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Deus absconditus, anno 98, n. 4, Ottobre-Dicembre 2007, pp. 104-125

 

Don Gaetano ZITO

 

Benedettine a Catania.

Tra soppressione postunitaria e carisma mectildiano

 

 

La presenza a Catania delle prime monache benedettine dell’Adorazione Perpetua del Santissimo Sacramento è datata al 1910. Il loro arrivo risponde all’esigenza avvertita soprattutto dall’arcivescovo Giuseppe Francica Nava di rivitalizzare in città antiche e numerose comunità monastiche benedettine femminili, ormai in via di definitiva estinzione dopo la legge del 7 luglio 1866. Fino a questa data, e dalla ricostituzione delle strutture ecclesiastiche dell’isola in età normanna, la città e la diocesi di Catania si presentano impregnate di monachesimo benedettino maschile e femminile.

Questa relazione mira, dunque, ad esporre brevemente perché e in che modo, nel contesto storico dell’epoca, si innesta il carisma mectildiano; quale situazione trovano le prime due monache che arrivano da Ronco di Ghiffa; come si avvia con loro il nuovo corso del monastero e lo sviluppo del carisma, da Catania in altri centri dell’isola.

 

1. Monasteri femminili a Catania fino alla soppressione

 

Liberata la Sicilia dalla dominazione araba, i normanni procedono alla riorganizzazione ecclesiastica dell’isola con la collaborazione dei monaci benedettini. Alla Chiesa catanese, in particolare, viene data una netta impronta monastica. Il conte Ruggero riunisce nella persona del monaco Ansgerio l’ufficio di abate dell’abbazia di Sant’Agata, di vescovo della diocesi assegnandogli un vasto territorio (dalla costa jonica al centro dell’isola), di signore feudale della città. Ansgerio viene fatto venire appositamente dal monastero calabrese di Sant’Eufemia. Qui si era formato alla scuola dell’abate Roberto di Grandmesnil, arrivato da Saint-Évroult: abbazia normanna, proprietà dei duchi di Normandia, fondata intorno al 1050[1].

Catania assurge a centro del monachesimo benedettino in Sicilia. Dall’abbazia di Sant’Agata, progressivamente, per desiderio di osservanza monastica, alcuni monaci danno vita ad altri monasteri alle pendici dell’Etna, fino ad aversi 6 comunità maschili. La sede abbaziale si trasferisce prima a Santa Maria di Licodia e, dalla metà del sec. XVI, torna in città in San Nicola l’Arena. È qui che viene a risiedere l’abate ed è questa comunità che determina ora le sorti del monachesimo benedettino a Catania e nel territorio etneo, fino alla soppressione del 1866[2].

Fondate più tardi rispetto a quelle maschili, al contrario di queste, le comunità benedettine femminili nella diocesi di Catania hanno una storia che, al contrario di quelle maschili, non ha mai subito soluzione di continuità fino al presente, riuscendo a passare indenni anche alla legge di soppressione del 1866. Per meglio intendere la consistenza della loro presenza, è opportuno tenere in conto l’estensione territoriale della diocesi dalla rifondazione normanna. Insieme a quello attuale, Ruggero le aveva assegnato gran parte del territorio attribuito a diocesi istituite nei primi decenni dell’Ottocento. In particolare, Caltagirone, Piazza Armerina e Nicosia sorte nel 1817, e Acireale nel 1844 ma autonoma soltanto dal 1872.

L’horribilis terraemotus, che nel 1693 ha devastato la Sicilia sud-orientale, ha sancito pure la decimazione di una capillare distribuzione di comunità benedettine femminili presenti dall’età medievale in poi: 11 nella città di Catania e 14 nei paesi della diocesi. Insieme a case, chiese e conventi, anche i monasteri femminili della città non sono stati risparmiati: danneggiati o del tutto distrutti, molte monache perite sotto le macerie e alcune comunità monastiche totalmente scomparse insieme al proprio monastero. Nel monastero di San Benedetto, delle 60 religiose presenti, restano in vita soltanto 5 monache. Il vescovo Andrea Riggio, protagonista della ricostruzione della città, ha assegnato al seminario vescovile i beni dei monasteri di Santa Lucia, Santa Maria di Portosalvo e Santa Caterina, considerato che nessuna delle monache è scampata al terremoto. Insieme con i beni, allo stesso seminario, il vescovo ha disposto la consegna di quella parte dei rispettivi archivi recuperata dalle macerie[3].

Sono soltanto cinque le comunità benedettine femminili che si ricostituiscono in città, insieme ad una di clarisse. La loro originaria fondazione risale ad epoche precedenti. San Giuliano pare debba considerarsi il monastero più antico della città. La prima notizia della sua presenza dentro le mura è del 1212, pur se di questo monastero pare debbano riconoscersi tracce su una collina lontana dal centro abitato risalenti ad una fondazione attribuita a Gregorio Magno. Degli altri quattro monasteri si hanno notizie più certe della loro origine: San Benedetto nel 1334; Santissima Trinità nel 1349; San Placido nel 1400; Sant’Agata nel 1652[4].

In diocesi, dopo alcuni anni dal terremoto, sono in piena attività 19 monasteri benedettini femminili. Nei cinque di Catania, in particolare, il vescovo Andrea Riggio nel 1712 trova le monache «omnes divino cultui deditas et regularem disciplinam observantes non sine maxima mei animi consolatione»[5]. Anche dei tre monasteri di Enna e Piazza Armerina apprezza l’esemplarità dell’osservanza. In particolare, uno di Piazza Armerina, per disposizione della fondatrice, è riservato alle figlie della nobiltà; condizione che dura fino al 1820[6]. Altri due monasteri si trovano nei paesi di Agira e Regalbuto; ed uno rispettivamente ad Acireale, Adrano, Calascibetta, e Paternò. Positiva è ancora la valutazione sulla disciplina nei monasteri femminili della diocesi espressa dal vescovo Salvatore Ventimiglia nella sua relazione ad limina del 1762[7].

Ma la vita interna delle comunità monastiche femminili non pare si sia mantenuta così esemplare se, il 15 ottobre 1797, il vescovo Corrado Deodato de Moncada è nella necessità di emettere dettagliate «Istruzioni» per le monache al fine di «inculcare quanto più volte, ed in voce, ed in iscritto, specialmente nelle nostre sagre Visite, abbiamo disposto per promuovere la Regolare osservanza»[8]. Il vescovo stigmatizza in particolare l’atteggiamento di quelle monache che, provenendo da famiglie nobili e grazie alla dote ricevuta, tendono a condurre in monastero una vita agiata: si permettono una donna a proprio servizio, usufruiscono di denaro per libere spese, esigono la distinzione tra coriste e converse; rifiutano il vitto ordinario pretendendo il corrispettivo in denaro «e non potendo restar senza cibo» continuano ad usufruire della dispensa, «con doppia spesa pel Monastero». Per il vescovo tali abusi, «oltre essere contro il Voto di povertà, non è cosa decente per una persona spirituale, e civile, e ci reca non poca meraviglia, come li Confessori, per altro Uomini di talento, possono permetterlo alle loro Penitenti».

La condizione dei monasteri femminili della diocesi di Catania rientra nella condizione più generale della vita ecclesiastica e religiosa in Sicilia, per la quale il prete Andrea Pusateri, di Caccamo, agli inizi del sec. xix, invoca interventi riformatori dalle autorità ecclesiastiche e governative. La situazione critica dei monasteri femminili è da lui attribuita a strategie familiari, che impongono la monacazione alle figliole, e all’età del loro ingresso in monastero. Non potendo costituire la dote nuziale per tutte le figlie, le famiglie preferiscono collocarne una o più in monastero. E vi entrano quando la «naturale femminile verecondia, la loro imbecillità, il timore, che si ha dei parenti, il dolore di dar loro disgusto, quella voce della Natura, che parla nel loro cuore a favore de’ loro Congionti, certi riguardi di un preteso onore, o di qualche temporale interesse», fanno sì che molte accettano passivamente la vita monastica «per vivere in un perpetuo carcere», senza che i vescovi e i loro delegati possano conoscere i veri sentimenti delle novizie nell’ammetterle alla professione. E Pusateri auspica per tutte le ragazze  un’educazione pubblica che dia loro «facoltà intellettuali, una istruzione solida, opinioni savie, idee giuste, eccellenti principj di sana Morale», di modo che liberamente possano scegliere di diventare ottime madri, oppure «Santissime Vergini consacrate a Dio»[9].

Pusateri è voce dell’ampio dibattito che persiste in Sicilia sulla vita dei religiosi, alimentato dal giurisdizionalismo borbonico, favorito dagli influssi della cultura francese illuminista e rivoluzionaria, come dai giudizi pur se veritieri non sempre sereni divulgati dai viaggiatori stranieri nell’isola[10].

Da più parti si avanzano proposte di riforma e si dubita dell’utilità sociale e religiosa dei monasteri e dei conventi, come dei religiosi e delle monache, alla luce di persistenti abusi e soprattutto della non osservanza della vita comune. D’altronde, in Sicilia, rimasta indenne dall’egemonia di Napoleone, i conventi e i monasteri non hanno vissuto quella provvidenziale opportunità di purificazione, come ebbe a considerarla mons. G. A. Sala, segretario della Sacra Congregazione per la riforma dei religiosi, dovuta alle soppressioni napoleoniche degli inizi dell’Ottocento nel resto della penisola[11].

