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Deus absconditus, anno 89, n. 2, Aprile-Giugno 1998, pp. 65-87
 

Sr. Carla Maria Valli osb ap, Monaca del Monastero di Grandate (CO)
L’Eucaristia ne «il Vero Spirito»

 

Introduzione

Il centro sul quale sono imperniati la vita e il carisma di Mectilde de Bar è indubbiamente Gesù Cristo: più precisamente Cristo nel mistero dell’ Eucaristia visto come continuazione dell’Incarnazione e come perenne presenza del sacrificio pasquale.

Attorno a questo perno deve girare anche la vita di coloro che Dio chiama a vivere, sulla scia della Madre, la vocazione benedettina eucaristica.

L’esposizione più completa dell’intuizione che la Madre ha avuto riguardo a questo carisma, forse si trova ne Il Vero spirito [1]. Esso è nato proprio come piccolo sussidio per la formazione di coloro che si affacciavano alla vita monastica nei nostri monasteri.

In questo piccolo libro c’è dunque anche un mini-compendio di quelle che erano la teologia e la spiritualità eucaristica, che alimentavano la vita di madre Mectilde.

La teologia, in particolare, portava la veste del secolo XVII.

1. ALCUNI ELEMENTI DELLA TEOLOGIA EUCARISTICA NELL’EPOCA DELLA MADRE [2]

Negli anni in cui si è svolta la vicenda terrena di Mectilde de Bar ci si trovava circa ad un secolo dalla conclusione del Concilio di Trento; reduci da un’esperienza di divisione all’interno della cristianità (la Riforma protestante) che aveva scosso fino alla radice l’unità cattolica europea.

Di questa crisi si vivevano ancora le conseguenze, con episodi di lotte e guerre, che sembravano doversi trascinare senza fine.

A livello delle controversie dottrinali, uno dei punti dolenti sui quali i cattolici si sentivano maggiormente feriti era la contestazione, da parte protestante, della dimensione sacrificale e della presenza reale, legati al mistero eucaristico.

Il Concilio di Trento aveva pronunciato la sua parola autorevole e definitiva in materia, cristallizzando così una situazione che non era però priva di contraddizioni interne.

Nella vita e nella devozione dei fedeli, la risposta alle tesi protestanti si era concretizzata nel moltiplicarsi di manifestazioni di venerazione e di culto verso la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia; così come divenivano sempre più numerose le celebrazioni del Suo sacrificio nella Messa.

A confronto, era però scarsa la partecipazione alla comunione eucaristica sacramentale. Paradossalmente, più si esaltava la grandezza di questo mistero, meno lo si viveva nella sua forma piena [3]. Per questo i protestanti accusavano i cattolici di aver travisato le intenzioni del Salvatore, facendo di un sacramento che Egli da a noi (come nutrimento per farci crescere nella grazia) un sacrificio in cui noi offriamo qualcosa a Lui, ed anche una forma di idolatria, perché ciò che ci è stato dato per essere mangiato, noi lo adoriamo, rendendogli culto di latria.

Anche a livello di riflessione teologica non mancavano difficoltà. La teologia cattolica portava avanti, sull’Eucaristia, due discorsi distinti: si parlava di Eucaristia come sacramento, intendendo la via discendente attraverso la quale Dio da a noi la sua grazia, la santificazione,...e si parlava di Eucaristia come sacrificio, intendendo il movimento contrario (ascendente) col quale noi offriamo a Dio il sacrificio di Cristo suo Figlio [4].

Però, proprio su questo discorso del sacrificio la questione si faceva delicata, perché la protesta dei riformatori diventava più aspra [5].

Era difficile spiegare come il sacrificio della messa fosse realmente sacrificio. Ci si obiettava che, se ogni messa è realmente il sacrificio di Cristo, il sacrificio della croce non è più l’unico, mentre la Scrittura afferma che Cristo morì una volta per tutte (Eb 7,27). Se invece la morte del Salvatore sul Calvario è veramente stata unica e irripetibile, ogni messa non sarebbe più un sacrificio, ma solo un ricordo di quel sacrificio.

Per i Padri conciliari non fu facile approfondire l’argomento, perché l’assillo più pressante era di controbattere l’errore protestante e di ribadire la verità.

La preoccupazione apologetica impedì un discorso unitario sull’Eucaristia e i documenti che uscirono, ricalcavano sostanzialmente il dualismo teologico allora vigente. Ci fu infatti un decreto sul Sacramento dell’Eucaristia e uno sul Sacrificio della Messa [6].

Per dimostrare che il sacrificio della messa è lo stesso sacrificio della croce, il documento tridentino partì dal sacerdozio eterno di Cristo: Gesù nella cena pasquale offrì ritualmente il sacrificio che avrebbe consumato sulla croce. Come sacerdote eterno offrì un sacrificio eterno, ma per esprimere l’eternità dell’offerta, si richiede una perpetuità nel tempo. Cristo allora ordinò agli apostoli, e quindi alla Chiesa, di continuare ad offrirlo in sua memoria.

Obbediente a questo comando, la comunità dei credenti, offre ogni giorno, sacramentalmente, quello stesso sacrificio della croce, come Cristo lo offrì nella cena (prima che fosse concretamente compiuto sul Calvario). Dunque il sacrificio è il medesimo.

