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Deus absconditus, anno 101, n. 4, Ottobre- Dicembre 2010, pp. 51-54
Una pagina “ecumenica”
negli scritti di Mectilde de Bar
sr. M. Cecilia La Mela osb ap
Il capitolo quarto de Il vero spirito, dal significativo titolo Una perfetta partecipazione alla santa Messa richiede necessariamente di essere uniti a Gesù Cristo, ci offre una meditazione di grande sensibilità ecumenica [1] 1. Mectilde de Bar, partendo da una grande verità, «poiché Gesù, come Capo dei cristiani, vi si trova immolato per noi, sono persuasa che siamo tenute ad assistervi [alla Messa] come membra unite al Capo», tocca nel vivo la questione dell’unità dei cristiani. È nel sacrificio della Messa che siamo chiamati a «partecipare formalmente a ciò che Gesù fa, il quale ci immola con Lui». Viene poi spiegato il significato profondo di questa partecipazione nel fare nostre, per mezzo di Cristo, le sue stesse disposizioni: «Voglio dire che dobbiamo introdurci docilmente e semplicemente nei motivi della sua immolazione, delle sue intenzioni, nei suoi progetti e negli effetti che questo Sacrificio deve produrre». Ecco che madre Mectilde individua la validità della nostra partecipazione alla Messa proprio in questo conformarci alle motivazioni di Gesù; se ciò non avviene, la nostra partecipazione non è piena. «La motivazione di ciò sta nel fatto che quando un membro è separato dal capo, il corpo non è completo. Certamente Gesù è perfetto nel suo corpo umano e personale, ma nel suo corpo mistico ci sono di frequente delle membra separate e questa separazione comporta per Gesù un dolore infinito». In madre Mectilde era vivo il ricordo della separazione della Chiesa d’Oriente da quella d’Occidente, ma ancor più viveva il dramma delle recenti divergenze tra i protestanti e la Chiesa di Roma con le conseguenti guerre di religione e gli orrori dei sacrilegi.
Subito dopo viene riportata la rivelazione fatta da Gesù ad una delle sue spose che desiderava partecipare alle sofferenze intime provate dal Redentore durante la sua agonia nell’orto degli ulivi. Dato che è frequente in madre Mectilde il celare dietro l’anonimato la propria esperienza mistica, non è del tutto esclusa la possibilità che la sposa in questione sia lei stessa, anche perché l’immagine che ci consegna è molto forte e tipicamente sua. Ad ogni modo, non importa tanto la destinataria, quanto il messaggio della rivelazione, sia essa una intuizione interiore o una manifestazione divina vera e propria. La meditazione sulle sofferenze interiori, sembra comunque essere un assillo del cuore innamorato di madre Mectilde, tanto che ne parla più volte nei suoi scritti. Ad esempio ne La giornata religiosa scrive: «Cosa mai ha fatto di Gesù Cristo sofferente uno spettacolo degno del cielo? Furono le sue disposizioni interiori. Noi non potremmo mai abbastanza contemplare questo divino modello; è Lui che ci insegna la sofferenza come conviene. Consideriamo meno i suoi dolori e le sue pene esterne, quanto la sottomissione della sua anima santissima alla volontà di Dio, suo Padre» [2].
Quello che colpisce e addolora profondamente in questa rivelazione, e mette ancora più in rilievo la drammaticità delle parole di Gesù, sono i lamenti e i gemiti da Lui emessi: «Figlia mia, devi sapere che la mia più terribile sofferenza intima è stata causata dalla separazione delle membra del mio Corpo mistico, che sono i cristiani, dal mio Cuore. Tale sofferenza fu così forte che, senza un miracolo della mia onnipotenza, non avrei potuto sopportarla senza morire». Diversi teologi ed esegeti moderni ritengono che la grande tentazione di Gesù nel Getsemani, la preannunciata visita del maligno che, dopo la sconfitta nel deserto, si era allontanato per ritornare al tempo stabilito, sia stata proprio quella di aver intravisto il cattivo profitto che gli uomini avrebbero fatto dei frutti della sua passione e morte. Ecco allora il sudore di sangue, segno di una lotta interiore immane sfociata nel sì totale alla volontà del Padre; una offerta ancora più gratuita proprio perché il calice viene bevuto nonostante le infedeltà e gli scandali della Chiesa e dei cristiani che, purtroppo, ci sarebbero stati. «Vedevo le anime che si erano staccate da me e quelle che se ne sarebbero staccate sino alla fine del mondo, e allora il mio Cuore, afflitto per l’amore infinito con cui ama ogni anima, dovette sopportare la morte a motivo della violenta e terribile sofferenza causatagli da quel distacco». Risulta pertanto lucida e vera la denuncia del Concilio Vaticano II: «Tale divisione non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura» [3].
Con una immagine davvero sconvolgente lo stesso Gesù così parla alla sua sposa: «Figlia mia, immagina di vedere un giustiziato tirato da quattro cavalli che lo stiracchiano dai quattro lati, staccandogli le membra del corpo; ebbene questa è una pallida ombra del mio dolore. Infatti, per quanto grandi siano i tormenti sofferti da chi è squartato in quel modo, questi sono infinitamente lontani dal martirio che soffrii e dalla terribile angoscia che provai nel vedere le anime da me separate». Viene subito in mente la scena dei soldati che dopo la crocifissione si dividono le vesti di Gesù, tirando a sorte quella sua tunica tessuta senza cuciture da cima a fondo. La lettura esegetica che viene sempre fatta di questo episodio è riconducibile proprio alle divisioni all’interno della Chiesa che, invece, dovrebbe manifestarsi nell’inconsutile veste dell’unico Capo.
