Deus absconditus, anno 98, n. 4, Ottobre-Dicembre 2007, pp. 79-94
VISMARA Paola
Il monachesimo femminile benedettino in Italia tra Otto e Novecento
Nella storiografia si sono moltiplicati negli ultimi decenni gli studi dedicati alle nuove congregazioni religiose sorte dopo la fine dell’Ancien Régime e nel corso dell’Ottocento. Mano a mano la ricerca si è estesa anche alle fondazioni novecentesche. In Italia, le fondazioni religiose nuove nel corso del XIX secolo, nonostante le ben note difficoltà, furono circa duecento; nell’assoluta maggioranza dei casi si tratta di congregazioni femminili di vita attiva, molte delle quali nell’area lombarda o comunque nell’Italia settentrionale[1]. L’attenzione maggiore si è rivolta dunque a quelle congregazioni (spesso dette “a superiora generale”) che si concentrano sull’impegno caritativo e su forme di apostolato che, accanto all’educazione religiosa, comprendano la risposta ai problemi sociali: l’istruzione, la formazione professionale dei giovani, la cura dei malati[2]. È un modello originale di vita, adatto alla situazione, ma al tempo stesso inserito nella tradizione della Chiesa, seppur in passato spesso nella versione maschile più che in quella femminile. Di fatto questo orientamento è predominante nel XIX secolo, anche se non esclusivo; predominante a tal punto da rendersi presente anche all’interno del monachesimo.
All’interno della vita monastica stessa non sono dismesse, ma piuttosto potenziate, varie iniziative volte ad un’efficace presenza sociale soprattutto attraverso l’educazione delle fanciulle. Le ragioni ne possono essere varie e diverse, come la nuova sensibilità sociale, il desiderio di fondere la fedeltà al passato con l’apertura al mutamento dei tempi o semplicemente la speranza di rendere più certa la propria sussistenza[3]. Già nell’epoca moderna alcune case monastiche si erano dedicate, per scelta o per necessità, all’insegnamento, il che poteva giovare ad evitare la soppressione. Così accade ad esempio per le monache della Visitazione a Milano, unico ordine religioso femminile ivi superstite tra Giuseppe II e Napoleone. Per il primo Ottocento si può citare il caso di Maria Teresa Maruffi, nobile piacentina, ex-monaca nel monastero cassinese di S. Maria della Neve toccato dalla generale soppressione napoleonica del 1810. Tra l’altro la Maruffi, secondo inveterate consuetudini, era entrata in monastero ancora bambina: dimostrazione, se mai ve ne fosse bisogno, che la monacazione favorita dalle famiglie non era di per sé foriera di scontentezza e di insofferenza. Al fine di ricostituire un monastero era vincolante, secondo l’espressione del Ministro dell’Interno, “l’obbligo di dedicarsi all’educazione delle fanciulle”[4]. Ciò che era in qualche modo ineludibile fare, poiché l’autorità politica esigeva che le fondazioni avessero di mira il “pubblico bene”, divenne la via per un’esperienza educativa interessante; il pio istituto si trasformò appena possibile in vero e proprio monastero, quello di S. Raimondo (1835), mantenendo la funzione educativa. Come sovente accade nella vita, l’obbligo diviene carisma; si constata in più casi che il compito assunto per il premere degli eventi viene inteso come un’autentica missione e si prolunga oltre la fine dell’emergenza.
Le autorità ecclesiastiche stesse non avevano tardato a rendersi conto che in molti casi questa era una via privilegiata - salvo eccezioni - per garantire la sussistenza degli ordini religiosi. A Modena nel 1803 il vescovo mons. Cortese affida ad un gruppo di ex-monache provenienti da vari monasteri soppressi una nuova “casa d’educazione”. Nello stesso anno il vescovo così scrive all’amministratore della comunità monastica di Fiumalbo: “Il Governo in adesso mira con occhio di protezione quelle unioni di donne, che si dedicano all’educazione delle fanciulle [...]. Sotto questo Governo, fin qui non si vede altra maniera di mantenersi in vita”[5]. Solo la convinzione dell’utilità sociale delle case religiose poteva indurre le autorità a non cancellarne l’esistenza; inoltre ciò consentiva di aggirare i divieti sul reclutamento e di introdurre novizie, per il fatto che l’organico indispensabile al buon funzionamento di una scuola era generalmente superiore a quello esistente. I problemi comunque erano molti, anche perché la tradizionale immagine dell’educandato interno al monastero non rispondeva più alle richieste della società: peraltro la scuola esterna era meno facilmente conciliabile con la clausura. D’altra parte l’esigenza di una presenza evangelizzatrice nella scuola e nell’educazione si faceva sempre più forte, tanto che lo stesso Pio IX, a proposito della Visitazione, asseriva che era opportuno per il bene della Chiesa proseguire in tale attività, pur ritenuta dalle monache non conforme al proprio spirito. In età successiva ci si indirizza piuttosto verso la chiusura degli educandati, come avvenne a Venezia a fine Ottocento su impulso del patriarca Sarto[6]. Divenuto pontefice, egli dichiarò alle Visitandine che il primo dovere delle monache era quello dell’osservanza, da preporsi a qualsivoglia attività determinata dall’intento di rispondere a esigenze altrui, anche se pressanti[7]. Tale evoluzione toccò poi vari altri ordini religiosi, ma non si presentò mai come un fenomeno esclusivo.
Dinamiche analoghe a quelle dell’età napoleonica si presentano a seguito delle leggi eversive post-unitarie, quando il vincolo ad abbandonare i propri monasteri genera anche uno sviluppo delle attività sociali e il potenziamento da parte di alcuni vescovi di quegli istituti femminili che vi si dedicano, anziché delle case monastiche[8]. Le congregazioni di vita attive sono in tale momento favorite, poiché l’appello al diritto di associazione e di proprietà privata permette loro di trovare possibilità di efficace sopravvivenza.
Anche per queste ragioni il monachesimo femminile, compreso quello benedettino, non è salito alla ribalta delle ricerche sulla vita religiosa femminile tra Otto e Novecento. Non intendo proporre un quadro d’insieme esauriente, il che sarebbe evidentemente impossibile, ma piuttosto suggerire una chiave di lettura e segnalare percorsi che possono essere ulteriormente approfonditi e integrati.
