comportamento dei discepoli del santo di Norcia, fino a divenire una delle caratteristiche più conosciute della vita monastica e un tratto forte anche del messaggio del monachesimo all’oggi.

 

         I principi ispiratori di questa ospitalità hanno conosciuto una concreta attuazione proprio nel  monastero di Ghiffa, nel tragico periodo degli ultimi anni della seconda guerra mondiale. Poiché i fatti sono noti, mi limito solo a ricordarli.

         Madre Maria Giuseppina Lavizzari,6 sorella minore della più nota Madre Caterina7, fu priora del monastero di Ghiffa dal 1932 al 1947, anno della sua morte. Visse e soffrì con tutta la comunità e la popolazione di queste zone i momenti terribili dell’occupazione tedesca e della lotta partigiana.

         Madre Giuseppina accolse molte persone  fuggite dai bombardamenti delle città vicine, e diede anche rifugio a gruppi di partigiani, che nascondeva nella legnaia e anche nel pollaio (il che, dati tempi e le circostanze, corrispondeva perfettamente al precetto di Benedetto exhibeatur omnis humanitas,  RB, 53, v. 9).

         Nel settembre del 1943, subito dopo la strage degli ebrei perpetrata a Meina dai nazisti, giunsero a cercare rifugio  al monastero di Ghiffa  Ida Ottolenghi Minerbi con la figlia Maria Luisa e le nipotine Adriana e Renata Torre, che all’epoca avevano 7 e 9 anni. Si trattava dei membri della famiglia ebrea Coen Torre di Milano, sfollata dal capoluogo lombardo sul lago Maggiore a causa dei bombardamenti.

         Madre Giuseppina era ben consapevole dei rischi che quelle presenze comportavano per sé e per la sua comunità, ma non esitò a porsi nel solco della tradizione dell’accoglienza benedettina, che vede nell’ospite, chiunque esso sia, una presenza del divino.

         La circostanza  che le donne fossero ebree era noto in monastero  solo a pochissime persone, ed era ignorato anche dalla sorella incaricata della cura delle bambine, che per non essere messe in imbarazzo al momento della preghiera che accompagna i pasti in refettorio, venivano fatte mangiare in una piccola stanza a parte.

         Le donne rimasero in monastero fino al giugno del 1944, un periodo particolarmente difficile e pericoloso, soprattutto dopo che  in una casa adiacente si fu insediato un comando tedesco. Nel giugno 1944 Madre Giuseppina Lavizzari fu informata che il giorno successivo vi sarebbe stata una perquisizione del monastero da parte dei tedeschi. Nella notte furono fatti i preparativi per la fuga,  e si cercò di cancellare ogni traccia della permanenza delle donne. La famiglia Torre Minerbi trovò allora rifugio a Trarego, ospitati da Anna Bedone e dal marito Giovanni Ferrari8.

         Dopo la guerra la famiglia ebrea  salvata grazie alle suore benedettine di Ghiffa  mantenne sempre contatti affettuosi e riconoscenti con il monastero, e Adriana e Renata Torre vollero segnalare  l’esperienza da loro vissuta all’Istituto per la memoria dei martiri e degli eroi dell’Olocausto Yad Vashem, fondato dal Parlamento israeliano a Gerusalemme, il quale l’ 11 novembre 2003 conferì il riconoscimento di “Giusta fra le Nazioni” alla memoria di Madre Maria Giuseppina Lavizzari, facendo incidere il suo nome sulla stele d’onore del Giardino dei Giusti a Gerusalemme.

         Il  rappresentante dell’Ambasciata d’Israele in Italia venuto a Ghiffa per consegnare  il riconoscimento affermò che chiunque salva una vita salva il mondo.  Noi possiamo riconoscere, assieme a san Benedetto, che “chi si umilia sarà esaltato”, e che il Signore è fedele ed esalta gli umili anche su questa terra.

         Madre Giuseppina, così amante dell’umiltà e del nascondimento, avrebbe detto di non aver compiuto nulla di eccezionale: abituata a trovare nella Regola la linfa spirituale per la sua vita, aveva compreso che non bisognava cercare di fare di san Benedetto un proprio contemporaneo, ma di doversi fare essa stessa sua contemporanea, per cercare con lo stesso amore  Cristo sia nella separazione dal mondo sia nell’accoglierlo sotto le vesti di chi viene dal mondo.

 

Dorino Tuniz

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

1. Regula sancti Benedicti, cap. 53.

2. Regula sancti Benedicti, cap. 66, vv. 4-5.

3. Regula sancti Benedicti, cap. 4, v. 8.

4. Regula sancti Benedicti Cap. 66, vv. 6-7.

5. Sul tema dell’ospitalità e dell’accoglienza/separazione, a. de vogüé, La Regola di san Benedetto. Commento dottrinale e spirituale, Abbazia di Praglia 1984, pp. 358-369.

6. Su Madre Maria Giuseppina (Barbara Maria Vincenza Lavizzari, 1881-1947) e la vicenda dell’ospitalità offerta alla famiglia ebrea Coen Torre si veda: Ricordando Madre Giuseppina Lavizzari, Monastero SS. Trinità di Ghiffa, 2003 (ristampa); Madre M. Giuseppina Lavizzari, ‘Giusta tra le nazioni’,  in “Deus absconditus” 94, n. 4(ottobre-dicembre 2003), pp. 61-71;  I Giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei. 1943-1945, Mondatori 2006, pp. 153-154.

 

7. Su Madre Caterina Lavizzari, Una madre per tutti. Profilo biografico di M. Caterina Lavizzari (1867-1931), Monastero SS. Trinità di Ghiffa, 2004.

8. Su Anna Bedone e Giovanni Ferrari, I Giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei. 1943-1945, Mondatori 2006, pp. 126-128.