Deus
absconditus, anno 76, n. 2, Aprile-Giugno 1985, pp. 36-43
Dom Jean Leclercq osb
I – Evangelizzare l’adorazione
Al vostro convegno di Hamicolt è stato proposto il tema «Adorazione ed Evangelizzazione», io preferirei la formulazione «Evangelizzare l’adorazione». Si predica di tutto, si proclama di tutto, compresa l’azione sociale, ma poco la preghiera. In parrocchia, almeno una volta all’anno, ci dovrebbe essere una predica sulla vita contemplativa: non per fare propaganda, ma se la preghiera è – come lo è – una parte sostanziale della Chiesa, si deve dunque predicare anche la preghiera, la vita di preghiera contemplativa, come si predicano la carità, l’azione sociale, le missioni, ecc.
Penso che il vostro compito, sorelle, sia questo: «Evangelizzare l’adorazione».
Ciò può farsi in due modi: mostrandola, prima di tutto! Mostrare con i fatti è la prima testimonianza in sé (la gente si rende conto che esiste un problema dai fatti). E parlandone, occasionalmente o in parlatorio o per lettera (che è una forma tradizionale).
Il vostro carisma è vivere l’adorazione e poi, mostrarla e insegnarla un po’. Questo è il vostro dovere nella Chiesa: di dedicarvi alla vita di preghiera adoratrice. A che scopo? Per realizzare la vostra vocazione.
Domandiamoci prima di tutto: esistono di queste vocazioni? Sì. Il Signore le suscita nella Chiesa: quindi esse hanno il diritto di trovare dei luoghi dove realizzarsi. Questa sarebbe una giustificazione sufficiente del vostro posto nella Chiesa. Il vostro carisma nella Chiesa consiste nell’essere dei luoghi dove queste vocazioni, questi carismi dello Spirito si possono realizzare.
Voi dovete mantenere nella Chiesa questa forma tradizionale di preghiera adoratrice anche riparatrice, che è tradizionale (cioè trasmessa da tutto il passato della Chiesa) e ancora oggi ben vivente: voi lo testimoniate, come pure tante altre monache adoratrici del vostro Istituto e di altri Istituti.
Io conosco uno di quei monasteri che – sotto l’influsso delle mode teologiche di vent’anni fa – ha abbandonato l’adorazione e adesso vorrebbe tornare a riprenderla. Perché di fatto manca qualcosa nella Chiesa quando non si realizza più questa forma.
Dovete dare la possibilità ai laici di unirsi alla vostra forma di adorazione: siano dei giovani, siano degli ospiti, o gruppi, ecc. E anche se non fanno l’adorazione, al vostro contatto raccolgono il frutto della vostra vita di preghiera, che potete condividere con loro e stimolare in essi. Il solo fatto di condividere con loro, di essere lì a pregare con loro, crea l’atmosfera.
Dovete chiedervi: perché vengono qui e non vanno in altri luoghi di azione cattolica o di azione sociale o di ricerca teologica? Perché questa vostra vita di preghiera crea un’atmosfera... e allora vengono qui per partecipare a questa vostra vita che è qualcosa di nuovo, di unico nella Chiesa : questo è il vostro carisma!
Certamente non è molto spettacolare, ma non tutti i carismi sono di propaganda... e di mass media!
È questa la vostra forma di apostolato! Sua Santità Paolo VI la definiva con il termine di «irradiazione». Egli, come il Papa attuale, e già i precedenti, aveva una visione molto chiara di come situare la vita monastica nella Chiesa.
Noi alle volte siamo tentati di far di tutto, di fare anche ciò che gli altri fanno e fanno meglio, perché hanno una tradizione, un’organizzazione, una preparazione inerente al loro carisma... Mentre il Papa che è al vertice della Chiesa, che vede tutti, sa bene cosa può chiedere ai Gesuiti, agli insegnanti, alle Ospedaliere, ecc., e poi ai monaci e alle monache.
Ma questa «irradiazione» non è lo scopo della vostra vita: non siete entrate qui per far questo, se non in casi eccezionali. Quindi questa specie di apostolato non è la giustificazione della vostra vita. È un sovrappiù.
Se c’è la preghiera, ci sarà in qualche modo una forma d’irradiazione.
Ma non dovete giustificarvi, né giustificare altri, dicendo: «anche noi siamo utili!». No! Beati gli inutili! È una beatitudine importante questa». Inutili in apparenza, ben s’intende!
Quindi la preghiera ha un valore assoluto in se stessa. La vita di preghiera contemplativa, la preghiera in generale, specialmente la preghiera adorante e riparatrice ha un valore in se stessa! È un problema di fede! Ci crediamo o no? Dal momento che siamo venuti in monastero vuol dire che ci crediamo, ma dobbiamo rinnovare e riaffermare e precisare, elaborare un po’ la nostra fede: fede nella preghiera!