La situazione nella quale si trovano gli ordini religiosi tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento è difficilissimo. Le istituzioni che almeno per qualche tempo riuscirono a sopravvivere furono costrette ad accogliere monache di altri istituti e furono assoggettate a contribuzioni ingenti. È più facile contare le sopravvivenze piuttosto che le soppressioni; gli edifici furono spesso requisiti, riutilizzati, danneggiati, le monache, di conseguenza, disperse. Nei monasteri ancora sussistenti, soprattutto nello Stato pontificio, confluirono monache che giungevano dalla Francia per sfuggire alle persecuzioni[9], in un quadro europeo segnato da grandissime difficoltà ovunque. È “una storia di devastazioni e di lacrime, ma anche di fede e di coraggio”[10].
Si prenda il caso delle Cistercensi riformate, trappiste. Ben note sono le vicende della Trappa maschile nell’età della rivoluzione. La crisi diede vita a un rinnovamento, soprattutto attraverso l’opera di dom Augustin de Lestrange; le traversie dolorose che obbligarono a continui spostamenti non incisero negativamente sulla prosecuzione dell’esperienza monastica, anzi ne favorirono l’espansione in altri paesi. Alcune religiose francesi si trasferirono anch’esse in Svizzera, sotto la guida di Lestrange; nel 1798 furono obbligate ad allontanarsi, rifugiandosi in Inghilterra e nell’Europa centro-orientale (giunsero sino in Russia). Ritrovate condizioni migliori, nell’Ottocento la congregazione ebbe un considerevole sviluppo e rinnovamento.
Si può ravvisare nell’età rivoluzionario-napoleonica “la più radicale rottura e il più drammatico banco di prova a cui fu sottoposta la vita religiosa nell’età moderna”[11], provocando conseguenze importanti anche sulle modalità di ripristino, influenzate da condizioni giuridiche nuove, dalla necessità di compromessi con gli Stati, dalle alterazioni avvenute, dalla scarsità dei “soggetti” rispetto all’elevato numero di istituzioni preesistenti. Inoltre, se l’abito e la regola erano i medesimi, nei monasteri di monache spesso si avvertiva una certa carenza identitaria[12]; sembrava diminuita “una chiara coscienza dell’essere e dell’agire dell’elemento monastico in seno alla società ecclesiale”[13]. Questo tanto più da quando gli Stati e le più considerevoli correnti di pensiero avevano in qualche modo rivendicato a sé il diritto di stabilire condizioni e modalità della sussistenza degli istituti religiosi, ma anche delle loro funzioni, il che significa in ultima analisi della loro identità, in cui gli aspetti spirituali avrebbero dovuto cedere a quelli sociali, o quanto meno subordinarsi ad essi.
Con la Restaurazione, in Italia come in tutta Europa, nel quadro di un monachesimo quasi totalmente scomparso i problemi che si pongono sono molteplici. In parte essi sono relativi agli edifici, di cui sovente o non si fece restituzione o si fece in condizioni assai più che disagevoli: case in pessimo stato, prive di mobilio, sostanzialmente inabitabili. Ma almeno una parte della élite sociale, rimasta fedele alla Chiesa, si impegnò in sovvenzioni anche ingenti, al fine soprattutto di garantire la riacquisizione degli edifici. Le difficoltà peraltro riguardarono anche le persone (le monache sopravvissute erano ormai perlopiù anziane) e la mentalità (tolte dal chiostro, dopo anni trascorsi nelle famiglie di origine o presso amici, alcune di esse tendevano a respingere la clausura). Gravi furono dunque gli ostacoli che le case religiose soppresse incontrarono per il loro ripristino: ai problemi economici e materiali determinati dalle spoliazioni subite se ne aggiungevano altri, più sostanziali, provocati dalla lunga interruzione della vita comune e da difficoltà interne inerenti la stessa vita religiosa. Si crearono così situazioni di disagio. Quando, ad esempio, il parroco di Brescello si fece promotore del progetto di ripristino della vita monastica, varie ex-monache benedettine presero le distanze, per ragioni contrapposte. Da un lato vi era chi aspirava a mantenere la propria posizione di ex-monache, che, con una pensione, vivevano nel mondo; e chi al contrario poneva come condizione la “vera osservanza e perfetta vita comune”, tutt’altro che realizzata nell’epoca precedente[14].
Il segretario della Congregazione del Concilio e futuro cardinale, Giuseppe Antonio Sala, scrive al vescovo di Cesena F.S. Castiglioni, futuro papa Pio VIII, a proposito del ripristino di un antico monastero e dell’eventuale creazione di uno nuovo:
lo trovo plausibilissimo il progetto di formarne uno di clausura e un secondo aperto, mentre nel primo potranno ammettersi tutte quelle religiose, anche di diversi istituti, le quali avendo conservato lo spirito della loro vocazione, siano disposte a vivere in pace, e a formare una sola comunità, e nel secondo si darà un asilo alle rimanenti che conviene ad ogni titolo allontanare dalla dissipazione, e dai pericoli del secolo. Potrebbero forse ancor queste rendersi utili, coll'aprire una scuola per l'istruzione delle fanciulle e ritenere anche delle ragazze in educandato[15].
D’altra parte a Cesena le monache benedettine, desiderose di tornare alla loro forma di vita, insistevano presso il vescovo perché si agisse in tempi brevi e segnalavano che monache di altri istituti, la cui ricostituzione appariva impossibile, sembravano disposte ad adattarsi alla regola benedettina. Si giunse così infine alla ripresa della vita monastica benedettina che, pur attraverso ripetute traversie e mutamenti di sede, persiste ancor oggi a Cesena. Analoghe problematiche toccano in epoca successiva, nella stessa area, le benedettine camaldolesi di Faenza; l’autorità locale chiedeva la requisizione dell’edificio ad uso caserma, sollecitando il governo a non anteporre “all’interesse del paese il comodo di poche donne religiose nemiche del governo stesso, riottose alla legge ed inutili per lo meno alla società”. Nonostante la requisizione del monastero e la chiusura al culto della chiesa, la vita continuava: tanto “inutile” da consentire non solo di proseguire nell’aristocratico educandato, ove insegnò anche il canonico Lanzoni, ma anche di aprire un asilo ed una scuola di lavoro[16].