In questa dimostrazione però, la sacramentalità non è l’argomento fondante la realtà del sacrificio, ma solo un punto della dimostrazione. Si dovrà attendere il Concilio Vaticano II (che raccoglierà l’apporto del Movimento liturgico) per giungere ad una svolta in tal senso.

Nel frattempo, «la teologia post tridentina si preoccupò di fondare più particolareggiatamente il carattere sacrificale della messa. A questo scopo, ci si sforzò di ritrovare, nella celebrazione eucaristica concreta, i tratti essenziali e caratteristici del sacrificio come realtà presente ovunque nella storia delle religioni» [7].

Si individuarono due componenti del sacrificio: l’atto interiore o intenzione dell’offerta (oblazione) e la sua espressione esterna, ossia il suo compimento (immolazione).

A seconda dell’importanza maggiore data alla volontà oblativa di Cristo, o al suo effettivo compiersi nella morte di Croce, nacquero due tendenze interpretative: quella oblazionista e quella immolazionista, che non vanno comunque contrapposte in modo antitetico.

La teoria immolazionista vede la perfezione del sacrificio nell’immolazione della vittima: la vittima scompare e, passando, scomparendo, essa proclama che Dio solo è.

«Tutti gli esseri creati si corrompono e vengono distrutti nel succedersi dei secoli, confermando, mediante la loro distruzione, che Dio solo esiste per se stesso» [8].

Che nella croce ci sia stato l’annientamento della vittima è abbastanza chiaro; per poter affermare che anche nell’Eucaristia avviene lo stesso, si è cercato di trovare nel sacrificio eucaristico la medesima caratteristica, cioè la distruzione, lo scomparire della vittima.

Scorrendo i vocaboli usati ne Il Vero Spirito, si ha l’impressione che la teoria immolazionista abbia lasciato qualche traccia:

«Se la vittima immolata nei tempi passati, cioè prima di Gesù, avesse avuto l’uso di ragione e ad essa fosse stato richiesto il motivo di ogni sua azione: perché si nutriva ecc., essa avrebbe risposto che, qual vittima, era destinata al sacrificio e che perciò non viveva che per morire, respirando ad ogni momento solo la morte. E perché la morte? «Per attestare - avrebbe detto - mediante la mia distruzione, la sovranità infinita dell’Essere divino«. Ecco ciò che Gesù compie nell’Ostia e che noi pure tutte quante, dobbiamo fare a Sua imitazione» [9].

Forse questo è stato facilitato dal fatto che, in autori spirituali dai quali la Madre ha attinto – come ad esempio De Condren (il secondo in ordine di tempo tra gli autori della Scuola Francese) – si faceva uso di tale linguaggio sacrificale. C. De Condren aveva avuto una percezione tanto grande della maestà di Dio che gli sembrava che tutto dovesse essere distrutto per affermare che Dio solo è [10].

Questi riferimenti teologici che noi abbiamo accennato solo per sommi capi, erano la base dottrinale sottostante alla spiritualità di madre Mectilde. Tenendo presente questo presupposto, cerchiamo ora di entrare nell’orizzonte eucaristico de Il Vero Spirito.

2. COORDINATE DELLA SPIRITUALITÀ MECTILDIANA

Per poterci orientare e trovare il senso giusto delle espressioni contenute nel nostro testo, dobbiamo avere «la bussola» e sapere quali sono i punti cardinali, irremovibili, della spiritualità di allora.

A volte questi punti fermi sono così indiscutibili e dati per scontati, da non essere trattati esplicitamente, ma presupposti, così da lasciare un po’ sconcertati noi lettori del XX secolo che ci accostiamo a quella mappa di un carisma, tracciata tre secoli fa, con il nostro «senso di orientamento».

Per restare nel paragone, possiamo dire che nei parametri della Madre, il NORD, il punto di riferimento per eccellenza, è Dio, nella sua trascendenza, nella sua santità, nella sua giustizia e nella sua alterità. Egli è veramente, e Lui solo. Colui che è, il Principio inaccessibile di tutto: «Dobbiamo essere contente che Dio è “Colui che è”, che Lui solo deve esistere e tutto il resto deve essere annientato» [11]. Attraverso la sua volontà Egli crea e governa ogni cosa [12].

Dalla parte opposta, al SUD, sta l’uomo, colui che da se stesso non ha consistenza. Colui che perciò è nulla [13]: nulla di essere, cioè non esisterebbe se Dio ad ogni istante non lo sorreggesse con la sua volontà, ma doppiamente nulla [14], perché con il peccato (nulla di peccato) che segna la sua esistenza, egli eèsempre tendente verso la morte, verso il non essere, verso l’opposizione a Dio, Vita e Fine dell’uomo. Tale constatazione giunge a strappare alla Madre una punta di invidia per le creature prive di coscienza e di libertà, perché esse non escono mai dal fine per cui Dio le ha create [15].

Questo essere umano, già così fragile, deve anche continuamente stare in guardia, perché è insidiato dalla natura e dai sensi [16].

Questi termini, per quanto è dato di capire nell’insieme de Il Vero Spirito, indicano la percezione della realtà priva della luce della fede. L’uomo è sempre portato a cercare ciò che lo appaga, ciò che gli sembra bene, ma secondo una prospettiva empirica, tangibile. La realtà di Dio invece, in quanto appunto spirituale, inaccessibile, perfetta, è, secondo la Madre, sempre al di là di questa «sperimentabilità» umana e l’uomo ne può fare esperienza solo nell’amore che sa fidarsi, nella fede appunto [17].