Per la città di Catania una certa purificazione può, invece, ipotizzarsi accaduta con il terremoto del 1693. La distruzione di conventi e monasteri, con la morte di un rilevante numero di membri, in qualche caso la totale scomparsa della comunità, ha imposto la formazione di nuove generazioni di religiosi. Condizione che, probabilmente sostenuta pure dalla memoria lunga della tragicità dell’evento, potrebbe aver indotto ad una maggiore fedeltà i religiosi protagonisti della progressiva ripresa verificatasi negli anni successivi. In assenza di studi specifici, un segnale potrebbe cogliersi per la vita claustrale femminile, su cui possono incidere orientamenti di riforma del vescovo, nella drastica riduzione da 11 a cinque del numero dei monasteri benedettini femminili, e da tre a uno solo dei monasteri delle clarisse.

Permangono, tuttavia, strategie familiari che coinvolgono i cinque monasteri benedettini femminili della città, su una popolazione di poche decine di migliaia di abitanti. Membri della stessa famiglia sono contemporaneamente presenti tra le monache, tra i canonici del capitolo della cattedrale e il capitolo della chiesa collegiata, tra i monaci di San Nicola l’Arena, i docenti dell’Università degli studi e le magistrature cittadine. Tutti ambienti che comportano la stabilitas in città per monaci, monache ed ecclesiastici. Al contrario degli ordini mendicanti che, sebbene la loro presenza sia rilevante, non escludono il trasferimento dei religiosi in altre comunità.

A seguito della istituzione delle nuove sedi episcopali, nella diocesi di Catania, insieme con le comunità cittadine, restano quelle di Acireale (fino al 1872), Adrano e Paternò; e dal 1844 vi si aggiunge il monastero di Bronte, territorio per secoli soggetto all’arcivescovo di Monreale. La popolazione delle cinque comunità presenti in Catania, nel 1833, ammonta a 326 donne: 131 professe, 7 novizie, 97 educande e 91 serve[12]. Alla vigilia dell’Unità, pochi anni prima della soppressione, le monache benedettine della diocesi danno una sostanziale serenità al vescovo Felice Regano: ne registra la regolare osservanza della clausura ma deplora una certa incapacità a saper amministrare con oculatezza le rendite dei monasteri[13].

 

2. La soppressione

 

L’applicazione della legge di soppressione della personalità giuridica alle comunità religiose maschili e femminili[14] trova a Catania una complessiva presenza di 124 monache coriste, così ripartite: in Sant’Agata 27 monache; in San Benedetto 33 monache; in San Giuliano 22 monache; in San Placido 18 monache; in Santissima Trinità 24 monache[15].

Ad un paio d’anni dalla soppressione, nella sua prima relazione ad limina (15 agosto 1869), l’arcivescovo Giuseppe Benedetto Dusmet (1867-1894), già abate di San Nicola l’Arena, informa sulla situazione delle comunità monastiche femminili. Soltanto uno dei cinque monasteri benedettini, quello della Santissima Trinità, è stato chiuso e le monache trasferite in altri due monasteri dello stesso ordine: ne è entrata in possesso l’amministrazione provinciale che lo ha trasformato in educandato femminile[16]. Attesta l’osservanza della clausura ma deplora inadempienze nella disciplina sulla vita comune. Si è già impegnato ad estirpare abusi, in special modo il vezzo di fare doni ai confessori. Per l’applicazione della legge i monasteri non hanno più risorse finanziarie. Condizione questa che Dusmet considera provvidenziale: le monache possono meglio impegnarsi ad osservare in modo radicale la Regola, presupposto che in futuro, auspica l’arcivescovo benedettino, meglio avrebbe potuto favorire nuove vocazioni religiose[17].

L’applicazione della legge erode di fatto il patrimonio dei monasteri femminili ma lascia sostanzialmente intatta la composizione e la vita delle comunità monastiche. Al 30 maggio 1878 nelle quattro comunità della città di Catania vi sono ancora 117 monache benedettine. Altre 46 erano nei monasteri di Adrano, Bronte e Paternò. In diocesi restano in attività anche due monasteri di clarisse, con 46 monache, a Catania e Adrano. Mentre in tutta la provincia (con paesi della diocesi di Catania, Acireale, Caltagirone e Nicosia), il censimento trasmesso dalla prefettura al Ministero dell’Interno registra ancora in attività 37 monasteri con complessive 525 monache[18].

Una composizione più dettagliata delle comunità benedettine cittadine è comunicata dal questore al prefetto a 16 ani esatti dall’approvazione della legge (7 luglio 1882): in San Giuliano 26 monache, 2 educande e 16 inservienti; in Sant’Agata 18 monache, 2 educande e 14 inservienti; in San Placido 12 monache, 2 temporaneamente fuori monastero per motivi di salute, 6 converse e 14 inservienti; in San Benedetto 30 monache, 7 assistenti e 24 inservienti[19]. In totale sono ancora presenti in città 88 monache con 85 educande ed inservienti, che vivono con loro nei quattro monasteri.

Nei primi anni del Novecento la vita monastica benedettina femminile resiste ancora nelle quattro comunità rimaste in vita nella città di Catania nonostante la legge di soppressione. Le registra il nuovo arcivescovo il card. Giuseppe Francica Nava (1895-1928) nella relazione ad limina del 1908. Le monache sono ora sensibilmente ridotte di numero, anziane e in precarie condizioni di salute. Per quanto possono, tenendo conto anche del contesto culturale e sociale di quegli anni, vivono l’osservanza della Regola e osservano inviolata la clausura monastica. Prive ormai di rendite, si mantengono con la pensione annua versata dalle autorità civili. L’arcivescovo dichiara di non dover intervenire per eliminare abusi gravi e, per arginare il pericolo della loro totale estinzione, ha provveduto a riscattare dal Demanio uno dei monasteri, quello di San Benedetto[20].

Le monache vivono nei locali del proprio monastero e trovano nell’arcivescovo un tenace sostenitore del loro desiderio di potervi morire, nonostante si riducano ad un numero inferiore a sei per comunità secondo quanto previsto dalla legge[21]. Francica Nava ne avvalora l’istanza facendo presenti le precarie condizioni di salute di alcune di esse, che ne impediscono il trasferimento, e la pessima impressione che avrebbe provocato nella popolazione l’accanimento dell’autorità pubblica su povere monache vecchie e inferme, qualcuna pure ultra ottuagenaria, paralitica e costretta a letto. Inoltre, l’arcivescovo fa presente che in ognuno dei monasteri vi sono delle donne, entratevi magari come educande, ma ormai anch’esse anziane e senza parenti, che si prendono cura delle monache fin da quando erano in età giovanile[22].

Fatta eccezione per il monastero San Benedetto, le altre tre comunità chiudono progressivamente la loro esistenza negli anni successivi. Il monastero San Giuliano, dove erano state trasferite alcune monache della Santissima Trinità, chiude nel 1919 e i locali con la chiesa vengono consegnati al Demanio[23]. Nel monastero Sant’Agata, al 25 agosto 1917, vi sono 7 monache ormai molto vecchie, una centenaria e paralitica bloccata a letto. Con loro vivono necessariamente 6 zitelle per la gestione del monastero e altre 5 a servizio delle singole monache. Al 1923 le monache sono ancora in monastero ma ne occupano ormai soltanto una parte, mentre altra è destinata ad usi diversi dall’amministrazione comunale[24]. L’ultima monaca muore nel febbraio 1929, in condizioni di povertà, e in monastero restano a vivere alcune zitelle che da circa 60 anni sono in clausura[25]. Nel 1911 le monache di San Placido, poiché il loro numero si riduce al disotto di quello stabilito dalla legge di soppressione, sono costrette a lasciare il monastero al municipio. Decidono di trasferirsi in una casa autonoma attorniata da un orto, in un quartiere della città, acquistata da loro ma a nome dell’arcivescovo Francica Nava. Non potendo osservare pienamente l’obbligo della clausura, ottengono che venga mutata da papale in vescovile. L’ultima monaca muore nel 1928 e l’arcivescovo ne devolve beni e capitali a favore del monastero San Benedetto[26]. Le poche monache del monastero San Benedetto, accudite anch’esse da un gruppo di donne in età avanzata, entrate come educande prima della soppressione, accolgono nel 1910 le due monache fatte venire da Ronco di Griffa.

Il loro arrivo si innesta in un contesto diocesano di pastorale femminile e di dinamico inserimento delle nuove modalità di vita consacrata sviluppatesi nel corso dell’Ottocento e in diocesi volute dall’arcivescovo Dusmet.

 

3. Pastorale al femminile a Catania

 

Il primo decennio del Novecento, grazie all’impulso dato da Francica Nava, vede avviarsi in diocesi la promozione e lo sviluppo di un’inedita pastorale femminile che favorisce la progressiva acquisizione di un vivace e zelante ruolo ecclesiale e sociale della donna[27]. La pastorale femminile è segnata da forme associative destinate proprio alla formazione delle ragazze per educarle a vivere la condizione di donne cristiane in uno dei due ruoli sociali loro riconosciuti: spose e madri in famiglia, oppure suore e, progressivamente, consacrate laiche, con un graduale ma deciso superamento della consolidata presenza delle monache di casa.