La vita religiosa femminile, a differenza di quella maschile, in epoca moderna era stata, per forza di cose, nella quasi totalità di natura monastica. Non estranea alle difficoltà dei monasteri, ma più radicale, è l’esigenza di percorrere altre vie. Le nuove congregazioni di vita attiva avevano avuto in Francia il predominio numerico sin dagli anni Trenta dell’800; il fenomeno della preponderanza in Italia si avverte più tardi, dopo il 1860-70[17]. Ma senza dubbio da tempo la sensibilità delle fondatrici si era indirizzata in quel senso, dalla Canossa alla Naudet, dalla Verzeri alla Cerioli.
Restava aperto il problema di un ripensamento e approfondimento dell’esperienza monastica, che non si limitava alla constatazione della necessità di una maggiore osservanza, immediatamente percepita a livello ecclesiastico[18]. Le due cose peraltro non sono slegate, come talora appaiono ad alcuni storici poco sensibili alle tematiche istituzionali e agli aspetti giuridici, considerati solo come impositivi. Una (falsa) contrapposizione tra carisma e istituzione è stata proclamata in tempi recenti anche in esperienze contemplative femminili, seppur di un genere monastico non tradizionale. È il caso della “Comunità brasiliana”, con due sedi, a Roma e Assisi, che sostiene: “Laicità e liberazione della donna sono elementi intrinseci all’esperienza monastica nei momenti fiorenti del suo sorgere, quando lo Spirito non è ancora imprigionato dalle codificazioni ufficiali”[19].
Le fondazioni monastiche femminili nel primo Ottocento furono dunque rare; la Santa Sede stessa non vi appariva particolarmente incline. Fanno eccezione, ad esempio, le Adoratrici perpetue del Ss.mo Sacramento, fondate a Roma nel 1807 e approvate negli anni successivi[20].
La “purificazione” delle fondazioni preesistenti involontariamente causata da quanti, pensatori e governanti, osteggiavano gli ordini religiosi in specie contemplativi non fu né scontata né totale. Ben noto è il caso di Enrichetta Caracciolo, monaca benedettina in S. Gregorio Armeno a Napoli, che abbandonò la vita monastica in concomitanza con la fine del dominio borbonico e qualche anno dopo diede alle stampe un polemico e virulento libello sulla propria vicenda di “monaca a forza”[21]. Quel monastero napoletano non costituiva né la norma né un’eccezione. In alcuni monasteri infatti, soprattutto al Sud, la vita era stata ripresa senza slanci, mantenendo le consuetudini - e gli abusi - dell’epoca precedente[22]. Ma in quegli stessi anni nasceva a Napoli Leonilda Gomez d’Arza (una Caracciolo d’Avellino per parte di madre), che rifiutò di entrare, come per tradizione familiare, in un Conservatorio di nobili religiose ove lo stile di vita era molto largo, e fu invece la fondatrice delle Benedettine di Santa Gertrude.
Nell’Ottocento, all’interno di un processo dinamico, si attua in molte nuove fondazioni l’intento di ritornare alle origini della tradizione benedettina e di ri-vivificarne lo spirito. Tale è la volontà, ad esempio, di Thérèse de Bavoz: ex-monaca, evitato il patibolo per la caduta di Robespierre, condusse una vita monastica precaria, ma appena possibile, nel 1813, costituì le Benedettine del Purissimo Cuore di Maria. Il ritorno alle origini non si configura come mera ripetizione di un modello del passato. Le nuove fondazioni che si richiamano alla regola benedettina tra Otto e Novecento non sempre sono monastiche. Molte di esse hanno la caratteristica dell’apostolato, con maggiore o minore accentuazione. La regola benedettina viene adottata in quanto consente un perfetto equilibrio tra impegno e contemplazione; il primato della preghiera evita un attivismo fine a se stesso. Di una certa imponenza è l’espansione delle suore benedettine, precedentemente assai poco diffuse. In tale contesto si situano istituti abbastanza diversificati, dalle Adoratrici alle Missionarie. Ad esempio, vi sono le Olivetane benedettine, una congregazione religiosa di diritto pontificio dedita all’assistenza ai bambini, all’educazione dei giovani, alla cura dei malati, all’attività missionaria: un’esperienza benedettina che nasce in Svizzera negli anni trenta dell’800 e dopo varie traversie alla fine del secolo si lega agli olivetani[23].
Lo sviluppo prosegue nel ’900; vi sono molti istituti, la maggior parte dei quali ha sede in paesi extra-europei. È un fenomeno riscontrabile anche in Italia. Come nel caso delle già menzionate benedettine di S. Gertrude, fondate a Napoli nel 1911, istituti di suore benedettine furono stabiliti in Italia, seppur in modo abbastanza marginale; infatti nell’area italiana si constata una netta prevalenza dei monasteri rispetto agli istituti di suore benedettine[24]. Il fenomeno è di particolare importanza negli USA, ma si sviluppa anche in Africa, in Asia, in America meridionale. Talora lo scopo è essenzialmente quello di portare l’esperienza monastica in paesi non cristianizzati. Può accadere, seppur raramente, che una congregazione benedettina femminile nasca direttamente in terra di missione, come nel caso delle Benedettine di S. Agnese (Tanzania). La “missionarietà” non è intesa solo nel senso di attività in paese di missione, ma come capacità di generare una vita cristiana.
A un certo momento si pose la questione delle condizioni alle quali l’attributo di “benedettine” fosse applicabile a tali istituti, poiché la distinzione tra monache e suore non sempre è perspicua: un problema che nell’ambito italiano fu affrontato negli anni Trenta del Novecento. Vi sono anche congregazioni all’interno delle quali convivono l’esperienza monastica, quella conventuale e quella oblata, come nel caso delle Benedettine olivetane[25]. A ciò si aggiunge una possibile evoluzione nel tempo. Le benedettine olivetane di Igoville dopo quarant’anni dalla fondazione chiesero di emettere voto di clausura e modificarono il loro orientamento. Interessante è il fatto che in alcuni casi da un apostolato attivo si ritorni a forme più monastiche di vita consacrata[26].
Nell’età contemporanea, date le nuove condizioni della vita monastica, si assiste alla diffusione della clausura papale minor, che consente di dedicarsi ad opere di apostolato come l’insegnamento, o di quella episcopale, molto meno rigide della clausura vera e propria. Anche in questo campo il pontefice Pio XII appare lontano dai clichés che lo rappresentano come un esasperato conservatore. Egli parla di “moderato aggiornamento” e rileva la necessità di mitigazione in relazione ad una società profondamente in via di continua trasformazione: mutata nelle sue caratteristiche, che rendono più sicure le case monastiche; nella sua mentalità, che respinge l’estrema rigidità di un tempo. Ma anche la situazione stessa della Chiesa è mutata, e un contributo di apostolato diviene importante. La necessità della c.d. clausura papale maior è ribadita nella Sponsa Christi del 1950 solo per le comunità a vita totalmente contemplativa[27]. Paolo VI sostituisce poi la clausura minor con la “clausura costituzionale”, i cui confini sono stabiliti nelle costituzioni, ed è dunque specifica e propria per ogni istituzione.