L’uomo dunque, oltre che essere caratterizzato dal nulla di essere e dal nulla di peccato, è anche facilmente disturbato, distratto nel suo orientamento a Dio, dalla propria tendenza ad autogestirsi [18].

Ad EST dei nostri punti cardinali, possiamo collocare il mistero dell’Incarnazione. Realtà tanto più grande ed inaudita, quanto santissimo e inaccessibile è Dio e quanto debole e segnato dal peccato è l’uomo [19]. Per renderci conto dell’importanza di questo mistero, notiamo che ne Il Vero Spirito è trattato esplicitamente in due capitoli (IX e X), per mostrarne la relazione con l’Eucaristia.

Ad OVEST poniamo il mistero della Pasqua di Cristo: della sua sofferenza, morte e risurrezione.

Dati i punti cardinali, pensiamo che: il Verbo è apparso all’orizzonte della storia con il mistero dell’Incarnazione; come sole ha percorso il «cielo» della condizione umana ed è giunto a toccare l’uomo nella sua povertà. L’ha toccato pienamente, tanto da assumerne tutta la fragilità e da giungere all’occaso «fatto peccato» [20], accettando per sé tutta l’oscurità che il peccato merita in quanto è allontanamento da Dio, fonte di luce e di vita [21]. Nel mistero dell’annientamento della croce. Egli ha nascosto tutto il suo splendore divino ed è entrato nella notte della morte, per poi risorgere e comunicare a noi la sua vita risorta.

Tutto questo è per la Madre, come per noi, il paradigma di quanto Dio ha amato il mondo (cf. 1 Gv 4,9-10; Rm 8,32).

Tutto questo mistero di amore e di redenzione è presente nell’Eucaristia, che è il memoriale della nostra salvezza:

- nell’Eucaristia c’è la santità, l’immensità, la magnificenza di Dio, perché Colui che è presente nell’Eucaristia è il Verbo incarnato, il Verbo eterno, Colui che è uguale al Padre [22];

- nell’Eucaristia continua l’annientamento dell’Incarnazione, perché, come Dio si è «svuotato» della sua gloria per rendersi presente in un piccolo corpo di carne, così si annienta rendendosi presente in un piccolo pezzo di pane [23];

- nell’Eucaristia c’è il sacrificio della croce e dunque, secondo la Madre, Gesù vero uomo, trattato come un peccatore e quindi «spaventato» dalla inesorabile giustizia di Dio; che sperimenta fino in fondo la distanza dal Padre [24];

- nell’Eucaristia dunque c’è il compendio del grande amore che Dio ha manifestato al mondo.

 

Dio avrebbe potuto limitare la sua epifania d’amore alla vicenda storica del Cristo. Avrebbe potuto, ma ha voluto diversamente.

Egli ha voluto che questo incontro, tra l’altissima santità divina e la povertà dell’uomo, continuasse per tutto il corso della storia e fosse un incontro con ciascun uomo. Per questo ha voluto continuare a percorrere l’orizzonte della nostra condizione umana attraverso l’Eucaristia [25]. La pienezza dell’amore di Dio è così offerta a ciascun uomo.

Ma qui, nasce lo stupore e il dolore più grande per Mectilde de Bar: all’uomo si offre un così grande dono e, purtroppo, si ripete verso l’Eucaristia il rifiuto e il disprezzo che sono stati riservati alla presenza storica del Verbo in Gesù.

Così, nella mente della Madre, sfilano l’indifferenza, i sacrilegi e le profanazioni perpetrate contro l’Eucaristia, durante le guerre che ella stessa ha sperimentato sulla propria pelle, vivendo raminga e fuggiasca.

Alla passione che Cristo ha accettato nella propria umanità, si aggiunge una nuova e continua passione, attraverso l’Eucaristia:

- all’amore premuroso di Cristo che si offre all’uomo per unirlo a sé, risponde l’indifferenza di chi non crede o non se ne cura [26];

- all’abbassamento della Divinità che ha preso la natura umana, si aggiunge una nuova umiliazione, quando Egli, vero Dio e quindi santissimo e lontano mille miglia dal male, viene ricevuto, mediante l’Eucaristia, da persone che vivono nel peccato e che sono attaccate al male come a una seconda natura [27];

- al disprezzo che gli fu riservato nella passione, si aggiunge l’odio e la perversione di chi ruba le sacre specie dai tabernacoli e se ne serve per pratiche magiche o per ogni genere di azioni nefande [28];

- accanto a questo genere di sofferenze, ne Il Vero Spirito ne appaiono altre, legate ad una concezione piuttosto «fisica» della presenza reale [29].

Noi sappiamo che nell’Eucaristia è realmente presente il Verbo incarnato, crocifisso e risorto, che ora siede alla destra del Padre, che, in quanto appunto risorto e glorificato, è impassibile nella sua umanità. Presente nell’Eucaristia è il corpo che Egli prese dalla Vergine «Ave verum corpus natum de Maria Virgine», ma la presenza di quel corpo è reale sacramentalmente, non nella sua materialità fisica.