Espressione del tutto privilegiata di associazionismo femminile è la Pia Unione delle Figlie di Maria, posta sotto il patrocinio dell’Immacolata e di Sant’Agnese, da cui dette Agnesine. Associazione promossa fin dalla prima riunione della conferenza episcopale siciliana tenutasi nel 1891. I vescovi, in considerazione dei pericoli per la donna attribuiti ala società moderna, ritengono ormai insufficiente la sola istruzione catechistica per educare le ragazze ad essere buone cristiane. Dispongono, pertanto, che il clero si premuri ad istituire gruppi delle Figlie di Maria in ogni parrocchia, «conoscendosi per l’esperienza che da esse ben regolate ci viene il maggior numero [...] delle verginelle intemerate e delle buone madri di famiglia».

Nella diocesi di Catania Francica Nava ne chiede una capillare istituzione e stabilisce che tali gruppi siano frutto privilegiato e duraturo della generale missione indetta nel 1901. Appello reiterato in occasione del cinquantesimo anniversario del dogma dell’Immacolata Concezione. Tra il 1899 e il 1924 vengono istituti in diocesi 43 gruppi della Pia Unione delle Figlie di Maria. Gruppi parrocchiali che in diversi casi sono composti da 150 e da oltre 200 ragazze. Oltre alle Figlie di Maria vi sono pure altre forme di associazionismo femminile, di fondazione locale o legate ad antiche e nuove forme di vita consacrata. Realtà che promuove, ovviamente, un cammino spirituale aperto alla risposta vocazionale, con il conseguente sviluppo dell’impianto di comunità religiose femminile di vita attiva e, in seguito, di consacrate laiche in un primo tempo secondo la regola di Sant’Angela Merici e, poi, dell’Opera della Regalità.

Le nuove forme di consacrazione religiosa femminile erano state promosse in diocesi fin dagli anni Settanta dell’Ottocento dall’arcivescovo Dusmet. Verso la fine dell’Ottocento in città sono presenti: le Figlie della Carità, fatte venire per prime, operanti in sette istituzioni assistenziali e caritative; le Piccole Suore dei Poveri nell’Asilo Sant’Agata, a servizio dei vecchi indigenti; le Figlie di Maria Ausiliatrice in due case, altre due a Bronte e una a Trecastagni; le Figlie di Sant’Anna a Catania e Adrano.

Col successore Francica Nava la presenza delle religiose vede un progressivo sviluppo. Nel 1913 operano a Catania, anche con più di una comunità, le Figlie della Carità, le Figlie di Sant’Anna, le Figlie di Maria Ausiliatrice, le Piccole Suore dei Poveri, le Figlie della Misericordia e della Croce, le Serve dei Poveri del Boccone del Povero. Nei comuni della diocesi, oltre alle Salesiane di don Bosco, operano le Figlie di Sant’Anna ad Adrano e le Figlie della Misericordia e della Croce a Paternò. Un ruolo particolare, a favore dell’educazione cristiana delle ragazze, svolge la prima ispettrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice madre Maddalena Morano (1847-1908, beatificata nel 1994), piemontese ma in diocesi dal 1881 e vi resta fino alla morte, alla quale l’arcivescovo affida pure la responsabilità di organizzare e seguire la catechesi femminile in città.

La simbiosi tra pastorale femminile e inserimento di congregazioni religiose fondate altrove contribuisce in modo determinante a stimolare la sensibilità spirituale e sociale di ecclesiastici e donne della diocesi, promuovendo pure l’esordio di forme locali di consacrazione. Le Suore del Patrocinio di San Giuseppe nella “Casa della Grazia” a Catania sono istituite nel 1902 dal canonico Francesco Forcisi (1840-1911) per l’assistenza di fanciulle povere ed orfane. Anche le Suore della Sacra Famiglia sono istituite a favore delle bambine orfane e povere nel comune di San Giovanni la Punta, nel 1896, dal sacerdote Domenico Zappalà (1846-1918). Ma, come altre volte accaduto, in entrambi i casi non si trova chi si assuma la loro guida e si estinguono dopo la morte dei due ecclesiastici.

Sorte migliore hanno, invece, altre due fondazioni diocesane. Le Suore Sacramentine, evoluzione delle Dame Sacramentine, nate da un’intelligente e intensa predicazione e pastorale eucaristica, anche con l’apporto di pubblicazioni apposite, messe in atto da una delle figure più zelanti ed esemplari del clero catanese: il canonico Tullio Allegra (1862-1934). Rende la chiesa cittadina di Sant’Euplo, dove è rettore, centro di spiritualità e di formazione per donne ed uomini. A lui, cieco dal 1900, si deve pure la celebrazione del primo congresso eucaristico diocesano (1905)[28]. Le Suore Serve della Divina Provvidenza, anche loro successiva forma di consacrazione religiosa di una informale associazione di un gruppo di donne laiche aggregate dalla caparbia volontà di una giovane donna, Maria Marletta (1889-1966), che ha a cuore la sorte delle ragazze a rischio di essere iniziate alla prostituzione e apre a loro favore una casa famiglia.

La sollecitudine di Francica Nava a favore delle monache benedettine, ormai sulla via dell’estinzione a causa della legge di soppressione, si comprende meglio nell’ambito del contesto appena richiamato. Ritiene suo dovere conservare alla città e alla diocesi di Catania la presenza e l’emblematica significatività ecclesiale della consacrazione claustrale.

 

4. Il monastero San Benedetto salvato dalla soppressione

 

All’inizio del Novecento la comunità del monastero San Benedetto è ormai verso un irrimediabile declino, come le comunità degli altri tre monasteri benedettini femminili ancora in vita. Il raffronto tra il dato del 1882 e quello del 1905 rende in modo evidente la prospettiva cui è destinato anche questo monastero nell’arco di appena più di venti anni. Al 25 settembre 1882 vi sono in monastero 30 monache, 7 educande e 24 donne zitelle per il servizio alle monache; insieme a 9 monache, una novizia e 6 zitelle provenienti dal monastero della Santissima Trinità: 78 donne in tutto[29]. Ad agosto del 1905 la riduzione è talmente consistente e la certezza della irreversibilità così ineluttabile che angoscia ormai tanto le monache rimaste che l’arcivescovo. Le monache sono ridotte ad appena 5: la badessa suor Agnese Noce, la prioressa suor Battistina Tornabene e suor Scolastica Musumeci; due sono ancora le monache provenienti dal monastero della Santissima Trinità: suor Rosa e suor Faustina Tornabene; vi sono ancora due novizie ormai “a vita”, una appartenente al monastero San Benedetto e l’altra al Santissima Trinità, perché rimaste tali dopo la legge di soppressione; e 5 educande[30].

La situazione di San Benedetto, rispetto alle altre comunità claustrali, sta particolarmente a cuore a Francica Nava anche perché il palazzo di famiglia, dove  egli si trasferisce dall’arcivescovado per risiedervi di frequente, si trova dirimpetto al monastero. La convinzione che ormai la comunità è destinata a chiudere e che l’immobile verrebbe requisito dalle autorità governative lo assilla, soprattutto a seguito della riduzione del numero delle monache di una unità al di sotto delle 6 previsto dalla legge di soppressione. Il 28 giugno 1905, infatti, dall’ufficio del Demanio di Catania, per conto della Direzione Generale del Fondo per il Culto, gli viene chiesto di comunicare alle monache l’obbligo di trasferirsi in altro monastero. Francica Nava, a loro nome, chiede che le lascino nel monastero dove hanno sempre vissuto, in considerazione dell’età e delle gravi condizioni di salute; il trasferimento di qualcuna, in particolare, potrebbe pure metterne a rischio la vita[31].

È a questo punto che Francica Nava matura la decisione di verificare la possibilità di riscattare tutto l’immobile a favore delle monache e avvia l’iter presso i dicasteri della curia romana. Il 31 maggio 1907 la Commissione cardinalizia per le opere di religione, presieduta dal card. Beniamino Cavicchioni, lo autorizza a ritirare 40.000 lire, dal denaro delle monache depositato nella cassa diocesana, per acquistare il monastero[32]. L’operazione va a buon fine e il 18 ottobre 1909 l’arcivescovo ne fa relazione al prefetto della Congregazione del Concilio, card. Casimiro Gennari. Il monastero è stato acquistato con lo scopo di lasciarvi le monache di San Benedetto, ormai in pericolo di essere espulse perché ridotte sotto il numero previsto dalla legge di soppressione, e concentrarvi quelle degli altri monasteri della città e diocesi minacciate continuamente di sfratto in ossequio alla suddetta legge. L’acquisto è stato fatto con la somma prelevata, su autorizzazione della Santa Sede, dalle somme depositate dalle stesse monache nella Cassa Diocesana, il cui interesse viene destinato stabilmente al loro sostentamento. «L’immobile comparisce come proprietà mia privata e sto studiando il modo come assicurarne la reale proprietà all’ente, senza pericolo che potesse per qualunque pretesto essere confiscato dalle leggi eversive».