L’autorità ecclesiastica centrale, data l’elevatissima frammentarietà di monasteri e conventi di benedettine, suggerì l’unione delle case femminili alle congregazioni maschili, oppure l’istituzione di congregazioni femminili legate comunque all’ordine[28]. Una costituzione e un breve di Pio XII propugnano il legame federativo, allo scopo dell’aiuto reciproco e della promozione della regolare osservanza. Ciò doveva giovare sia ad evitare un’eccessiva frammentazione sia, e forse soprattutto, a eludere il rischio di un depotenziamento del carattere benedettino delle varie fondazioni. L’insistenza sugli organi di aiuto e coordinamento tra monasteri è continuamente sottolineata (ad es. nella Verbi Sponsa del 1999). Si chiede anche che le monache provvedano al proprio sostentamento attraverso il lavoro – seppur come è ovvio un lavoro compatibile con la clausura.
Le attività svolte in ambito monastico femminile spaziano dall’insegnamento all’attività tipografica, dall’ecumenismo alla comunicazione di spiritualità (attraverso ritiri spirituali ecc).
Un caso interessante è quello delle Benedettine di Sainte Bathilde, fondate da Gabrielle Richard e da Marguerite Waddington Delmas. Quest’ultima, di confessione protestante come il marito, si convertì al cattolicesimo dopo la morte del coniuge. L’impulso alla nuova fondazione (1921) venne da dom Besse, fondatore della “Revue Mabillon” e benedettino di Ligugé, un monastero nel quale la musica e la liturgia erano oggetto di grande cura. La congregazione monastica fu caratterizzata, oltre che da una notevole capacità di espansione in Africa ed estremo Oriente, soprattutto da un’apertura all’arte, alla liturgia, ai contatti ecumenici.
Nell’ambito femminile la preghiera e le letture bibliche giovano ad incentivare sempre più l’approfondimento liturgico e cultuale. Si può menzionare qualche esempio. Le Benedettine di Ermeton sur Biert, che hanno come prima professa e superiora Benedicte Bayart, sono fondate negli anni Venti da dom Vandeur del monastero di Maredsous: un monastero ben noto per le sue attività culturali e in particolare per l’impulso dato agli studi e all’apostolato in materia di liturgia. Nella nuova fondazione l’attività di apostolato presso le donne, per la ricristianizzazione della famiglia dopo la tempesta della prima guerra mondiale, è collaterale rispetto all’elemento dominante: la celebrazione del mistero eucaristico come fonte della vita contemplativa. Ne discende anche l’apostolato liturgico, al fine di non conservare per sé questo dono, ma comunicarlo, restituendo ai fedeli il gusto della vita liturgica.
Il benedettino belga Constantinus Bosschaerts si impegna in tale apostolato; tra le sue molte iniziative, aveva fondato il monastero femminile di Schotenhof, che successivamente si unì agli olivetani negli anni venti del ’900 (qui si trasferirono anche le monache di Eccleshall, provenienti dall’originario monastero di Igoville) e si diffuse dal Belgio in Francia, Inghilterra e Italia. Un altro elemento da sottolineare per la comprensione delle dinamiche del monachesimo femminile benedettino è questo: il fondatore, figura importante dell’Opera per l’Unione delle Chiese voluta da Pio XI, sviluppa una sensibilità ecumenica, che influenza considerevolmente la fondazione. L’adozione del rito bizantino-slavo per l’ufficio quotidiano è soltanto un segnale di un modo di intendere la vita monastica al servizio dell’unità della Chiesa, in rapporto con gli orientamenti pontifici.
Quello dell’ecumenismo è un aspetto fondamentale, che merita di essere sottolineato, particolarmente sviluppato nel monachesimo femminile benedettino; nota è la centralità di questo tema in molto monachesimo maschile dell’epoca, soprattutto in Francia, ma non solo. Quando, soprattutto ad opera del gesuita Couturier, si diffonde negli anni trenta del Novecento la pratica della settimana per l’unità dei cristiani, essa trova grande rispondenza nel monachesimo femminile benedettino. Ben noto è il caso della trappista Maria Gabriella Sagheddu, morta giovane, nel 1939, dopo aver offerto la propria esistenza a tale scopo. Ma non è che la punta di un iceberg, anche se la sensibilità ecumenica non sempre si afferma senza contrasti. Le stesse iniziative in tale direzione della superiora di Grottaferrata, Pia Gullini, furono accolte con qualche sconcerto. Tale diffidenza aveva le sue radici in esperienze precedenti, come quella delle Eremite francescane di Campello sul Clitumno, le cui aperture ecumeniche, dati i rapporti instaurati con Buonaiuti, avevano fatto nascere il sospetto di modernismo, in un momento difficile per la Chiesa. La beatificazione della Sagheddu nel 1983 è il sigillo definitivo apposto alla bontà della tensione ecumenica, che tuttavia non deve sfociare - soprattutto in riferimento a certe esperienze di Assisi, con la presenza anche di appartenenti a comunità monastiche - , in ciò che sembra essere un’equiparazione delle confessioni e delle religioni, in ultima analisi una rinuncia alla proclamazione della verità.
Maria Gabriella Sagheddu invece incarna un ideale di perfezione personale che, dal chiuso del monastero, partecipa al corpo mistico della Chiesa e si comunica all’intera umanità attraverso la preghiera di espiazione e di riparazione. Ci si riconnetteva così ad antiche tradizioni, dal momento che lo spirito di oblazione e riparazione ha il suo fondamento nella volontà di “prendere su di sé con Cristo una parte del peccato del mondo”, come è stato scritto a proposito di Mère Mectilde[29]. Il voto di ostia o di vittima non è che, come scriveva in quell’epoca Jean-Jacques Olier, “il voto di vivere unicamente per Dio, attendendo il tempo e l’occasione di sacrificarmi a lui per il bene della sua Chiesa”[30]. La centratura cristologica non è dunque assente nei secoli dell’epoca moderna, nonostante la storiografia anche cattolica sovente sembri dimenticarlo. In Catherine Mectilde de Bar, il culto e la devozione ai santi proprio in tale contesto assumono il loro pieno significato[31].