Ed è per questo che si deve predicare sulla preghiera, sul mistero della preghiera, allo stesso modo che si predica sugli altri misteri: la vita eterna, il matrimonio, ecc. Almeno una volta alla domenica si dovrebbe parlare di questo mistero e non soltanto pregare per ottenere, ma pregare per adorare e riparare.
Questo è un vasto problema.
La parola «irradiazione» anziché «apostolato», «attività», «missione», è molto rivelatrice. È un’immagine, è poetica: c’è la luce, c’è il fuoco, il calore. Paolo VI era un poeta, come lo sono tutti i mistici.
II – Gli aspetti pratici dell’adorazione
Vorrei parlarvi di alcuni punti sulla pratica dell’adorazione. Vi do alcuni suggerimenti e poi voi vedrete cosa ritenere. Quanto vi dico è frutto dei miei vari incontri con monache adoratrici e delle mie letture.
Ho trovato un bell’articolo di una Sr. Mary Dolorose (irlandese, superiora generale delle adoratrici del SS. Sacramento, del secolo passato): è apparso su «Communio», n. 11 del 6.11.1977. Parla del linguaggio moderno dell’adorazione, come viene praticata da loro, e parte dalla Trinità:
«Il Padre cerca adoratori che lo adorino in spirito e verità. Il Padre cerca l’uomo e l’uomo cerca sempre, ma specialmente oggi in cui la società è così povera di stimoli spirituali. L’adorazione è proprio l’incontro di questi ricercatori. S’incontrano nello Spirito Santo in presenza del SS. Sacramento».
Si fa presto a dire che l’adorazione è l’incontro fra Dio e l’umanità, però è un gran mistero teologico, dottrinale e pratico. Gesù è il perfetto adoratore, l’unico adoratore. Noi dobbiamo lasciarci prendere dal suo amore, dalla sua adorazione.
E perciò l’adorazione non consiste nel fare qualcosa, né nel dire qualcosa, né nel parlare o chiacchierare, l’adorazione consiste nel lasciarsi prendere e portare da Gesù stesso.
Nell’adorazione ci esponiamo totalmente all’azione di Gesù: ed è solo così che diventiamo adoratrici.
Il primo elemento dell’adorazione è il «silenzio». L’Eucaristia conduce al silenzio, provoca il silenzio, esige il silenzio. Se Gesù si dà in silenzio non è perché noi parliamo, ma perché impariamo a stare zitti davanti alla Sua presenza. La prima cosa che Maria SS.ma ha insegnato a Gesù è questo silenzio. Come tutte le mamme, certo, Maria ha insegnato a Gesù a parlare, ma poi col suo stesso silenzio ha insegnato pure il silenzio a Gesù e noi tutti.
Così Gesù nell’Eucaristia ci insegna il silenzio: un silenzio pieno di adorazione, di contemplazione, grazie al quale ci sentiremo più dati e abbandonati, fino alla fine, al suo amore.
Adorare consiste nel metterci alla presenza di Dio e lasciarci guardare da Lui così come siamo, fin nelle più intime fibre del nostro essere. È una esposizione reciproca: esposizione del SS. Sacramento ed esposizione di noi stessi. È Lui che deve irradiare, noi dobbiamo lasciarLo fare. È questo l’amore: adorare è amare.
Però questa attività semplice dell’adorazione suppone un «distacco», suppone la spoliazione totale di ogni egoismo, cioè distacco totale da tutto ciò che potremmo dire, fare, pensare da noi stessi. D’accordo: non possiamo impedirci di pensare e parlare interiormente: però tutto questo è al di fuori dell’azione di Dio stesso: il Padre ci chiama e ci manda al suo Figlio nello Spirito.
La pratica stessa dell’adorazione vi insegna ad inserire la «riparazione» nell’adorazione. L’atto, l’atteggiamento di adorazione è già in se stesso un atteggiamento di riparazione, perché ci obbliga ad un certo ascetismo, ad un distacco, ad un silenzio, ad un vuoto.
C’è una serie di difficoltà che si possono incontrare nell’adorazione:
1. Difficoltà della fede: credere nell’Eucaristia e crederci sempre, non è una cosa facile. Possono venire dei momenti nei quali ci poniamo delle domande (tanto più che se ne pongono anche i teologi!).
2. Difficoltà dell’intelligenza, che vengono se cerchiamo di riflettere sul Mistero contenuto nell’Eucaristia.
3. Difficoltà soprattutto del nostro cuore, che resta sempre da purificare, se vogliamo metterci nella condizione di presenza, di ricettività, di oblatività. Dobbiamo lasciare a Dio l’iniziativa nella nostra vita. L’obbedienza ha proprio questo vantaggio: essa ci purifica, ci libera da tutto l’inutile, da tutto ciò che in noi potrebbe ostacolare l’azione di questa presenza adoratrice.