Nell’epoca di Mectilde de Bar si era forse al culmine di un periodo in cui nella teologia si era riflettuto in modo particolare sulla «presenza reale». Da quando Berengario nell’XI secolo, aveva negato che Cristo fosse realmente presente nelle specie eucaristiche, era iniziato nella Chiesa un processo di approfondimento del tema, che aveva condotto ad una concezione di quella presenza, sempre più di tipo «personale» [30]. Ci si accostava al Cristo presente nel sacramento, come ci si accosta ad una persona, quindi, principalmente per vederlo, per parlare con Lui.

Anche nel culto si erano moltiplicate le forme che favorivano questa concezione: importante nella messa era giungere al momento dell’elevazione, per vedere l’ostia; importanti erano i momenti di adorazione, di esposizione, in cui Gesù, come un re, veniva posto sul trono, perché tutti venissero ad inginocchiarsi ai suoi piedi. Questo ha portato però, parallelamente ad una diminuzione della frequenza alla comunione sacramentale, come abbiamo già accennato, perché questa veniva sostituita con la comunione spirituale. Forse tutto questo – come pure alcuni passi dei Documenti del Magistero – favoriva la concezione in senso fisico della presenza reale. Ad esempio, nel catechismo Ad parrochos, edito dopo il Concilio di Trento, per dare ai pastori d’anime uno strumento con cui trasmettere ai fedeli la dottrina del Tridentino, si diceva espressamente:

«Le ossa, i nervi e quanto entra nella perfezione dell’uomo, si trova qui (nell’Eucaristia) veramente unito alla divinità [...]. La divinità e tutta l’umana natura, che consta dell’anima e di tutte le parti del corpo, e anche del sangue, che tutto questo sia nel Sacramento, dobbiamo crederlo» [31].

Questo faceva pensare che un piccolo pezzetto di pane fosse un luogo ristretto per un corpo umano, come pure il fatto che dovesse restare sempre chiuso nel tabernacolo, portava ad attribuire a Gesù il titolo di «Divin prigioniero» [32] .

Anche il pensiero che le particole potessero essere portate via dal vento, calpestate o date in pasto agli animali, dava l’idea di una grande sofferenza e di una terribile limitazione per la realtà di un corpo legato alla materialità di un’ostia. Alcuni passi de Il Vero Spirito rivelano, sotto il punto di vista della sofferenza, l’influsso di una tesi teologica che vedeva anche nella distruzione delle specie sacramentali nei fedeli, dopo la comunione, una forma di annientamento, di immolazione del Cristo [33].

Tutte le sofferenze e i disprezzi che madre Mectilde vede addensarsi contro il grande mistero d’amore che è l’Eucaristia, fanno nascere in lei, come una necessità impellente, l’esigenza che ci siano persone che condividano con Cristo lo stato di vittima, persone che accettino, non solo di stare di fronte a Cristo, per accoglierlo, ma che sappiano stare con Lui, dalla sua parte, per protendersi dove Egli si protende, per ricevere ciò che Egli riceve e per accogliere chi Egli accoglie:

«Deve essere ben terribile il peccato se è stato necessario che un Dio si annientasse per distruggerlo e per meritarci la grazia di disfarcene e di rientrare così nell’amicizia di Dio! Ecco ciò che Egli è venuto a compiere nel Santissimo Sacramento, dove Egli è l’adoratore, colui che ama, colui che glorifica il suo divin Padre. Ma dobbiamo pure dire che vi si trova in stato di sofferenza, disprezzato, dimenticato, profanato. E pur tuttavia Egli non dice una parola [...]. E perché? Perché nell’Eucaristia si trova in stato di vittima. [...] Ecco dunque lo stato che anche noi dobbiamo vivere, umiliandoci profondamente davanti all’infinita maestà di Dio, mediante un duplice annientamento fatto di umiliazione, di vergogna e di confusione per i nostri peccati e per quelli dei nostri fratelli» [34].

3. I DIVERSI ASPETTI DELL’EUCARISTIA NE IL VERO SPIRITO

Visto il quadro generale, entro il quale è situata per la Madre la centralità dell’Eucaristia, veniamo a confrontare più da vicino i vari aspetti del mistero eucaristico.

Mectilde de Bar certo, lo ripetiamo, non vuole fare un trattato di teologia, ma suppone concetti teologici, come base per sviluppare una spiritualità.

Se si da uno sguardo all’indice de Il Vero Spirito, già si può vedere che, sostanzialmente, nella trattazione si è mantenuta la distinzione tra sacramento e sacrificio.

Infatti, il capitolo IV parla della partecipazione al Sacrificio della Messa e i capitoli VI, VII, VIII trattano della Comunione, cioè dell’Eucaristia come sacramento dato a noi per la nostra santificazione.

3.A. Il Sacrificio della Messa

Leggendo il cap. IV, si constata sin dal suo inizio la sintonia con la teologia della controriforma:

«Non so [...Se assolviamo bene il nostro dovere di partecipare alla santa Messa, quando la nostra mente non si concentra sul Sacrificio» [35].

Anche nelle pagine successive, dove si tratta di «che cosa pensare» mentre ci si trova ad un così tremendo Sacrificio, è sviluppata, secondo il metodo allegorico, una teoria di immagini con le quali accostare i gesti liturgici ai vari momenti del sacrificio della croce.

Quindi, l’idea che il sacrificio della Messa sia lo stesso sacrificio della croce, è indiscutibile.