Quanto alla liturgia, cui già si è accennato, si constata che nei monasteri femminili essa è fattore essenziale nella vita della comunità, e di conseguenza particolarmente curata. Ma questo si riverbera anche al di fuori, per la partecipazione dei fedeli alle varie celebrazioni nelle chiese esterne. Vi si aggiunga poi la funzione più specifica e riconosciuta che in ciò i monasteri possono assumere. Ad esempio in S. Raimondo di Piacenza il servizio liturgico si attua dal 1971 in accordo con l’Ufficio Liturgico diocesano; la diocesi affida al monastero il compito di svolgere i riti in modo esemplare e di formare i fedeli alla comprensione e corretta partecipazione alla liturgia. A tal fine è stato fondato un Centro Liturgico San Raimondo, per svolgere una vera e propria ‘scuola di liturgia’ al servizio delle parrocchie[32]. L’attenzione allo svolgimento ottimale del culto ha condotto vari monasteri di monache a porre cura particolare nel canto, soprattutto gregoriano, come d’altronde è accaduto nel monachesimo maschile. Nell’ambito femminile comunque ciò avviene più tardi; si ricordi che Pio X ancora nel 1903 (Motu proprio Inter pastoralis officii) affermava che le donne – comprese le religiose – non potevano essere ammesse a far parte del coro o della cappella musicale[33]. Nel 1917 il Codex iuris canonici stabiliva che, se le Costituzioni lo prevedevano, le religiose potevano cantare in chiesa, ma solo a condizione di non essere viste da alcuno[34].
Ritornando agli sviluppi della vita monastica nell’età contemporanea, si può notare una ripresa e un approfondimento della vita spirituale attestata dall’elevato numero di figure notevoli, anche se spesso senza ufficiale riconoscimento ecclesiastico di “santità”. Fatto molto significativo è il moltiplicarsi delle fondazioni[35]: Ronco di Ghiffa, Viboldone, Isola S. Giulio, Vitorchiano, Valserena... tutti nomi che molte cose evocano anche a chi abbia minor dimestichezza con il monachesimo femminile benedettino.
Faccio qui solo un brevissimo cenno alle ben note vicende dell’Istituto delle Benedettine dell’Adorazione perpetua del SS.mo Sacramento, fondate in Francia da Catherine de Bar - Mectilde du Saint Sacrement. Madre Lamar negli anni Ottanta giunge dalla Francia ed attua una fondazione a Seregno[36]. Di qui discende il crearsi di una comunità a Milano, che diviene poi autonoma; le monache di Seregno invece si trasferiscono a Ronco di Ghiffa nel 1906. La vivacità e l’intensità della vita spirituale sono attestate anche dal forte dinamismo. Si veda il caso di Catania, ove alcune si recano per ricostituire la vita religiosa in un monastero la cui descrizione evoca le situazioni dei tempi peggiori; si ha qui la creazione di un nuovo monastero, cui ne seguiranno parecchi altri, soprattutto al Sud. Anche il monastero di Milano sarà all’origine di altri monasteri.
Per quanto riguarda la diffusione generata dalle diaspore (dopo quelle post-rivoluzionarie, vi sono quelle determinate in Francia dalla legge del 1901), essa non tocca solo, come nel caso della Trappa sopra citato, paesi lontani. Nel 1875 fu fondata a San Vito, nei dintorni di Torino, la prima Trappa femminile in Italia: una casa destinata ad attraversare molteplici difficoltà. La fondazione ebbe luogo ad opera di alcune trappiste francesi, tra cui Thérèse Astoin, prima superiora. Verso la fine del secolo fu imposto il trasferimento a Grottaferrata; la vitalità del monastero rese necessario negli anni cinquanta lo spostamento a Vitorchiano, da cui una decina d’anni dopo, per sovrabbondanza di vocazioni, nasceva la comunità di Valserena. Vi è anche una diffusione in terre lontane: Argentina, Cile, Indonesia, Filippine, Angola...
Vi è anche il caso del ramo femminile dei certosini. Tra medioevo ed epoca moderna le monache certosine erano poco numerose, e presenti sostanzialmente solo in Francia: così ancora nel corso dell’Ottocento. La maggior parte delle monache certosine fu costretta a lasciare la Francia agli inizi del XX secolo; ne conseguì la fondazione di una casa in Belgio e di due case in Italia, una a Riva di Pinerolo e l’altra a Giaveno. Tale incontro tra persone di diversa provenienza geografica e culturale oltre a tutto si è rivelato particolarmente proficuo. Si creava così una presenza certosina femminile in Italia, non superficiale, né solo condizionata da fattori esterni, tanto che successivamente si ebbe un’ulteriore nuova fondazione (Vedana 1978). Quest’ultima comunità nasce in particolare dal desiderio delle religiose di attenersi il più possibile, come i monaci, alle caratteristiche essenziali del monachesimo certosino, attraverso una vita quasi eremitica[37]. Non si è di fronte qui a un’espansione numericamente importante e la presenza nell’orizzonte del monachesimo benedettino femminile in Italia resta limitata. Si tratta comunque di un segnale interessante, poiché mostra che la possibilità di una pur piccola espansione si lega non ad un adeguamento alla “modernità”, ma piuttosto ad un recupero del propositum originario.
Tutto questo avviene in un contesto che, tra Otto e Novecento, non è privo di problemi. In Italia le vicende risorgimentali, le leggi eversive, le soppressioni, avevano toccato in modo molto pesante le case monastiche. Spesso monasteri già soppressi alla fine dell’Antico regime e riaperti nell’epoca della Restaurazione furono nuovamente soppressi nel 1866[38] e infine ulteriormente ripristinati. Queste continue interruzioni non facilitarono evidentemente lo stato delle istituzioni, che talora ne soffrirono anche sotto il profilo numerico[39]. Accadde talora che attraverso espedienti vari le monache pervenissero a continuare la vita comune; ma le difficoltà per l’ingresso di novizie e la persistente sensazione di incertezza e instabilità svolsero un ruolo pesantemente negativo. Al momento del ripristino, agli inizi del secolo scorso, non mancarono problemi di varia natura, relativi soprattutto alla regolarità della vita comune. La ripresa fu molto faticosa. La Congregazione per i religiosi era ben conscia delle difficoltà, che investivano analogamente anche il monachesimo maschile.