Con l’avallo delle monache, chiede ora l’utilizzo di altre 15-20.000 lire da prelevare dal loro stesso deposito per eseguire lavori di miglioria all’immobile, resisi indispensabili poiché, dopo l’entrata in vigore della legge di soppressione, non era stato più possibile intervenire per la manutenzione ordinaria e straordinaria. Migliorie che avrebbero permesso di affittare alcuni locali del monastero con una rendita annua di 2000 lire circa. Nella cassa diocesana, comunque, restavano ancora alle monache 175.000 lire di titoli del Gran Libro del Deposito e Prestito[33].

Recuperato l’immobile e garantita una rendita annua alla comunità monastica, Francica Nava può ora provvedere a garantire un futuro alla vita claustrale a Catania. Sa di non poter contare su nessuna di quelle rimaste nei quattro monasteri cittadini, o negli altri della Sicilia, e la badessa di San Benedetto non è più in grado di poter esercitare il suo ufficio. Espone quindi la gravità della situazione al pontefice e chiede di poter ottenere il trasferimento da altro monastero di una monaca in grado di poter garantire la regolare osservanza e ridare vigore alla vita claustrale:

 

«Si sente quindi un bisogno estremo di una superiora giovane, che prenda le redini del governo, e se è possibile, ricostituisca una nuova vita nella comunità, aprendo un noviziato, pel quale ci sono alcune domande, anche da parte delle presenti educande. La stessa Badessa lo desidera ardentemente ed è disposta a rimettere nelle mani di Vostra Santità il suo ufficio. L’Eminentissimo Oratore dubita assai che possa trovare in Sicilia una religiosa che abbia tutte le doti di un’ottima superiora, quale conviene che sia per una nuova comunità. Ora in questo estremo bisogno l’Oratore ricorre alla Santità Vostra onde trovare più facilmente detta religiosa e può anche autorevolmente indurla ad accettare detto incarico. L’affare è più urgente di quel che non si crede, poiché la Badessa attuale ha passato gli 80 anni e soffre un male grave, che potrebbe condurla da un momento all’altro alla tomba. Si fa conoscere che il monastero, oltre un grandioso fabbricato, che ha parecchi corpi redditizi, possiede una rendita annua di lire ottomila circa, con le quali si mantiene la comunità ed il culto della bella Chiesa. Le educande pagano inoltre una tenue retta quadrimestrale»[34].

 

Il 18 agosto 1909 dalla Sacra Congregazione dei religiosi ottiene la facoltà chiesta. Ma come individuare monastero e monache che abbiano energie e forte spirito religioso per farsi carico delle vecchie monache e, al contempo, dar vita ad un processo di rinascita della comunità claustrale?

 

5. Le “nuove” monache

 

La soppressione del 1866 aveva colpito i monasteri di tutta la penisola. Nondimeno diverse comunità erano riuscite a superare la crisi, muovendosi essenzialmente in una duplice direzione: affrontare con coraggio le precarie condizioni economiche, sostenendosi con le elemosine e l’irrisoria pensione accordata loro dal Fondo culto; continuare ad accettare ragazze per il noviziato, con l’espediente di farle figurare come inservienti delle vecchie monache. Giacomo Martina, in un suo fondamentale saggio[35], ricorda come la legge del 1866 non proibiva di per sé l’accettazione di novizie ma l’interpretazione datane dalle autorità governative fu radicale e più volte, con apposite circolari, ancora a venti anni di distanza, intervenivano con fermezza per impedire ammissioni di novizie e nuove professioni monastiche. Di fatto, la legge e le circolari ministeriali non riescono a sconfiggere la resistenza delle monache che, al contrario, man mano determinano la soppressione della normativa che voleva sopprimerle.

Nei monasteri benedettini catanesi al momento dell’esecuzione della legge del 1866 vi erano novizie, educande e donne gran parte delle quali, entrate sotto forma di servizio alla comunità monastica, erano destinate alla vita claustrale. Le incertezze per il loro futuro avevano lasciato molto perplesso l’arcivescovo Dusmet che non aveva permesso la loro ammissione al noviziato e la professione solenne di altre monache[36]. Anche Francica Nava mantiene tale orientamento, sebbene permetta l’ingresso in monastero di educande. Ma il diniego alla professione monastica presenta ora anche un altro aspetto. Le novizie sono ormai in età molto avanzata e sulle eventuali motivazioni vocazionali alla vita claustrale prevale, verosimilmente, la pluridecennale assuefazione alla vita in monastero.

Per realizzare il suo progetto a favore della comunità di San Benedetto, Francica Nava non riesce ad individuare un monastero cui rivolgersi. Sa, però, di poter contare sulla riverenza e l’oculata conoscenza di comunità religiose di un giovane prete siciliano, Giuseppe Vizzini (1874-1935). Docente alla Pontifica Università Lateranense, è uomo di fiducia di Pio X che gli affida la visita apostolica anche di comunità monastiche femminili e nel 1913, appena trentanovenne, lo nomina vescovo di Noto[37]. È a lui che l’arcivescovo chiede quale monastero benedettino fosse nelle condizioni di inviare almeno una monaca cui affidare la ripresa della vita claustrale a Catania. Pur avendo visitato di recente alcuni monasteri, tra cui quelli di Eboli e Fossano, Vizzini ritiene di non aver incontrato ancora monache in grado di rispondere alla richiesta di Francica Nava. Lo assicura, nondimeno, di potergli dare presto una risposta positiva dopo essersi rivolto ad un suo amico, «benedettino olivetano, lombardo, che è stato incaricato dalla S. C. dei Religiosi di visitare alcuni monasteri»[38].

Ed infatti, il 9 gennaio 1910 Vizzini può comunicare a Francica Nava «un progetto concreto per la sistemazione del suo monastero benedettino». Ha ricevuto la risposta dall’amico olivetano, Celestino Colombo: «persona molto stimata a Roma; più volte è stato mandato visitatore apostolico dei monasteri: e ciò è un buon segno»[39]. Questi gli dà ottime referenze su una benedettina dell’Adorazione Perpetua del Santissimo Sacramento, suor Scolastica Sala, del monastero di Ronco di Ghiffa, già priora a Seregno dal 1894 al 1900: «dal momento che D. Celestino garantisce la religiosa, credo che si tratti di un soggetto veramente serio»[40]. Colombo aveva chiesto alla comunità se vi fosse qualche monaca disposta a trasferirsi a Catania. La cronaca del monastero registra che «più a titolo di novità che altro, [...] si rise dapprima come a cosa mai pensata»[41].

L’invito arriva in un momento particolare della vita della comunità: è ancora in fase di assestamento dopo il trasferimento da Seregno nel 1906. Come pure, se si considera il momento storico generale, va osservato che non può meravigliare la reazione delle monache, almeno per due ragioni. Sono state educate a considerare dimora definitiva il proprio monastero, dove hanno emesso il voto di stabilità. Di conseguenza, allontanarsene mette in discussione un aspetto peculiare della loro consacrazione. Se conoscono, poi, la posizione geografica di Catania, è probabile che non abbiano cognizione di come poterla raggiungere o, quanto meno, si rappresentano i disagi che un viaggio così lungo comporterebbe per delle monache di clausura.

Ciononostante, suor Scolastica manifesta subito e con entusiasmo la sua disponibilità a trasferirsi a Catania. Presi gli opportuni accordi con il monaco olivetano, il 30 marzo 1910 Francica Nava scrive a suor Scolastica per prospettarle la situazione della comunità catanese, il ruolo che avrebbe dovuto svolgervi e la condizione giuridico-economica del monastero, dandole le massime garanzie per la sua venuta ed eventualmente per il suo ritorno a griffa qualora, compiuta la missione, non volesse restare a Catania:

 

«Attualmente esiste nel Monastero una prioressa, ma questa è assai avanzata negli anni, e per i suoi acciacchi non può quasi muoversi dalla sua cella. Del resto non ha doti per governare. Ciò non ostante la comunità si regge benino perchè la sig.a Abbadessa, morta pochi mesi fa, impresse nelle moniali e nelle educande un vero spirito di sottomissione, ubbidienza e pietà. Io ne ho una immediata cura, e mi accorgo che in tutta la comunità regna pace e concordia. Non esistono più moniali professe, all’infuori della prioressa, perchè io non ho permesso alcuna monacazione sino a tanto non fosse comprato il monastero, ciò che è avvenuto qualche anno fa. Quindi la comunità non è composta che di vecchie novizie (due solamente) e di educande, gran parte giovani, le quali desiderano monacarsi. Ecco lo stato della Comunità presente. Ella è desiderata, perchè dia un conveniente indirizzo alle novizie e alle moniali che si devono formare. Troverà un terreno fertile che darà gran frutto di consolazioni alle sue fatiche. Il monastero è ampiissimo, capace di contenere comodamente da 60 a 70 monache. Vi ha una chiesa assai bella, che è una delle migliori di questa città, e vi si compiono tutte le funzioni dell’anno con tutta la pompa del rito. La rendita è sufficiente pel decoroso mantenimento della comunità e della Chiesa. Ella sarebbe, naturalmente, mantenuta a spese del Monastero, e pagherebbe anch’esso le spese di viaggio e tutt’altro che occorrerebbe per la sua venuta e ritorno, se Ella, compiuta la missione, non volesse fermarsi in questa città»[42].