E’ presente anche il concetto di Gesù sacerdote eterno, che offre se stesso al Padre per mezzo della persona del ministro [36]. Egli è il vero attore del gesto sacramentale e compie il suo sacrificio indipendentemente dalla santità del sacerdote celebrante, secondo la tesi teologica dell’efficacia ex opere operato:

«...una sola santa Messa, anche se celebrata da un sacerdote indegno, rende più gloria a Dio di quanta possono rendergliene tutte le lodi degli angeli e degli uomini» [37].

Quello che più colpisce, però, riguardo alla trattazione dell’aspetto sacrificale dell’Eucaristia, è che, subito all’inizio del capitolo, viene inserito il tema ecclesiologico del corpo mistico e l’idea paolina che la comunione al pane e al calice sia per vivificare la comunione delle membra col Capo [38]:

«Al sacrificio, perché abbia la sua pienezza, occorre la nostra parte [39] [...] Non solo dobbiamo avere l’intenzione di ascoltare la santa Messa, ma dobbiamo partecipare formalmente a ciò che fa Gesù, il quale ci immola con Lui» [40].

E’ poi presentata, con un’immagine forte, la sofferenza di Cristo per le membra del suo corpo che sono da Lui separate «Questa separazione comporta per Gesù un dolore infinito» [41].

Fermiamoci un momento. Già da questo piccolo capitolo si può intravedere l’autenticità e l’originalità del pensiero della Fondatrice: viene superata l’idea che si possa semplicemente «ascoltare» la Messa (e mancano ancora alcuni secoli prima di arrivare al Concilio Vaticano II !) e anche la concezione che l’offrire il sacrificio di Cristo potesse essere una semplice operazione vicariara «la sua offerta per pagare i nostri debiti». Si entra invece in una visione dell’Eucaristia che risale ai primi secoli della cristianità, quando la comunità celebrante sapeva che l’Eucaristia era comunione al sacrificio di Cristo, cioè, non solo essa offriva Cristo al Padre, ma offriva se stessa con Cristo [42].

Ne Il Vero Spirito c’è anche la consapevolezza che prendere parte alla celebrazione eucaristica è non solo partecipare ad un sacrificio, ma ad un banchetto sacrificale [43] in cui entriamo in comunione con tutta la Trinità:

«Sorelle mie, trovo che la santa Messa è un bellissimo banchetto, perché vi mangiamo la carne di un Dio e vi beviamo il suo sangue; gli invitati vi sono nutriti di tutto Gesù e cioè della sua divinità, della sua umanità, della sua santa anima e di tutte le sue infinite perfezioni, e per concomitanza, del Padre e dello Spirito Santo» [44].

L’introduzione dell’immagine del corpo mistico e del dramma della separazione di molte sue membra dal capo, ci da anche la chiave di lettura più cristiana del concetto di riparazione, che verrà trattato nella parte finale di questo lavoro.

Ritornando all’idea che per la teologia tridentina era difficile dimostrare che il sacrificio della Messa era lo stesso sacrificio della croce, dobbiamo dire che Mectilde de Bar ha colto il punto di contatto tra l’altare e il Calvario in un aspetto che ha assunto come programma specifico della vocazione benedettina eucaristica. Ella guarda Cristo sulla croce e vede che il suo atteggiamento è duplice: è rivolto al Padre per glorificarlo con la sua obbedienza ed è rivolto agli uomini, perché il suo amore vuole la loro salvezza. Si chiede poi: «che cosa fa Cristo nell’Eucaristia?». E’ rivolto al Padre per rendergli gloria nello scorrere del tempo, così come gliene rende nell’eternità beata, ed è rivolto agli uomini, perché è lì per donarsi a loro e per unirli a sé, come ha fatto nel sacrificio della croce [45]. Dunque l’Eucaristia e la Croce sono l’unico ed eterno sacrificio di Cristo per la gloria del Padre e la redenzione del mondo.

E che cosa devono fare le figlie del SS. Sacramento, coloro che sono chiamate a portare lo stesso stato di Cristo nell’Eucaristia? Non devono avere alcun altro interesse che fare ciò che Cristo fa: rendere gloria al Padre con tutta la loro vita e cercare la salvezza dei peccatori, facendosi solidali con la loro condizione, così come ha fatto Cristo:

«Questa immolazione continua, Sorelle mie, richiede due cose: la prima, lo sguardo puro a Dio, così come Gesù guarda sempre il suo divin Padre [...]; la seconda riguarda la salvezza degli uomini e costituisce pure il secondo scopo della nostra vocazione nell’Istituto, che è lo zelo per la conversione dei peccatori» [46].

3.B. Eucaristia - Comunione

Consideriamo in questo secondo aspetto, la tesi eucaristia-sacramento vedendo nel comunicare alla mensa eucaristica, il modo più naturale di accogliere il mistero in cui Dio ci comunica la sua grazia.

Al tema della comunione eucaristica sono dedicati ne Il Vero Spirito ben tre capitoli:                                                   

- capitolo VI: Le disposizioni che si devono avere per accostarsi alla santa Comunione;

- capitolo VII: Della santa Comunione in generale;

- capitolo VIII: L’infinito desiderio che ha Nostro Signore di comunicarsi alle anime, mediante la santa Comunione;

- il § 5 del capitolo XVI: Il dovere che abbiamo di formare un solo corpo con Gesù, dove si dice che per il perfetto compimento della celebrazione eucaristica, occorre che anche noi ci comunichiamo con il sacerdote celebrante.