Nel 1938 l’abate Caronti fu incaricato della visita apostolica ai monasteri italiani: un compito inevitabilmente rallentato e procrastinato dagli eventi bellici, tanto che il progetto di risistemazione del monachesimo femminile fu pronto solo dieci anni dopo, nel 1948. La situazione appare segnata da una certa povertà materiale, ma anche culturale, in relazione al tipo di “reclutamento”; in particolare, erano rilevate in modo negativo la mancata approvazione delle Regole e la tendenza a disattendere le norme del Codex, in vigore ormai da decenni. Gli elementi problematici, segnalati dall’abate di Praglia Gerardo Fornaroli al congresso degli abati del 1947, erano da identificarsi nell’esistenza di comunità monastiche piccolissime, nel modesto livello culturale, nella scarsità di persone preparate agli uffici di badessa e maestra delle novizie, nella eccessiva dipendenza dagli ordinari diocesani. Quest’ultimo aspetto, cioè la mancanza di collegamento con l’ordine, arrecava come conseguenza un riferimento talora più nominale che reale alla regola benedettina, della quale si rischiava di snaturare lo spirito[40]. L’opera dei padri Fornaroli e Caronti contribuì notevolmente a rendere la Santa Sede edotta dei problemi. Pio XII, come si è detto, emanò nel 1950 la costituzione apostolica Sponsa Christi; seguì nel 1952 da parte della Santa Sede l’approvazione della Lex propria della Confederazione; vi si stabilivano i principi conformemente ai quali i vari monasteri di benedettine potevano essere aggregati alla Confederazione. Nel 1959 poi il Congresso degli abati formalizzò dettagliatamente le condizioni, stabilendo alcuni indispensabili requisiti.
La soluzione dei problemi veniva indicata nell’approvazione di nuove costituzioni per i monasteri e nella creazione di strutture federative tra monasteri. Non si trattava di una novità assoluta, ma piuttosto della valorizzazione di un’esperienza in corso. Era stata attuata dalle benedettine dell’Adorazione perpetua del SS.mo sacramento, che formavano due federazioni, legate l’una al monastero di Milano, l’altra a quello di Ronco di Ghiffa. Ma in molti monasteri il provvedimento, in qualche modo imposto dall’alto, si scontrò al momento con varie resistenze e difficoltà.
È importante anche sottolineare il ruolo degli ordinari: nuove fondazioni o rivitalizzazione di antichi monasteri spesso sono dovute alla volontà dei vescovi. Un caso particolare è quello dell’arcivescovo Schuster, egli stesso monaco benedettino, che già dall’epoca nella quale era abate a S. Paolo fuori le mura aveva dato un forte contributo al potenziamento del monachesimo femminile. Intensi sono i suoi rapporti con Viboldone, un monastero alla periferia di Milano, dedito alla preghiera e al lavoro per il sostentamento (anche a questo secondo aspetto Schuster teneva, quasi presentendo le difficoltà successive). Dopo i bombardamenti del 1943 il monastero fu dall’arcivescovo deputato ad essere il luogo “dell’adorazione continua, in spirito e verità”, dovendo le monache “supplire col loro coro quotidiano alla nostra interrotta ufficiatura” [41].
L’epoca del post-concilio impose un ulteriore ripensamento, segnato da convegni nazionali di abbadesse, il primo dei quali indicava la necessità di un ritorno ad fontes, allo spirito autentico ed originario dell’esperienza monastica. Ma non fu trascurato l’aspetto culturale, le cui carenze qualche decennio prima avevano colpito in modo così negativo gli abati visitatori.
Nonostante ciò, un esame dei numeri, in base alle statistiche, mostra che la fase maggiore di declino per l’esperienza monastica femminile è quella successiva al Vaticano II, anche se i sintomi ne sono avvertibili già negli anni precedenti. Tale fenomeno si lega a diversi elementi: alla scomparsa dell’idea - che ancora permaneva in alcune situazioni - del monastero come soluzione di problemi familiari e come possibilità di ascesa sociale; alla fase di progressiva secolarizzazione; ai mutamenti sociali che inducono la donna a valutare le proprie potenzialità nel mondo del lavoro; ma anche a una certa predilezione, rispetto a quelle tradizionali, per forme nuove di vita religiosa (come gli istituti secolari di vita consacrata, approvati da Pio XII con la Provida Mater Ecclesia del 1947). Esperienze successive apportano ulteriori elementi di novità, come le comunità di vita monastica alle quali partecipano in egual misura uomini e donne (Comunità di Bose, Fraternité monastique de Jérusalem, Communauté St. Jean…). Alcune di esse, richiamandosi al monachesimo delle origini, non escludono dai propri riferimenti San Benedetto, talora ne assumono esplicitamente la regola (come la Fraternité des Soeurs Bénédictes).
Ciò comporta un invecchiamento della popolazione monastica vera e propria, ancora evidente in alcuni casi, mentre in altri gradatamente nell’ultimo ventennio si sono verificate la ripresa degli ingressi (come pure in alcune comunità monastiche maschili), nuove aggregazioni e la creazione di legami più solidi e stabili.
Una novità è relativa alla concezione della clausura, non più intesa come rinchiudimento, le cui ragioni erano connesse alla concezione della donna in una certa epoca, ma collegata all’elaborazione di una teologia della vita monastica. Le Visitandine, pur sempre tenacemente fedeli alla loro vocazione monastica, nelle Costituzioni del 1979 negano l’esigenza di un taglio radicale con il mondo e con l’apostolato. Le benedettine chiedevano, in relazione a ciò che appariva loro una certa rigidità della Venite seorsum (1969), che, nel rispetto della specificità originaria, fosse consentito tornare alla pratica dell’ospitalità. Su questo punto peraltro il Codex del 1983 non porta a radicali innovazioni, mantenendo la distinzione tra clausura papale e clausura costituzionale[42]. Tale distinzione viene ripresa e approfondita nella Verbi sponsa (Istruzione sulla vita contemplativa e la clausura delle monache, emanata dalla relativa congregazione, 13 maggio 1999), che propone anche un’approfondita visione teologica.