 

La invita, inoltre, a considerare l’opportunità di portare con sé una consorella «affinché Ella avesse una compagna della stessa regione con la quale potesse comunicare con più confidenza le sue idee, e dalla quale potesse essere più facilmente aiutata in qualità di maestra delle novizie. Ma se non è facile trovarla non occorre preoccuparsi. Ci sarà qui chi potrà disimpegnare lo stesso ufficio».

In considerazione delle garanzie fornite dall’arcivescovo, la comunità di Ronco di Ghiffa, in seduta capitolare, decide di inviare due monache, suor Scolastica Sala e suor Matilde Malinverno[43], «quest’ultima non quale Maestra delle Novizie, ma quasi una loro sorella maggiore che col buon esempio faciliti l’azione di M. Scolastica e le serva insieme di compagnia nel viaggio e nel soggiorno»[44]. Inizia, così, un capitolo nuovo della storia delle Benedettine dell’Adorazione Perpetua in Italia che diviene pure apporto peculiare alla storia di donne consacrate.

La notizia è accolta a Catania con particolare soddisfazione, nella certezza che la vita claustrale finalmente avrebbe ripreso vigore. Con i ringraziamenti di Francica Nava, a madre Caterina Lavizzari pervengono pure quelli della prioressa di San Benedetto, insieme alla garanzia di ubbidire alla nuova superiora, suor Scolastica, «ciecamente e allegramente come ci prescrive la S. Regola»[45]. Il 19 maggio 1910 Colombo, in qualità di superiore ecclesiastico del monastero, accorda alle due monache il permesso di recarsi a Catania e addita loro i mezzi per conseguire la perfezione religiosa e la santificazione personale e della nuova comunità: l’umiltà, l’abbandono in Dio, lo zelo prudente, la fede viva e la «giustizia d’amore» nel giudicare, il «non abbracciate molte cose» da fare, la quotidiana lettura del «perfettissimo codice della nostra santificazione», cioè la Regola benedettina[46].

La partenza da Ronco di Ghiffa avviene il 21 maggio. Prima di giungere a Catania, il 25 maggio, sostano al santuario di Loreto; da Colombo, priore nel monastero olivetano di Foligno; da Vizzini a Roma, che ottiene loro un’udienza pontificia; alla tomba di San Benedetto a Montecassino[47]. Ricevono una calorosa accoglienza dall’arcivescovo, il quale ne riporta un’ottima impressione, e dalla comunità[48] che trovano composta da «una sola Religiosa vecchia col titolo di Prioressa; le altre tutte vecchie educande con due sole novizie vestite del S. Abito da circa cinquant’anni che aspettavano il momento sospirato di poter assecondare i loro santi desideri. La Comunità era composta di ventisette soggetti, tutte di buono spirito, ma per nulla abituate alla vita religiosa». Vi persiste, inoltre, il vecchio abuso di molti confessori, ben sei, «che nuocevano molto con la diversa direzione producendo continui pettegolezzi»[49].

Motivo di particolare consolazione, fin dall’arrivo a Catania, è per suor Scolastica Sala l’incontro con il, già ricordato, canonico Tullio Allegra: «La ringrazio - scrive all’arcivescovo - d’averci mandato quel Santo e venerabile Canonico Allegra che colla serafica sua parola ci fece gustare momenti di paradiso! Per me, reputo una singolarissima grazia l’averlo avvicinato e conosciuto! Dio è veramente mirabile ne’ suoi Santi!»[50].

 

6. Il nuovo corso di vita monastica

 

Ma l’inizio della regolare ripresa della vita claustrale è impedito da alcune situazioni incancrenitesi con gli anni. Anzitutto, le due nipoti della defunta badessa continuano a vivere in monastero. La loro non è una semplice presenza. Nel corso degli ultimi anni, grazie soprattutto al sostegno del segretario arcivescovile, Giovanni Licitri, confessore di una di loro, hanno consolidato un ruolo di governo del monastero, detenendone pure l’amministrazione. Ulteriore conseguenza della gravità degli effetti prodotti dalla legge di soppressione. L’opera di riforma intrapresa dalle due monache “forestiere” e la disponibilità ad obbedire a queste da parte di chi si trova in monastero, ovviamente le irrita. Fanno di tutto, pertanto per screditare suor Scolastica e suor Matilde, inducendo lo stesso Francica Nava, col sostegno di Licitri, a prestar fede «alle false accuse».

La situazione diviene talmente intollerabile che Colombo, quando in agosto viene a visitare la comunità, «trovò le cose ben imbrogliate e fu lì lì per farci ritornare al nostro Monastero»[51]. L’arcivescovo, assente a lungo dalla città per la visita pastorale, interviene ora in modo drastico per sostenere l’opera della nuova superiora e garantire la serena e corretta ripresa della vita claustrale: nomina un unico nuovo confessore per tutte; rimanda a casa quelle donne ritenute di disturbo e di peso alla comunità; concede alle due nipoti della defunta badessa, e a due altre donne più anziane, di vivere della carità del monastero, con due domestiche e in ambienti del tutto separati dalla clausura[52].

Per dare, poi, un regolare andamento anche alla portineria del monastero e ai servizi esterni, suor Scolastica ottiene da Ronco di Ghiffa un’oblata: suor Rosina Crippa (1869-1945). Il «foglio d’obbedienza» inviatole da Colombo il 14 luglio 1910 le delinea lo stile e il percorso di santità proprio di un’oblata: non «servigiana d’un gruppo di suore» bensì, nella carità, nella semplicità, nel timore filiale di Dio, nella conoscenza di se stessa e nella prudenza, chiamata ad essere «imitazione silenziosa e generosamente attiva» di Gesù Ostia che non sempre «sta rinchiuso nel Tabernacolo, spesso esce per le pubbliche vie». E le testimonianze concordano nell’affermare che a questi ideali suor Rosina seppe conformare la propria vita e l’umile servizio, al punto che negli Annali del monastero di Ronco di Ghiffa è ricordata come «un vero S. Felice da Cantalice»[53].

In poco più di due mesi le principali difficoltà per il nuovo corso del monastero San Benedetto sono risolte e la comunità è ormai rinnovata. Un’altra questione Francica Nava intende ora affrontare: fare in modo che le monache possano gestire un istituto di educazione ed istruzione per le ragazze.

Il progetto rientra nel clima della pastorale femminile diocesana, di cui si è già detto, ma è presumibile abbia per l’arcivescovo un’ulteriore doppia finalità. Anzitutto, evitare il rinfocolarsi delle polemiche ottocentesche sull’utilità sociale di conventi e, in special modo, dei monasteri di clausura. Polemiche non del tutto sopite visto che ancora vi sono monasteri in uso a monache e comunità religiose maschili che, destinate a scomparire dalla legge del 1866, ormai si sono riappropriate di parte dei loro vecchi conventi o ne hanno aperti di nuovi. L’altra finalità può desumersi dal clima culturale e sociale di Catania nei primi anni del Novecento. Clima controllato da una forte presenza di massoni, laici e socialisti, che danno vita anche a manifestazioni anticlericali. In questo clima, il progetto di città moderna del socialista Giuseppe De Felice Giuffrida (1859-1920), sindaco e deputato al parlamento, mira a rendere Catania la Milano del Sud. Modernizzazione che, ovviamente, non lascia spazio sociale ai cattolici. In questa prospettiva, la decisione di municipalizzare i servizi pubblici include pure l’istruzione, soprattutto quella elementare. Questa, nel 1908-1909, può contare in città su 330 classi aperte e funzionanti, pur se quasi tutte collocate in locali in affitto. Ma è sulla scelta di maestre e maestri che si consuma lo scontro tra i poteri forti della città: Municipio, Provveditorato e Consiglio scolastico provinciale. Alla scuola, in special modo, è affidato il compito di educare le nuove generazioni alla modernità che si esprime, di conseguenza, in un chiaro orientamento anticlericale[54].

Si comprende, allora, perché Francica Nava reputa necessario che anche le monache benedettine si dedichino alla formazione e all’istruzione delle ragazze, gestendo un educandato e una scuola[55]. A tal fine, chiede ed ottiene da Pio X, 10 agosto 1910, la mutazione della rigida clausura papale, cui il monastero è ancora sottoposto, nella più blanda clausura vescovile:

 

«Beatissimo Padre, dei tanti Monasteri di religiose benedettine che un tempo erano fiorenti in questa Diocesi non rimane sicuro che quello di San Benedetto in Catania, perché fu da me comprato due anni fa dall’Amministrazione provinciale. Delle antiche monache ne sopravvive una sola, quasi ottuagenaria e piena d’acciacchi, sicché può osservare ben poco della regola e per ricostituire la comunità ho fatto venire due religiose benedettine del SS. Sacramento, le quali appartenevano al Monastero di Ronco di Griffa presso il Lago Maggiore. Io vorrei che la nuova comunità avesse lo stesso indirizzo e scopo di quella di Ronco, ammettendo le oblate e occupandosi dell’educazione e istruzione delle fanciulle esterne, per le quali non abbiamo che pochi istituti e insufficienti affatto al gran bisogno di una città di circa 200 mila anime. Ora ad ottenere tutto ciò è di ostacolo la clausura papale che ancora esiste nel detto Monastero per la sopravvivenza della monaca ottuagenaria. Per tale clausura non si possono ammettere le oblate che devono accompagnare le fanciulle esterne e provvedere ai bisogni della comunità, né si può aprire alcuna scuola entro il Monastero. Supplico quindi la S.V. a dispensare su tale precetto, commutandola in quella della clausura Vescovile»[56].