Questa disponibilità ci accompagna nella successione di momenti o di ore di adorazione con gli altri tempi di lavoro o con altre forme di preghiera, vissute sempre in continua condizione di adorazione alla «memoria di Dio».
Ve ne ho già parlato l’aprile scorso, ma penso sia importante ripeterlo. È uno dei temi più frequenti in tutta la tradizione monastica antica e negli studi recenti. «Memoria» vuol dire avere in noi, lasciare penetrare in noi questa Presenza. Gli antichi ne parlavano a proposito dei Salmi o della lettura dei testi sacri, con il termine di «lectio divina». È una «memoria» che ci penetra e ci dà gioia, mette la presenza di Dio in noi, in modo che poi ci ricordiamo facilmente e con diletto di Lui.
A questo proposito c’è un salmo che i Padri commentavano volentieri e che dice: «memor fui Dei et delectatus sum», «mi sono ricordato di Dio e mi sono rallegrato».
Questa «memoria» è continua, e sussiste anche quando non ci pensiamo. Il filosofo francese Bergson diceva: «Je me souviens (memoria profonda), mais je ne me rappelle pas (richiamo attuale)», «me ne ricordo, ma non lo rammento». Quindi la «memoria» è un fatto costante, che viene richiamato ogni tanto. Questo discorso vale anche per la preghiera. Il ricordo di Dio è continuamente in noi ed emerge ad ogni occasione, stimolo, ecc. e rende la preghiera spontanea, anzi facile e continua. Preghiera continua, nel senso che, anche quando siamo di fretta, conserviamo questa pace.
Nella spiritualità del mondo moderno, della generazione «motorizzata», la rapidità oggi è legge. Su questo argomento ho scritto un saggio «Preghiera e velocità» che deve essere tradotto nel volume «Défi de la vie contemplative». Una delle immagini più frequenti della Bibbia per parlare dei rapporti con Dio è proprio questa: «Deus in adiutorium me festina», con la quale domandiamo a Dio di venirci in aiuto «in fretta». Ho fatto uno studio sulla «velocità nella Bibbia» come analogia dell’azione di Dio, che vuol dire che l’iniziativa è sua, e che mai cessa di darsi, di lanciare. Possiamo quindi pregare guidando. San Pier Damiani (eremita dell’VI sec.) diceva: «Andando da un luogo all’altro nel romitaggio, nell’eremo, ecc. anche quando si ha fretta, sarebbe bene dire una preghiera «flash» (cioè «rapida», una preghiera lampo)».
Questo per dimostrare che – qualunque sia lo stato psicologico – dobbiamo coltivare la continua memoria di Dio e il facile ricordo di Dio.
Tuttavia nella vita di adorazione normalmente il ritmo è calmo.
E questo ci viene richiamato dal tema che mi è tanto caro della «stabilità».
La «stabilità» non consiste nello spostarsi o meno, nel viaggiare o no, ma nella continuità di presenza serena di Dio e a Dio.
Uno dei miei ultimi saggi (apparso in inglese) è intitolato «Elogio della stabilità», con questo sottotitolo: «Dalla perennità di Dio alla serenità della monaca».
Dio è nello stesso tempo il più stabile e il più dinamico. La vita trinitaria è movimento, scambio (almeno dobbiamo concepirla così): una «danza» continua. Però nella SS. Trinità c’è nello stesso tempo una stabilità e una continuità. Noi partecipiamo alla perennità di Dio con la nostra stabilità interiore. «Vivere stabili» vuol dire essenzialmente «vivere distesi», e non sempre sotto pressione, vuol dire «mettersi a ruota libera», e non sempre in uno stato di sforzo. No! Lasciare andare... abbandonarsi!
La distensione interiore è un aspetto della stabilità. Allora una volta stabiliti a questo livello di serenità, cioè di presenza alla perennità di Dio, tutto il resto non c’importerà più. Anzi diventerà mezzo per favorire questa serenità, questa stabilità adoratrice, anche ciò che apparentemente potrebbe sembrare un ostacolo, o almeno qualcosa di estraneo all’adorazione. Tutto viene inserito, integrato, purificato. Questa è la persona monastica! Questa è la monaca unificata in se stessa, perché unita a Dio e a tutta la Chiesa.
Il primo fatto da considerare a questo scopo sono le attività psichiche che sono in noi. Mi riferisco al contributo della psicologia moderna alla dottrina dell’adorazione.
Il primo gruppo di queste attività psichiche, che può sembrare un ostacolo e che invece deve essere integrato e servire all’adorazione, è costituito dalle «distrazioni involontarie». Penso che forse non abbiamo mai avuto idee giuste in proposito, esagerandone l’importanza.