È evidente la preoccupazione della Chiesa per il pericolo di rivendicazioni di tipo “femminista”, la richiesta ad esempio della totale equiparazione della donna all’uomo nell’esercizio dei ministeri, ivi compreso quello sacerdotale: fenomeni peraltro più evidenti altrove che in Italia. Si tratta di una contrapposizione a posizioni talora eccessivamente svalutative. Ad esempio, negli anni quaranta del XX secolo, l’abate Fornaroli affermava che è difficile formare un giudizio dello stato spirituale e morale delle comunità monastiche femminili sulla base di una semplice visita, dandone così la ragione: “Aspettarsi la verità piena dalla donna sarebbe ingenuo”[43]. A metà tra l’uno e l’altro modo di considerare l’elemento femminile sta l’accettazione della specificità e diversità della donna, senza alcun preconcetto negativo; vi è la riscoperta del significato della figura femminile e delle sue potenzialità. Una peculiarità ad esempio è quella dell’apertura e della capacità di accoglienza, tipica della struttura “materna” della donna. Ciò si manifesta all’interno stesso della vita monastica, che può accogliere persone provenienti dalle esperienze più diverse: tale è il caso di Maria Levi Matteini, di origine ebrea, convertita al cattolicesimo, poi monaca camaldolese, morta nel 1922 in fama di santità[44].
Quella del monachesimo femminile è dunque una storia che non costituisce un mondo a sé, lontano e isolato. Le vicende della società e della Chiesa influiscono su di esso.
Le monache continuano – o ritornano - ad essere, come già tante volte accaduto, maestre di vita spirituale; svolgono attività lavorative rispondenti al loro spirito (più l’artigianato che la scuola, ad esempio) mantenendo la specificità della vita monastica, di quella benedettina in particolare. Le loro attività, talora nuove, mirano a sopperire alle esigenze concrete dell’esistenza, ma attestano anche la fedeltà allo spirito delle origini.
Senza dubbio positiva è la capacità di apertura al mondo; ma, al fondo, l’attrazione maggiore che ancor oggi la vita monastica può esercitare si lega alla sostanza del suo spirito, che Schuster così esprimeva: “Un monastero secondo lo spirito di S. Benedetto altro non è se non una scuola del divino servizio, una casa di Dio che deve essere retta con sapienza da anime sapienti, una scala eretta al cielo, per la quale gli angeli, ossia le anime religiose, nell’orazione si elevano di giorno in giorno a Dio con un perpetuo ascendere”. “In questi tempi la Chiesa santa di Dio ha il più grande bisogno di cori di adoratori che adorino il Padre in spirito e verità. [...] Siate come quella città dell’Evangelo posta sul monte, a tutti visibile e luminosa”[45]. Nel 1962 Montini, benedicendo la pietra di fondazione della nuova casa di Viboldone richiamava, nella fedeltà a una storia, la necessità di “fare ponte” tra il mondo e l’oasi di preghiera[46], con un valore profetico, seppur lontano da ogni radicalismo.
Dunque, una fedeltà alla tradizione unita ad una capacità di rinnovare continuamente. Anche qui ritorno a citare l’arcivescovo Schuster, che suggeriva prudenza e moderazione nelle regole relative al vitto e al sonno, un “adattamento” alle consuetudini del tempo, se si vuole; ma mantenendo fermo il punto essenziale, cioè “controbattere l’eresia dell’azione sull’adorazione”[47]. La capacità di resistere ad un’eccessiva invasione della preoccupazione sociale si sostiene e si attua nella preghiera e nella contemplazione. “È la scoperta del Verticale, dell’Assoluto di Dio, che dà senso e urgenza efficace all’apertura orizzontale ai problemi del mondo. V’è qui un richiamo, prezioso oggi più che mai, contro la facile tentazione di un orizzontalismo cristiano che prescinda dalla ricerca del Vertice”[48]: così si è espresso Giovanni Paolo II in occasione della beatificazione della Sagheddu.
Nonostante il complessivo ridimensionamento numerico rispetto al passato, le monache sono chiamate a svolgere una funzione essenziale: e cioè il richiamo alla sostanza profonda della vita cristiana, senza la quale le attività sociali perdono il loro autentico fondamento. Non a caso già Paolo VI nel 1971 esortava religiosi e religiose ad essere fedeli allo spirito dei loro fondatori: in questo egli identificava un principio essenziale non di conservazione, bensì di rinnovamento, e un sicuro criterio per procedere nel proprio cammino[49]. Un cammino nel quale, come sottolineava con grande intensità spirituale don Divo Barsotti in un convegno tenuto nel 1980[50], l’impegno che precede qualsiasi appartenenza e ne costituisce il fondamento è quello di essere cristiani, di realizzare la propria vocazione cristiana.
[1] M. Taccolini, L’altro movimento cattolico: le congregazioni religiose tra Otto e Novecento, in Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica, a cura di C. Mozzarelli, Roma 2003, pp. 309-329.
[2] Vedi ad es. C. Langlois, Le catholicisme au féminin. Les congrégations françaises à supérieure générale au XIX siècle, Paris 1984.
[3] Cfr. il caso di Modena: G. Orlandi, I religiosi nella diocesi di Modena tra ’700 e ’800, in Severino Fabriani nel centenario della nascita: il suo tempo e l’educazione dei sordomuti, Modena 1994, pp. 19-174 (pp. 113ss).
[4] Madre M. Teresa Maruffi (1780-1855): un carisma claustrale a servizio dell’educazione, Piacenza 2000, p. 4.
[5] Orlandi, I religiosi nella diocesi di Modena tra ’700 e ’800, cit., p. 113s.
[6] G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma 1992, pp. 118 e 159.
[7] Communis vobiscum laetitiae, 13 dicembre 1909.
[8] Così dopo il 1870 il card Sisto Riario Sforza, arcivescovo di Napoli: M. Miele, Sisto Riario Sforza e gli ordini religiosi a Napoli, in “Campania sacra” 29 (1998), pp. 79-114 (pp. 95ss). Ma la grande apertura innovativa sarà frenata dalla Santa Sede.
[9] Alcuni monasteri femminili offrivano invece contribuzioni economiche per il loro sostentamento.
[10] G.L. Masetti Zannini, Soppressioni e sopravvivenza di benedettine in Romagna, in Il monachesimo italiano dalle riforme illuministiche all’Unità nazionale (1769-1870), a cura di F.G.B. Trolese, Cesena 1992, pp. 77-117 (p. 77).