 

Ma bisognerà attendere il 1915, e l’intelligente e vivace opera della nuova priora venuta da Ronco di Griffa nel 1912, madre Domenica Terrazzi (1869-1955), per l’apertura della scuola, che contribuirà a dare un apporto alla formazione cristiana della gioventù femminile della città e al sostentamento economico della comunità[57].

La concessione della clausura vescovile, però, in certo modo esprime un orientamento difforme da quanto lo stesso Pio X, poco meno di un anno prima, il 13 dicembre 1909, aveva chiesto ad un ordine religioso contemplativo, le Visitandine di Santa Giovanna Francesca di Chantal. Incerte se mantenere l’educandato, il pontefice le invita a dedicarsi esclusivamente alla contemplazione. Questa doveva essere la loro risposta alle esigenze dei tempi. L’attività educativa, per quanto utile, le avrebbe distratte dalla peculiare forma di consacrazione. Sull’esempio delle Visitandine, anche altri ordini monastici femminili si orientano a vivere una maggiore separazione dal mondo[58].

Per il nuovo corso della vita monastica in San Benedetto, tuttavia, permane ancora l’ibrida situazione delle antiche educande. Vivono in monastero da molti anni e, come ricordato, tanto Dusmet che Francica Nava, «per le tristi ed incerte condizioni de’ tempi», non hanno permesso loro di emettere la professione religiosa. Fatta eccezione per qualcuna, nell’insieme si presentano come un buon gruppo che non ha dato mai motivo a severi interventi, al contrario hanno dato «prova costante di vera e solida pietà». Suor Scolastica, in verità, ben volentieri le rimanderebbe alle rispettive famiglie, in modo da iniziare una vita comunitaria libera da pastoie del passato. Francica Nava, per le anzidette ragioni e tenendo conto delle gravi difficoltà sociali cui sarebbero andate certamente incontro, ritiene piuttosto doveroso lasciarle in monastero «sino a quando la loro dimora non si opponga al buon ordine della comunità». Ma per non porre impedimenti all’opera della nuova superiora, dispone che si costituisca in monastero «una sezione distinta di più vergini ritirate, le quali, pur rimanendo sciolte dagli obblighi dei voti monastici e della vita comune, dipendano dalla medesima Superiora ed osservino esattamente il regolamento speciale che sarà loro imposto», trattandole con carità e prudenza e non alla stregua delle novizie o delle monache[59].

La vicenda lascia intravedere con evidenza un naturale momento di dissenso tra la nuova superiora e l’arcivescovo, per quanto in entrambi determinato da motivazioni in sé valide. In suor Scolastica prevale l’indubbio zelo, il retroterra culturale e religioso, l’urgenza di ripristinare una puntuale osservanza della Regola. Ragioni che non le permettono di accondiscendere ad una situazione ormai del tutto anacronistica per una comunità monastica. Da parte sua Francica Nava, in effetti, non considera ingiustificata la posizione di suor Scolastica e ritiene legittimo l’orientamento della nuova superiora. Prevale, però, in lui la consapevolezza di non potere obbligare queste donne al nuovo stile di vita monastica e, al contempo, di non poterle rimandare sbrigativamente e in età avanzata in famiglia. Sente la responsabilità di averle accettate in attesa di tempi migliori e aver permesso loro di vivere per tanti anni in monastero. Di conseguenza, chiede a suor Scolastica di comprendere il peculiare contesto in cui è venuta a trovarsi, in modo da evitare ulteriori motivi di attrito in monastero e superare agevolmente ogni sorta di difficoltà.

Della severità di suor Scolastica, pur senza sottacere apprezzamenti per l’opera avviata, l’arcivescovo se ne rammarica, in verità, con madre Caterina Lavizzari: «Se sul principio sono apparse, come era da prevedersi, delle difficoltà, che sogliono opporsi a tutte le opere sante, sia per arti maligne del nemico invisibile d’ogni bene e sia per l’umana miseria, non son tali però da non potersi vincere. Parmi anzi che in gran parte avrebbero potuto evitarsi, se questa egregia Superiora, mossa certo dal suo ardente zelo, avesse tenuto conto delle circostanze locali e fosse andata più a rilento nel giudicare e nell’agire»[60].

La presenza delle nuove suore, la prospettiva concreta di ripresa di una stabile vita claustrale da loro assicurata, il contesto pastorale catanese e l’orientamento vocazionale promosso tra le giovani da alcuni preti, man mano fanno presentare alla porta del monastero diverse giovani che chiedono di farsi monache. Cosicché, firmato il decreto di aggregazione del monastero San Benedetto all’Istituto dell’Adorazione Perpetua, il 10 agosto 1911, a distanza di qualche giorno, il 15 agosto successivo, solennità dell’Assunta, Celeste Abbadessa secondo le Costituzioni dell’Istituto, «giorno tanto sospirato», con la consegna dell’abito di postulante alle prime aspiranti, «principiò nel vetusto Monastero di Catania l’Istituto delle Benedettine dell’Adorazione Perpetua». L’anno successivo, il 15 agosto 1912, dieci di loro, sette corali e tre converse, iniziano il noviziato[61]. Che a Catania permanesse una disponibilità vocazionale alla vita claustrale Francica Nava lo aveva lasciato intendere a suor Sala nella citata lettera del 30 marzo 1910: l’aggregazione «è un’opera che stimo di grande utilità alle anime desiderose di consacrarsi a Dio nel silenzio del chiostro».

Ma il 1912, insieme a questa gioia, riserva alla comunità di Catania e a quella di Ronco di Ghiffa un grave lutto: il 26 aprile moriva suor Scolastica Sala, ancora cinquantaquattrenne, appena all’inizio del compito che si era assunto. Su richiesta di Francica Nava, da Ghiffa, il 7 maggio 1912 viene inviata a sostituirla suor Domenica Terruzzi[62].

L’innesto delle benedettine a Catania è ormai compiuto e bene avviato, con gli ostacoli principali rimossi. La nuova comunità può serenamente intraprendere il cammino di perfezione religiosa secondo le costituzioni benedettino-mectildiane[63]. Le relazioni con la comunità di Ronco di Ghiffa - e ciò vale anche per le aggregazioni successive - non sono sicuramente vissute in forma di dipendenza giuridica, né così le intende madre Canterina Lavizzari. Si instaura, piuttosto, una dipendenza spirituale e affettiva verso la “madre priora”, più accentuata nelle “figlie” inviate nei diversi monasteri, e ampiamente testimoniata dalle numerose lettere con le quali, in particolare, guida e sostiene l’opera di suor Sala prima e di suor Terruzzi dopo[64].

Delle monache e del nuovo corso del monastero catanese è ampiamente soddisfatto Francica Nava, che ne segue le vicende da vicino e con grande benevolenza. A distanza di anni,  pochi mesi prima della sua morte (7 dicembre 1928, all’età di 82 anni), come in un bilancio al prefetto della Sacra Congregazione dei Religiosi, il card. Camillo Laurenti, sottolinea la validità della decisione di aver acquistato l’immobile e aver affidato la ripresa della vita claustrale alle monache di Ronco di Ghiffa: l’unico monastero femminile rimasto in città è San Benedetto, «da me acquistato, ove esiste una comunità fiorentissima e un collegio di educazione da loro ben diretto per fanciulle di civile condizione»[65].

La ripresa della vita claustrale a Catania non è dovuta ad una comunità benedettina tradizionale. É piuttosto il frutto maturo di una modulazione, nuova per l’Italia, della Regola: quella, appunto, delle Benedettine dell’Adorazione Perpetua del Santissimo Sacramento. Impiantatesi dalla Francia in Italia appena nel 1880, in modo rocambolesco ma certo provvidenziale, nell’arco del ventennio successivo devono affrontare non lievi difficoltà per consolidare la loro presenza. Ma è la disponibilità a rivitalizzare la plurisecolare presenza del monachesimo benedettino femminile a Catania che segna l’avvio dell’espansione del carisma mectildiano nell’isola e in altre regioni italiane. Con un percorso ideale di progressiva risalita della penisola, le Benedettine dell’Adorazione Perpetua danno così un significativo contributo a mantenere o rifondare la presenza claustrale femminile in diverse chiese locali[66].



[1] G. Zito (cur.), Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna. Atti del I convegno internazionale organizzato dall’Arcidiocesi di Catania (25-27 novembre 1992), Torino 1995.