L’insegnamento della Madre riguardo alla comunione si può dividere in due parti: una riguarda la preparazione alla comunione e l’altra tratta di «Che cosa avviene» in questo evento di grazia.

3.B. I. Preparazione

La comunione sacramentale è parte della celebrazione eucaristica. La celebrazione eucaristica è, come ogni celebrazione liturgica, un’azione teandrica, cioè divino-umana. Opera di Dio e opera dell’uomo.

a. La parte dell’uomo

A noi spetta certo di premettere alla comunione una «congrua preparazione» [47]. In che cosa consiste?

In una profonda umiltà e coscienza della propria fragilità, (un «dimorare nel proprio nulla», secondo il linguaggio mectildiano) unite alla consapevolezza de la grandezza di Colui che sta per venire a noi. Praticamente sono il Nord e il Sud sulla bussola di madre Mectilde.

Altra disposizione basilare è la fede, l’unica che possa introdurci nel mistero di ciò che sta per compiersi:

 

«Gustatelo [questo pane] [...] per mezzo della fede pura e nuda e allora sperimenterete che esso ha il sapore del Dio vivente. Ed è proprio mangiandolo in questo modo che avrete in voi la vita» [48].

Ai sensi non è permesso entrare nella sala del banchetto [49]. Per sensi, in questo caso, non dobbiamo pensare solo alla vista, al gusto e in genere alla razionalità umana, ma anche a quei sensi spirituali che vorrebbero, pur nella fede, essere trasportati dalla grandezza del mistero, gustare la dolcezza della presenza divina. Vorrebbero, in un certo senso, determinare le modalità di questo incontro con Dio. La Madre invece è convinta che niente di tutto questo ci è dovuto. Posta la consapevolezza della sproporzione tra ciò che siamo e ciò che riceviamo, la modalità del dono è Dio a stabilirla: a noi solo il fiducioso abbandono a ciò che egli vuol compiere: ed è questa la terza disposizione:

«Un’ottima preparazione alla santa Comunione consiste nel non ritenerci nulla, nel non desiderare nulla, nel non poter nulla, ma solo in una disposizione di abbandono totale di se stessi alla potenza di Gesù nel SS. Sacramento, per essere rivestite della sua misericordia e di Lui stesso, secondo il suo beneplacito e non secondo i nostri lumi e il desiderio dei nostri sensi. Bisogna vivere come Gesù ha vissuto per suo Padre, dobbiamo vivere di Lui e per Lui: questo è il suo disegno» [50].

Nel capitolo VII, Mectilde de Bar si diffonde ad analizzare le varie categorie di persone, secondo la loro indole e i problemi che incontrano nel comunicarsi. In tale contesto ella fa notare che la preparazione alla Comunione non è solo immediata, ma anche remota, conducendo uno stile di vita non contrario al mistero d’amore e di donazione cui si partecipa nel Sacramento:

«Per ben comunicarsi l’anima deve fare da parte sua tutto ciò che le è possibile per evitare, non solo il peccato mortale, ma anche quello veniale deliberato...» [51].

b. La parte di Dio

Tutto quello che noi possiamo fare per prepararci alla Comunione, è però nulla, perché, secondo l’antropologia che informava la spiritualità della Madre, i segni del peccato tracciati nell’animo umano sono molto profondi e:

«...tutto ciò che viene prodotto dalla nostra natura è contaminato, perché proviene da un fondo corrotto e guasto. Ma, quando anche questo fondo fosse ottimo e purissimo, chi siamo noi per poter parlare e comparire di fronte alla Sua infinita grandezza?» [52].

Ma il motivo più profondo, che mette in secondo piano i nostri sforzi di preparazione, è che l’iniziativa, anche in questo ambito, come sempre nel mistero della salvezza, parte da Dio, dalla sua volontà che è amore. E’ Lui che desidera unirci a sé mediante l’Eucaristia. E’ Lui che opera, con il suo Spirito, attraverso questo Sacramento, la nostra trasformazione:

«Ora, statemi a sentire, vi prego: quando ricevete la santa Comunione, siete voi che attuate questa unione o trasformazione? Certamente no. E’ Gesù che la compie in virtù di questo divin Sacramento. Da parte vostra basta che siate in grazia di Dio ed il resto avviene per opera dell’amore infinito di Gesù Cristo» [53].

Questo primato di Dio è ben espresso nel capitolo VIII: L’infinito desiderio che ha Nostro Signore di unirsi alle anime mediante la santa Comunione.

Esso è il compimento della trilogia di capitoli sul tema della Comunione e costituisce la prima parte delle vette del Il Vero Spirito (secondo la lettura strutturale dello stesso fatta da Véronique ANDRAL osb ap).

Sotto questo aspetto possiamo dire che l’insegnamento di Mectilde de Bar costituisce una solenne smentita alle accuse dei Protestanti riguardo alla «prevaricazione» dei meriti dell’uomo, sulla economia divina della grazia.

3.B. II. Ciò che si compie in questo evento di grazia

In una trattazione di teologia scolastica avremmo potuto dare a questa parte del discorso il titolo di «Effetto del sacramento».

Mectilde de Bar nelle sue esposizioni non usa schemi riassuntivi, anche se spesso articola in più punti il suo discorso.