La preghiera non è un’attività su cui dobbiamo riflettere. Possiamo prima pensarci, studiare, ma poi quando la facciamo è un’attività in se stessa. Il testo della «Nube della non conoscenza» (di un Anonimo del ‘300 inglese) spiega come utilizzare le distrazioni involontarie che sono inevitabili.
Non parlo di quelle volontarie, che credo nessuno le voglia, anche se potrebbe darsi il caso che prima di presentarci alla preghiera ci mettessimo in occasioni del tutto contrarie ad essa, e allora ci prepareremmo veramente male alla preghiera.
Orbene le distrazioni involontarie, sotto l’azione dello Spirito Santo, ci aiutano ad approfondire meglio la nostra miseria e la nostra presenza di Dio, perché spesso sono prodotte dal nostro subconscio, preconscio, inconscio, ecc., e manifestano ciò che di profondo è in noi, il nostro «io profondo», come si dice oggi.
Quindi queste distrazioni non sono casuali, ma rivelano un fatto nostro, che presentiamo a Dio: stiamo di fronte a Lui come siamo, e a volte ciò non è tanto bello, vorremmo essere diverse! Ma siamo così, così ci ha fatto Dio, così Lui ci accetta e ci ama! Queste manifestazioni del nostro inconscio fanno parte del nostro essere totale e devono essere integrate, assimilate, assorbite nel nostro «essere spirituale», in presenza di Dio, nell’adorazione stessa. Spesso sono l’occasione per vedere che cosa c’è da guarire in noi: possono essere piaghe personali o difficoltà con altre persone, specialmente la difficoltà di perdonare! Ma sono tutte occasioni per guarire alla presenza di Dio nell’adorazione.
Non bisogna meditare su queste distrazioni, ne provocarle, ma accettarle, parlarne a Dio, presentandoci a Lui con ciò che si è. Non dobbiamo drammatizzare, né lottare o cercare di eliminarle, ma pacificare, guardare oltre. Non dobbiamo concentrare su questo «io» profondo, ma andare oltre e gettare tutto in presenza di Dio.
A volte ciò può essere difficile, perché verranno dei momenti in cui saremo tentati di abbandonare tutto, dicendo: non sono fatta per l’adorazione – No! È una difficoltà da assumere, da accettare e da sorpassare con la perseveranza. Questa è continuità, serenità, stabilità!
Ed è proprio nel prendere coscienza della nostra miseria che ci approfondiamo in presenza di Dio, perché è proprio questa miseria che dobbiamo presentare, offrire e sacrificare.
Allora ogni tanto, ci potrà essere oscurità, difficoltà, lotta; ma tutto questo sfocia nella pace. Non dobbiamo badare a queste cose. E questo non è quietismo, perché dobbiamo fare tutto il possibile per metterci in buone condizioni, ma poi non drammatizzare, non pensare che tutto dipenda da un nostro sforzo, da una buona cura psicologica, o altro. No! Accettarsi! E questo può essere molto doloroso! Ma è proprio l’atteggiamento dell’adorazione quello di pacificare, unificare, integrare tutto questo materiale - direi - psichico, e non sopprimerlo.
In queste occasioni dobbiamo verificare le nostre intenzioni per rinnovare la nostra attenzione a Dio. Cioè non dobbiamo cedere alla tentazione di abbandonare tutto: al contrario, perseverare. Queste distrazioni possono venire dal di fuori (es. una telefonata, una cosa che dobbiamo fare, ecc ) possono venirci dal demonio; ma soprattutto vengono da noi stessi, dai nostri conflitti, dalla diversità fra ciò che vorremmo essere e fare e ciò che siamo e facciamo.
Tutte queste distrazioni diventano altrettante occasioni di abbandono, di arrendersi totalmente a Dio. Aspettiamo che passino e rinnoviamo la nostra intenzione e attenzione per quanto possiamo. E siccome è sempre Dio che ci cerca, l’autore della «Nube della non conoscenza» ci suggerisce che le distrazioni sono una forma di purgatorio, cioè una purificazione costante della nostra miseria, e perciò altrettante occasioni di guarigione.
Dobbiamo vivere questa crocifissione delle distrazioni in uno spinto di totale abbandono. Proprio per questo dico che la riparazione viene ad essere l’adorazione stessa. Se l’adorazione fosse sempre una cosa piacevole, allora non costerebbe nulla, mentre così la difficoltà fa crescere il valore, anche se apparentemente, psicologicamente ne riduce il contenuto. Ecco come santificare le nostre distrazioni.
Attraverso tutti questi suggerimenti vediamo che l’adorazione può essere, ogni tanto, un combattimento, una lotta... ma se perseveriamo diventa una pace, e allora nel silenzio dell’adorazione ci troviamo esattamente come siamo e non come vorremmo essere, ma nella nostra piccolezza e miseria, e così saremo occasione di gioia e di felicità per noi, per tutti e anche per Dio.