Continua il racconto di Gesù all’anima: «Non ci sono parole per esprimere un simile stato d’animo, proprio a causa dell’infinito e tenerissimo amore che porto ai miei diletti». E per questi diletti Gesù ha pregato nella sua ultima cena istituendo l’Eucaristia come memoriale di un amore portato sino alle estreme conseguenze: «Che tutti siano una sola cosa, come tu, o Padre, sei in me ed io in te; anch’essi siano uno in noi, cosicché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). Commenta, infatti, madre Mectilde: «Sorelle mie, da quel poco che ho detto, potete giudicare quanto sia meravigliosa la nostra unione con Gesù, e quanto gli sia sensibile la nostra separazione da Lui, di conseguenza comprendete, se è vero che, facendo parte del suo Corpo, dobbia-mo essere immolate con Lui, e che coloro che non sono uniti a Lui, sono membra separate e quindi morte, non essendo vivificate dalla linfa vitale che proviene dal Capo». È chiaro qui il riferimento al tralcio che, reciso perché non porta frutto, viene gettato via e si secca (Gv 15,2). Gesù stesso, nel Vangelo, si proclama la Vite e il Capo del corpo; rimanere in Lui è avere la vita in pienezza.
L’Unitatis Redintegratio ci ricorda che Gesù, prima di offrirsi vittima immacolata sull’altare della croce, «istituì nella sua Chiesa il mirabile sacramento dell’Eucaristia, dal quale l’unità della Chiesa è significata ed attuata» [4]. Nello stesso capitolo IV de Il vero spirito madre Mectilde definisce la Messa come «ripresentazione viva del Sacrificio della croce» [5]; la stessa definizione era stata data dal Concilio di Trento e ripresa anche da Giovanni Paolo II nella sua ultima enciclica (2003), l’indimenticabile Ecclesia de Eucharistia quando, al n.11, parla di “ripresentazione sacramentale”. Qualche pagina dopo, il Servo di Dio affermava che «nel considerare l’Eucaristia quale sacramento della comunione ecclesiale vi è un argomento importante da non tralasciare a causa della sua importanza, quello del suo rapporto con l’impegno ecumenico» (n.43). Ecco che la sottolineatura dell’Eucaristia come Sacramentum Caritatis fatta da Benedetto XVI nell’esortazione apostolica post-sinodale del 22 febbraio 2007, risulta davvero pregnante e assoluta. Il Papa afferma che «sottoli-neare la radice eucaristica della comunione ecclesiale può contribuire efficacemente anche al dialogo ecumenico con le Chiese e con le Comunità ecclesiali non in piena comunione con la Sede di Pietro. Infatti, l’Eucaristia stabilisce obiettivamente un forte legame di unità tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, che hanno conservato la genuina e integra natura del miste-ro dell’Eucaristia, al tempo stesso, il rilievo dato al carattere ecclesiale dell’Eucaristia può diventare elemento privilegiato nel dialogo anche con le Comunità nate dalla Riforma» (n.15).
La soluzione ai problemi di disunione all’interno della Chiesa è, senza dubbio, la conversione del cuore, così come sostiene il Vaticano II: «Non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione. Infatti il desiderio dell’unità nasce e matura dal rinnovamento dell’animo, dall’abnegazione di se stessi e dal pieno esercizio della carità» [6]. Ecco madre Mectilde dirci che «per non rinnovare la grande sofferenza di Gesù, dobbiamo necessariamente rimanere in Lui e, unendoci a Lui con l’intenzione e l’applicazione, fare quello che Egli fa sempre, ma in modo particolare nella santa Messa, che è il Mistero della no-stra riconciliazione e santificazione».
Le nostre comunità monastiche sono e possono diventare testimonianza ecumenica laddove la comunione con Cristo svela ed alimenta la concordia tra le sorelle. I monasteri, lungo i secoli, sono stati e sono tuttora simbolo di una grande apertura ecumenica (San Benedetto si rivolge ad ogni tipo di persona, “chiunque essa sia”). Come piccolo gregge del popolo di Dio, anche le nostre comunità, così come le famiglie, le parrocchie, la Chiesa tutta, sono chiamate a vivere il primato di Cristo nella carità: solo così il nostro impegno cristiano e religioso è veramente credibile. Perché l’Ecumenismo si costruisce a partire dalle nostre case e dal nostro cuore.
[1] C. M. De Bar, Il vero spirito delle religiose adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento dell’altare, a cura delle Benedettine dell’Adorazione Perpetua del SS. Sacramento del Monastero SS. Trinità di Ronco-Ghiffa (No), prima edizione italiana 1980 (=VS), pp. 39-41.
[2] C. M. De Bar, La giornata religiosa, a cura delle Benedettine dell’Adorazione Perpetua del SS. Sacramento del Monastero S. Benedetto di Catania, 1922, p. 210.
[3] Unitatis Redintegratio, in Documenti del Concilio Vaticano II, Milano, Ed.Paoline, 1987 (=UR), n° 1.
[4] Ibidem, n. 2.
[5] VS, p. 48.
[6] UR, n° 7.