[2] A. Longhitano, Conflitti di competenza fra il vescovo di Catania, i benedettini e gli ordini mendicanti nei secoli XV e XVI, in Benedictina 31 (1984) 177-186, 359-386; G. Zito, Monasteri benedettini della Sicilia orientale il caso Catania, in F. G. B. Trolese (cur.), Il Monachesimo italiano dalle riforme illuministiche all’Unità nazionale (1768-1870). Atti del II Convegno di studi sull’Italia Benedettina (Abbazia di Rodengo, Brescia, 6-9 settembre 1989), Cesena 1992, 149-177; Id., Benedettini a Catania tra conflitti e riforma. La visita abbaziale del 1822 a S. Nicola l’Arena, in F. G. B. Trolese (cur.), Monastica et Humanistica. Scritti in onore di Gregorio Penco O.S.B., Cesena 2003, 519-560, con bibliografia.

[3] G. Zito – C. Scalia, Fonti per la storia della diocesi di Catania: l'Archivio Storico del Seminario, in Synaxis 1 (1983) 294-313.

[4] G. B. De Grossis, Catanense dechacordum, 2 voll., Catanae 1642-1647; P. Castorina, Cenno storico sui monasteri di Catania, Catania 1864, che però dà la presenza in città di San Giuliano dal 1295; M. L. Gangemi, San Benedetto di Catania. Il monastero e la città nel Medioevo, Messina 1994; Ead. (cur.), Il tabulario del monastero San Benedetto di Catania (1299-1633), Palermo 1999.

[5] A. Longhitano, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1702-1717), in Synaxis 7 (1989) 508.

[6] A. Roccella, Il gran priorato di S. Andrea e i monasteri dei benedettini in Piazza Armerina, Piazza Armerina 1883, 133-152.

[7] A. Longhitano, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1762), in Synaxis 10 (1992) 391.

[8] Catania. Archivio Storico Diocesano (= Asd), Fondo Religiosi e Religiose. Miscellanea, fasc. Istruzioni per i monasteri 1775-1856. Anche i monasteri femminili non sfuggono alle mordaci osservazioni dei visitatori stranieri dell’isola: H. Tuzet, Viaggiatori stranieri in Sicilia nel XVIII secolo, Palermo 1988, 395-397.

[9] A. Pusateri, Riforma del clero e del monachismo di Sicilia. Progetto proposto a Sua Maestà Ferdinando III re delle Due Sicilie ec. ec., ai vescovi di questo Regno, e al Siculo General Parlamento, Palermo 1815, 178-184.

[10] H. Tuzet, Viaggiatori stranieri, cit., 387-388. Sul clima culturale, cfr. G. Giarrizzo, Illuminismo, in Storia della Sicilia, dir. da R. Romeo, IV, Palermo 1980, 711-815; G. Milazzo – C. Torrisi (curr.), Ripensare la Rivoluzione francese. Gli echi in Sicilia, Caltanissetta-Roma 1991.

[11] C. Naselli, Italia. VIII: Le soppressioni napoleoniche, in Dizionario degli Istituti di Perfezione (=Dip) 5, 211-217; G. Martina, Italia. IX: Gli istituti religiosi in Italia dalla Restaurazione alla fine dell’800, ibid., 217-233: 221-222. Per la parte continentale del territorio soggetto ai Borbone, cfr. M. Miele, Soppressione. 1806-8, 1808-15: Regno di Napoli, ibid., 8, 1850-1858.

[12] Asd, Fondo Statistica, carpetta 2, fasc. 8.

[13] A. Longhitano, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1844-1856), in Synaxis 13 (1995) 483.

[14] Una visione d’insieme in G. Martina, Soppressione. 1866: Italia, in Dip, 8, 1872-1876.

[15] Per il monastero Sant’Agata: Asd, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 2, fasc. 3, al 1 agosto 1866; Monastero San Benedetto: ibid., carpetta 3, fasc. 1, al 19 maggio 1867; Monastero San Giuliano: ibid., carpetta 8, fasc. 6, al 12 maggio 1866; Monastero San Placido: ibid., carpetta 13, fasc. 3, al 29 maggio 1867; Monastero Santissima Trinità: ibid., carpetta 18, fasc. 2 al 19 giugno 1866.

[16] A. Longhitano, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1869-1890), in Synaxis 14/2 (1996) 278. La sorte del monastero della Santissima Trinità è attestata pure dal questore al prefetto: Catania. Archivio di Stato (=As), Prefettura. Affari generali, Inv. 14, pacco 234, fasc. 4. La consegna della chiesa avviene il 20 luglio 1869: Asd, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4 fasc. f): Santissima Trinità:

[17] A. Longhitano, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1869-1890), cit., 285-286. Nelle successive relazioni ad limina Dusmet fa un semplice richiamo alla persistente presenza in diocesi di comunità monastiche femminili.

[18] Notizie sui monasteri femminili soppressi, a firma dal prefetto di Catania, in As, Prefettura. Affari generali, Inv. 14, pacco 234, fasc. 4: monastero Sant’Agata: 20, monastero San Benedetto 22, monastero San Giuliano 20, monastero San Placido 20. Al 22 ottobre 1878 il loro numero è diminuito a causa della morte di alcune monache: monastero Sant’Agata: 17, monastero San Benedetto 54, monastero San Giuliano 19, monastero San Placido 19. Sono le monache cui l’Intendenza di Finanza corrisponde la pensione prevista dalla legge di soppressione: As, Prefettura. Affari generali, Inv. 14, pacco 234, fasc. 4.

[19] Il questore al prefetto, 7 luglio 1882: bid., fasc. 3.

[20] Archivio Segreto Vaticano, Congr. Concist., Relat. Dioec., Catania, 1908).

[21] L’art. 6 prevedeva che le comunità «ridotte al numero di sei, potranno venire concentrate in altra casa»: G. D’Amelio, Stato e Chiesa. La legislazione ecclesiastica fino al 1867, Milano 1961, 529.

[22] Asd, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4: ampie testimonianze nei diversi fascicoli relativi ai monasteri.

[23] Ibid. fasc. b): San Giuliano

[24] Ibid., fasc. d): Sant’Agata. Nei primi giorni di novembre del 1917 muore la prioressa.

[25] Anche le monache di questo monastero hanno del denaro nella cassa diocesana. Ma l’ultima monaca e le zitelle si riducono a vivere di stenti perché la curia decide di «conservare i capitali alla chiesa» e assegnare loro la rendita annua senza decurtare il capitale. «Il fine era santo, […] ma il mezzo non fu né equo, né prudente, perché nel monastero, a causa del rincaro universale, si tirava una vita piena di stenti fino quasi alla fame, e fino al freddo»». Memoria del rettore della chiesa Mons. Salvatore Fazio sul Monastero di S. Agata: 10 marzo 1931, in Asd, Fondo episcopati. Mons. Carmelo Patané: chiese di Catania, S. Agata al Monastero.

[26] Asd, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4, fasc. e): San Placido

[27] Una visione più ampia e articolata, in G. Zito, Una scommessa della Provvidenza. Maria Marletta nella Chiesa di Catania, Catania 2001.

[28] G. Zito, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Acireale 1987, 369-374; Id., Sacramentine di Catania, in Dip, 8, 166-168.

[29] Asd, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 1.

[30] Asd, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4 fasc. a): San Benedetto

[31] Ibid.,

[32] Asd, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 4. L’amministrazione comunale e la Prefettura avevano rifiutato il monastero e la chiesa perché ritenuti insicuri e di vecchia costruzione. Il costo complessivo del riscatto pare si sia aggirato intorno ad un milione di lire e Francica Nava paga «pur convinto com’era che gli si chiedesse il superfluo»: A. Toscano Deodati, Il cardinale G. Franica Nava, arcivescovo di Catania, Milano, 308.

[33] Asd, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 4.

[34] Asd, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4 fasc. a): San Benedetto

[35] G. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878). Atti del quarto Convegno di Storia della Chiesa (La Mendola 31 agosto – 5 settembre 1971). Relazioni, I, Milano 1973, 237-239.

[36] Chiedeva come comportarsi nella prima relazione ad limina del 1869: Longhitano, in Synaxis 14/2 (1996) 289. Nella risposta, la Sacra Congregazione del Concilio lo invita a rivolgersi alla Sacra Congregazione dei vescovi e regolari: ibid., 294. Non risulta, comunque, che durante il suo episcopato siano state permesse professioni monastiche.

[37] G. Saletti, Mons. Giuseppe Vizzini. Vescovo di Noto, antico professore della Pontificia Università Lateranense, Roma 1965; S. Guastella, I vescovi della diocesi di Noto, Noto 2002.

[38] Lettera del 4 novembre 1909, inviata da Mondovì dove si trovava in visita apostolica: Asd, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 3.

[39] Celestino Colombo (1874-1935), a seguito della predicazione di un corso di esercizi spirituali alle monache, nel 1899, prima del trasferimento della comunità da Seregno a Ronco di Ghiffa, diventa il loro “padre”: se ne prenderà attenta e zelante cura, nella qualità di confessore, direttore spirituale, superiore ecclesiastico, consigliere e guida fino alla sua morte: F. Consolini, Padre Celestino Maria Colombo e le Benedettine dell'Adorazione Perpetua del SS. Sacramento in Italia, in Deus absconditus 86 (1995) inserto di 36 pp. al fasc. 3.