Per motivi di spazio raccogliamo in tre passaggi il suo pensiero su tale argomento; ognuno, leggendo Il Vero Spirito, potrà scoprirne altri o suddividere questi tre temi in unità più specifiche.

a. Comunione: unione al Sacrificio

In questo punto, credo si possa dire che, ancora una volta, si realizza la congiunzione tra i due filoni della teologia eucaristica tridentina: sacrificio e sacramento. Dalla presentazione di questo aspetto della comunione sacramentale, pare che, secondo la Madre, ricevendo il sacramento, si compia la comunione al sacrificio:

«E’ per noi che Gesù Cristo entra nell’anima con la santa Comunione, pur senza aver bisogno di noi per preparare la stanza, o per aprire il «Sancta Sanctorum«, dove si ritira. So che entrando nei nostri cuori, giunge nel benedetto santuario della parte più intima di noi stesse, dove rinnova i suoi adorabili misteri, in modo particolare il suo sacrificio, con un frutto assai vantaggioso per l’anima. Infatti, Gesù, quando è unito a noi, sostanzialmente, per mezzo dell’Eucaristia, fa sì che noi veniamo a formare con Lui una sola cosa» [54].

Poiché sulla croce, come dice san Paolo, Cristo ha distrutto il documento del nostro debito (Col 2,14), ha crocifisso il nostro uomo vecchio (Rm 6,6), questo stesso sacrificio, compiendosi in noi, mediante la comunione sacramentale, realizza la distruzione di tutto ciò che in noi è contrario a Dio.

Questo va sottolineato: in una prassi influenzata un po’ dal Giansenismo, che tendeva alla distanza dalla comunione sacramentale, per l’idea che la debolezza umana rendesse indegni di ricevere Cristo, la Madre dice a chiare lettere che invece la nostra fragilità deve portarci maggiormente al desiderio di ricevere l’Eucaristia, perché solo Cristo ha il potere di liberarci dal peccato: «Le nostre imperfezioni devono farci desiderare la santa Comunione, proprio per la volontà di distruggerle» [55].

Dunque dobbiamo riconoscere il nostro nulla di essere e il nostro nulla di peccato, ma questo non ci deve tenere lontani dalla santità e potenza di Dio che ha voluto delle mediazioni come l’Eucaristia, proprio per guarirci.

Cristo, che compie in noi il suo sacrificio, ci offre con sé al Padre, ed essendo Egli il solo che può offrire all’Altissimo un’adorazione, un sacrificio, un servizio degno di Lui ci unisce a sé, perché anche noi possiamo offrirlo per mezzo suo [56].

b. Comunione: una sola cosa con Cristo

Per trattare questo argomento, Mectilde de Bar si riferì alla Tradizione patristica e raccoglie un’immagine biblica di particolare intensità. Nonostante la sua antropologia solitamente un po’ pessimista, prende un dato squisitamente umano: l’esclamazione piena di meraviglia dell’uomo di fronte alla donna: «ossa delle mie ossa e carne della mia carne!» (Gn 2,23).

«Gesù, quando è unito a noi sostanzialmente, per mezzo dell’Eucaristia, fa sì che noi veniamo a formare con Lui (secondo il pensiero dei santi Padri) una sola cosa, diventando ossa delle sue ossa, carne della sua carne, e, risultando talmente unite in Lui, per cui questa unione riempie di meraviglia la Chiesa intera, la quale non può né comprenderla, né sufficientemente ammirarla. Si tratta di una verità di fede, che dobbiamo credere» [57].

Questa unione è così profonda che si può dire davvero «diventiamo Gesù Cristo» anche agli occhi del Padre.

«Ecco, dunque, sorelle mie, la trovata prodigiosa, ideata da Gesù per dare all’anima la possibilità di offrirsi per suo mezzo all’Eterno Padre, in modo degno della sua grandezza. In questo Mistero divino l’anima non è per nulla separata da Gesù Cristo. E, poiché l’Eterno Padre accoglie Cristo con infinita soddisfazione, si può affermare che Egli accoglie pure l’anima unita a Lui, perché, per mezzo del SS. Sacramento, non c’è separazione tra Gesù e l’anima stessa» [58].

Addirittura dice che anche il nostro corpo è trasformato, benché questa trasformazione sia percepibile solo nella fede [59]. E’ significativo trovare riferimenti come questi! Essi smentiscono l’idea che la spiritualità monastica disprezzi tutto ciò che è corporeità e materialità: mentre in realtà è allontanato e guardato con sospetto solo ciò che il peccato ha corrotto. L’uomo, nella sua interezza, è invece ritenuto degno della vita eterna e anche il corpo è destinato alla risurrezione.

Accogliendo nella comunione sacramentale il Corpo glorificato di Cristo, il nostro corpo riceve perciò il germe dell’incorruttibilità ed in qualche modo ne è trasformato.

Mectilde de Bar ha affermato che dobbiamo partecipare al sacrificio di Cristo come sue membra, perché non è piena la sua offerta se al Capo non è unito il corpo. Ebbene, noi siamo divenuti membra di Cristo con il Battesimo, ma restiamo membra vive di Cristo con la partecipazione all’Eucaristia! Questo «divenire Gesù Cristo», non è solo l’effetto di un momento, ma è un processo vitale. Spesso si incontra nei testi della Fondatrice un’espressione curiosa: «..mangiandolo, sorelle mie, Egli ci mangia» [60]. E’, se si può usare il termine, un «essere metabolizzati» da Cristo, un entrare nella sua vita, come Egli, il Pane dei forti, diceva a sant’Agostino: «Non sarai tu a trasformarmi in te, ma sarò io a trasformarti in me» [61].

c. Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me

Nella misura in cui diveniamo «ossa delle sue ossa e carne della sua carne», lo stesso suo sangue scorre in noi. Questo è appunto il terzo scopo della Comunione: per mezzo di essa. Cristo ci vuol far vivere della sua vita divina.