[11] C. Fantappié, Soppressione e ripristino dei monasteri benedettini in Toscana fra Sette e Ottocento, in Il monachesimo italiano , cit., pp. 119-147 (p. 136).
[12] Per la fine ’700-inizi ’800, ad es.: G. Lunardi, Le monache benedettine nelle Marche, in Aspetti e problemi del monachesimo nelle Marche, Fabriano 1982, pp. 305-325 (p. 318s.: “Nelle monache benedettine non si riesce quasi più ad individuare la spiritualità tipicamente benedettina, assorbite, come erano, da influssi diversi, specialmente di ordini religiosi come i carmelitani e francescani”).
[13] G. Penco, Storia del monachesimo in Italia in età moderna, vol. II, Roma 1968, p. 390.
[14] Orlandi, I religiosi nella diocesi di Modena, p. 107s.
[15] Masetti Zannini, Soppressioni e sopravvivenza, cit., p. 102.
[16] G.L. Masetti Zannini, Le benedettine in Romagna dalle soppressioni al Vaticano II, in Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II, a cura di F.G.B. Trolese, Cesena 1995, pp. 307-329 (pp. 309ss.).
[17] Rocca, Donne religiose, cit.
[18] Ad es. G.A. Sala, Scritti vari 4/1. Piano di riforma umiliato a Pio VII, nota di M. Pieroni Francini, Roma 1980.
[19] Rocca, Donne religiose, cit., p. 287.
[20] Ivi p. 67.
[21] Miele, Sisto Riario Sforza e gli ordini religiosi a Napoli, cit., p. 97s.
[22] G. Penco, Storia del monachesimo in Italia nell’epoca moderna, Roma 1968, p. 166s.
[23] Sui vari monasteri e istituti, nonché sui fondatori/fondatrici, si può fare riferimento alle rispettive voci nel Dizionario degli Istituti di Perfezione.
[24] M.I. Sutto, I monasteri benedettini femminili in Italia dopo l’età delle soppressioni, in Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II, a cura di F.G.B. Trolese, Cesena 1995, pp. 291-306 (p. 292).
[25] In Italia ve ne sono alcuni monasteri, il più importante dei quali è quello di Palo del Colle.
[26] Alla metà degli anni cinquanta del Novecento si ha, ad esempio, un’evoluzione di tipo monastico presso le Benedettine di Alexanderdorf.
[27] Rocca, Donne religiose, cit., p. 274.
[28] G. Tamburrino, I monasteri italiani e la confederazione benedettina, in Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II, a cura di F.G.B. Trolese, Cesena 1995, pp. 25-41.
[29] G. Guerville, Madre Mectilde e la Bibbia, in Catherine Mectilde de Bar. II. Uno stile di ‘lectio divina’ nel secolo XVII, Roma 1989, pp. 115-117.
[30] M. Dupuy, Il Breviario indirizzato a Madame de Châteauvieux, in C.M. de Bar, Lettere di un’amicizia spirituale 1651-1662, Milano 1999, pp. 13-50 (pp. 40-44). Sul tema della riparazione in suor Luigia Lavizzari: L. Negri, Motivi dell’epistolario di Madre Caterina: temi, toni e registri espressivi, in Deus absconditus. Atti del convegno di spiritualità monastico-eucaristica, Ronco di Ghiffa 1980, pp. 165-180; cfr. B. Baroffio, La dimensione della espiazione e della riparazione nella spiritualità cristiana, ivi pp. 79-87.
[31] G.M. Bertolini, Introduzione generale a C.M. de Bar, Anno liturgico e santità, Milano 2005, pp. 7-29 (soprattutto p. 21). Cfr. C.M. de Bar, L’anno liturgico, Milano 1997.
[32] Madre M. Teresa Maruffi (1780-1855), cit., p. 163s.
[33] Rocca, Donne religiose, cit., pp. 232-239.
[34] Can. 1264: “Religiosae mulieres, si eisdem liceat, ad normam suarum constitutionum vel legum liturgicarum ac de venia Ordinarii loci, in propria ecclesia aut oratorio canere, tali e loco canant, ubi a populo conspici nequeant”.
[35] Sutto, I monasteri benedettini femminili, cit.
[36] G. Zito, Le benedettine dell’Adorazione perpetua in Italia (1880-1960), in Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II, a cura di F.G.B. Trolese, Cesena 1995, pp. 331-371 (pp. 334ss., anche per i legami economici con il monastero di Arras).
[37] G. Leoncini, L’ordine certosino in Italia tra XIX e XX secolo, in Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II, a cura di F.G.B. Trolese, Cesena 1995, pp. 271-289.
[38] Nello Stato di Sardegna leggi analoghe erano state applicate sin dal 1855; a Roma lo furono dopo il 1870. Per una sintetica visione d’insieme degli eventi e dei problemi: G. Rocca, Istituti religiosi in Italia tra Otto e Novecento, in Clero e società nell’Italia contemporanea, a cura di M. Rosa, Roma-Bari 1992, pp. 207-256.
[39] Sutto, I monasteri benedettini femminili, cit.
[40] Tamburrino, I monasteri italiani e la confederazione benedettina, cit., p. 39.
[41] Schuster e le benedettine del monastero di Viboldone. Lettere 1941-1954, Milano 1994, p. 26s. (lettera 1 novembre 1943).
[42] Codex iuris canonici 1983, c. 667, § 2: “Strictior disciplinae clausurae in monasteriis ad vitam contemplativam ordinatis servanda est”; al § 1: “In omnibus domis clausura indoli et missioni instituti accommodata servetur secundum determinationes proprii iuris”.
[43] Sutto, I monasteri benedettini femminili, cit., p. 296.
[44] Masetti Zannini, Le benedettine in Romagna, p. 316.
[45] Lettera 1 settembre 1946. Testo latino e traduzione italiana in Schuster e le benedettine del monastero di Viboldone, cit., pp. 36-39.
[46] Schuster e le benedettine del monastero di Viboldone, cit., p. 18s.
[47] Ivi p. 77.
[48] Giovanni Paolo II, Omelia in occasione della beatificazione della Sagheddu, 25 gennaio 1983 (www.vatican.va).
[49] Esortazione Apostolica Evangelica testificatio, n. 11.
[50] D. Barsotti, La vocazione cristiana, in Deus absconditus. Atti del convegno di spiritualità monastico-eucaristica, Ronco di Ghiffa 1980, pp. 70-78.