[40] Asd, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 3. Sull’istituto, cfr. G. Lunardi, Benedettine dell’Adorazione Perpetua del SS. Sacramento, in Dip, 1, 1255-1258.

[41] Archivio del Monastero di Ronco di Ghiffa (=Amrg), Annali, 1910, 96.

[42] Amrg, Carteggi, Catania. Per la chiesa del monastero, cfr. A. Dillon, La chiesa di San Benedetto a Catania e gli affreschi di Giovanni Tuccari, Catania 1950.

[43] Sulle due monache ottime referenze dà a Francica Nava il vescovo di Novara, Giuseppe Gamba, il 6 settembre 1910: «Sono poi in grado di poter assicurare V. E. che le due monache inviate sono veramente buone, piene dello spirito religioso ed anche capaci a governare cotesto monastero conforme ai santi desiderii di V. E.. Esse infatti erano due religiose delle più distinte per ogni riguardo qui nella Comunità, della quale io devo lodarmi sinceramente»: Asd, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 3.

[44] Lettera della priora di Ronco di Ghiffa, madre Caterina Lavizzari, a Francica Nava, 13 aprile 1910: ibid.. Luigia Lavizzari (1867-1931) emette la professione monastica nel 1891 col nome di suor Maria Caterina di Gesù Bambino; dopo qualche anno di vice priora e maestra delle novizie, è priora della comunità dal 1900 alla morte. Al suo coraggio, sostenuta da Celestino Colombo, si deve la decisione di inviare monache in altri monasteri della penisola. Nel 1956 si è aperto il processo informativo diocesano per la causa di beatificazione: La serva di Dio madre Caterina di Gesù Bambino: Luigia nob. Lavizzari 1867-1931, priora delle Benedettine Adoratrici Perpetue del SS. Sacramento Ronco - Ghiffa (Prov. Novara), Borla, Torino 1965; Congregatio pro Causis Sanctorum. Novarien., Canonizationis Servae Dei Caterina a Jesus Infante (Luigia Lavizzari), Priorissae e Sororibus Benedectinis a SS. Sacramento Adorationis et Reparationis Perpetuae Monasterii Ghiffae ad Runchum (1867-1931). Positio super vita et virtutibus, 2 voll., Romae 1995 (=Positio).

[45] Lettere del 17 e 18 aprile 1910, in Amrg, Carteggi, Catania.

[46] «Durante la vostra dimora in Catania abbiate sempre in mente che Iddio vi à quivi condotte per la vostra santificazione: lavorate, lavorate, dilette figlie, a vincere i difetti che accompagnano la vostra miseria; e se fino ad oggi il vostro lavoro di perfezione si limitava in voi e per voi, sappiate che in seguito dovrà estendersi anche ad altrui favore». Catania. Archivio Monastero San Benedetto (Amsb), Carpetta Cenni storici.

[47] Durante la traghettata «che momento d’angosciosa agonia! Mi si rappresentava la mia diletta M.a Priora che avevo lasciata, il mio Convento... l’idea fosca fosca di quello che avrei trovato... insomma fu tale il dolore che se mi fossi trovata a Genova, sarei stata tentata di ritornare»: Amsb, Annali del Monastero San Benedetto, 1910-1953, 5. Ampi stralci degli «Appunti» di suor Scolastica Sala sono editi in Tibi honor tibi gloria. 26 maggio 1910 - 1960, a ricordo del cinquantesimo della fondazione delle Benedettine del SS. Sacramento nel monastero S. Benedetto in Catania, Catania 1960, 25-29.

[48] Lettera di Francica Nava a madre Caterina: 27 maggio 1910, in Amrg, Carteggi, Catania. A circa un mese dal loro arrivo, l’anziana prioressa, suor Scolastica Musumeci, tesse a madre Caterina gli elogi delle due suore: «E di nostra Madre Superiora Scolastica che dirle? Non so di dove incominciare, tutte le virtù si trovano in lei, che Dio possa darmi grazia benché vecchia di poterle in me ricopiare; ma poi è così cara, che solo vederla io mi sento rinvigorire; e lo stesso posso dirle di quell’angioletta di S.r M.a Matilde, che è un vero esemplare a chiunque ha la fortuna di avvicinarla»: ibid.

[49] Amsb, Annali del Monastero San Benedetto, 1910-1953, 6-7.

[50] Lettera a Francica Nava del 30 maggio 1910: Asd, Fondo Religiosi e Religiose, C.F., carpetta 6, fasc. 3. Sarebbe interessante approfondire il rapporto tra l’Allegra e le Benedettine dell’Adorazione Perpetua, che trovano una Catania religiosa particolarmente sensibile alla pietà eucaristica.

[51] Amsb, Annali del Monastero S. Benedetto, 1910-1953, 7.

[52] Amsb, Annali del Monastero San Benedetto, 1910-1953, 7-9.

[53] Copia in Amrg, Carteggi, Catania. Dopo la morte di suor Rosina viene stampata una breve biografia  per mantenerne viva la memoria almeno in coloro che l’hanno conosciuta: Suor Rosina Crippa religiosa oblata nel monastero delle Benedettine del SS. Sacramento in Catania, s.n.t.

[54] G. Giarrizzo, Catania, Roma-Bari 1986, 178; G. Di Fazio, Giuseppe Di Stefano. Cattolici e mondo operaio a Catania, Torino 1997.

[55] Particolarmente attive in questo settore, dalla fine dell’Ottocento, sono a Catania le suore Figlie di Maria Ausiliatrice, grazie allo zelo dell’ispettrice Madre Maddalena Morano, che nel 1899 ricevono dal Provveditorato l’autorizzazione per aprire la scuola elementare femminile e il convitto per le ragazze: G. Zito, Educazione della donna in Sicilia tra Otto e Novecento. Le Figlie di Maria Ausiliatrice e Luigi Sturzo, Roma 2002.

[56]: Asd, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4 fasc. a): San Benedetto.

[57] G. Scalia, Madre Domenica del S. Rosario priora del monastero S. Benedetto e la sua missione benedettina in Catania, Catania 1958, 113-120. Con regio decreto del 5 gennaio 1939, n. 419, in esecuzione del testamento olografo di Francica Nava, del 30 settembre 1925, l’istituto scolastico viene eretto in ente morale con la denominazione di “Pio Istituto educativo San Benedetto” e viene approvato il relativo statuto: Ministero dell’Educazione Nazionale, Bollettino ufficiale. 1. Leggi decreti, regolamenti e altre disposizioni generali, n. 12 del 21 marzo 1939. A favore del monastero San Benedetto Francica Nava devolve beni e capitali degli altri monasteri benedettini che man mano sono costretti a chiudere definitivamente: nel 1916 del monastero Santissima Trinità e, come ricordato, nel 1928 del monastero San Placido. Asd, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4 fasc. e): San Placido e fasc. f): Santissima Trinità.

[58] Cfr. G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma 1992, 203-204.

[59] Lettera del 4 gennaio 1911 di Francica Nava a madre Caterina in Amrg, Carteggi, Catania.

[60] Ibid.

[61] Amsb, Annali del Monastero San Benedetto, 1910-1953, 8.

[62] Il 25 marzo precedente, all’età di 72 anni, era morta anche l’anziana prioressa, suor Scolastica Musumeci, dopo aver emesso i voti dell’Istituto «sul letto di morte»: ibid., 9-10.

[63] A seguito della promulgazione del Codice di Diritto Canonico, 1917, è necessario rivedere il testo delle Costituzioni: sono ancora in vigore quelle approvate da Clemente XI nel 1705. Anche Francica Nava viene interpellato per la loro revisione e più volte interviene presso la Sacra Congregazione dei Religiosi per sollecitarne l’approvazione, ottenuta con decreto di Pio XI del 28 febbraio 1928: Asd, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 34, fasc. Sacra Congregazione dei Religiosi; Amrg, Carteggi, Catania.

[64] A suor Sala ne scrive 60 in due mesi e 147 a suor Terruzzi dal 1912 al 1930. Nel 1913, da marzo a giugno, la Lavizzari si reca a Catania e vi torna una seconda volta nel 1922: Positio, 270.

[65] Lettera del 14 aprile 1928 in:  Asd, Fondo episcopati. II. Sezione 1867-1930: card. Giuseppe Francica Nava, carpetta 4 fasc. e): San Placido

[66] Per lo sviluppo dell’istituto, rimando a: G. Zito, Le Benedettine dell’Adorazione Perpetua in Italia (1880-1960), in G.B.F. Trolese (cur.), Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II. Atti del III Convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Badia di Cava dei Tirreni, Salerno, 3-5 settembre 1992), Cesena 1995, 331-371. Le nuove fondazioni, dopo Catania, negli anni del priorato della Lavizzari, con monache della comunità di Ronco di Ghiffa: Sortino 1913, Teano (Santa Maria in Foris) 1914-1917, Piedimonte Matese (San Benedetto) 1922, Modica 1924, Ragusa Ibla 1924, Sorrento 1925-1930, Teano (Santa Caterina) 1926, Piedimonte Matese (Santissimo Salvatore) 1926, Alatri 1927. In seguito, Lucca 1936, Genova 1978 trasferita a Castel Madama 1985, Gallarate 1965, Noto 1978, Monterchi 1984.