A volte la Madre parla di vita divina, altre volte di vita eucaristica. Ovunque ripete che è una vita mirabile. Dice che non sa come descriverla [62], ma assicura che è vita, veramente vita [63].

Qui entriamo nella pienezza del mistero: la pasqua. Questa vita è vita pasquale, vita vivificata dallo Spirito: la vita del Risorto. Vita che si raggiunge passando per la morte (2 Tm 2,11).

Madre Mectilde l’ha sperimentata e ha constatato che non basta morire una volta sola, bisogna «vivere in una morte continua» [64].

Sembra una contraddizione in termini, eppure «chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9,24). «Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce OGNI GIORNO e mi segua» {Lc 9,23) e «Là dove sono io, sarà anche il mio servo» (Gv 12,26)... ed Egli è nella gloria.

Mectilde de Bar ci ha lasciato un saggio della sua esperienza pasquale nel cap. XII, che è la seconda vetta de Il Vero Spirito. Si è espressa usando, come Gesù, il paragone del chicco di grano. E’ uno scritto che lascia intravedere l’altezza dell’esperienza mistica a cui la Madre è giunta. Ciò che ella tenta di mettere per iscritto è il frutto di una vita di progressiva assimilazione all’annientamento di Cristo nell’Eucaristia.

Certo è difficile dire l’inesprimibile, quando poi è una realtà opposta alla ragione umana, come il «morire per vivere»... ogni discorso sembra insufficiente, perché solo lo Spirito può introdurre in una tale esperienza.

Solitamente si afferma che bisogna «provare per credere», ma qui forse, occorre anche dire che si deve «credere per provare». E’ cioè necessario vivere di fede per consegnarsi a questa logica pasquale.

3.C. Eucaristia - Adorazione

Può sembrare strano che in un compendio di spiritualità eucaristica come Il Vero Spirito non ci sia neppure un capitolo dedicato interamente all’adorazione. Ci sono solo alcuni richiami qua e là [65], ma nulla di sistematico.

E dire che il nostro nome ci definisce espressamente «Benedettine dell’adorazione perpetua del SS. Sacramento». Come mai?

Forse qui si constata che ciò che non si dice è ciò che più normalmente si fa (un esempio per intenderci: nelle notiziarie dei nostri monasteri nessuno dice mai che si fanno tre pasti al giorno o che al mattino ci si alza perché c’è un segnale che da la sveglia...non si dice perché è una cosa ovvia).

Dopo tutto quel che è stato esposto sulla grandezza del Mistero eucaristico, alla Madre non è sembrato necessario aggiungere capitoli particolari sull’adorazione, perché vien da sé, che un Mistero così grande è degno di essere adorato.

Certamente Mectilde de Bar e le sue monache vivevano l’adorazione perpetua, cioè il concreto alternarsi alla presenza dell’Eucaristia, giorno e notte. Era per esse un vero e proprio impegno, con tutti i suoi oneri. Non per nulla, tra le difficoltà che si muovevano come ostacoli alla fondazione dell’Istituto, c’era il grande dispendio di energie e di tempo che quest’impegno comportava.

Infatti il Vicario generale di Toul, Dom Lescale, dopo essere stato nella comunità d’origine della Madre, a Rambervillers, per proporre il suo progetto di fondazione e dopo averne ricevuto risposta negativa, scrive a madre Mectilde in questi termini:

«Non è scherzare il voler con 30.000 Scudi avere un fondo sufficiente per nutrire e provvedere a quante monache sono necessarie per provvedere alla suddetta adorazione? E secondariamente, per poter comprendere quanto le dette condizioni siano onerose, basta considerare la difficoltà che si ha e il disordine che causa in una Casa la sola notte del Giovedì Santo e i giorni dell’Ottava del SS. Sacramento, nei quali bisogna sempre avere qualche persona davanti al SS. Sacramento. Ah!, mia onoratissima Madre, vi assicuro che se mi offrissero 100.000 Scudi per una simile grande impresa, ci penserei e conterei più di dieci volte prima di accettare. Occorrono ben delle persone e certo un grandissimo numero per continuare una tale adorazione di notte e di giorno. Inoltre voi sapete che in tutte le Comunità vi sono sempre delle malate e inferme che non possono adempiere le funzioni ordinarie, e che quindi ce ne vuole un numero ancor più grande. Non parlerò degli altri pesi, perché questo solo è troppo grande e troppo oneroso» [66].

Eppure la Madre non è mai retrocessa su questo punto e le Comunità che vivono questo carisma mectildiano, sono consapevoli che l’adorazione perpetua non è solo un onere, ma essa è soprattutto una grazia, un dono.

Di conseguenza esse hanno sempre cercato di viverla fedelmente.

Testimonianza esemplare è quella della comunità di Rouen (Francia) che non ha mai interrotto l’adorazione perpetua neppure durante la Rivoluzione, quando le monache imprigionate, grazie a una statuetta cerea di Gesù Bambino, che celava sul petto qualche ostia consacrata, riuscirono a mantenere eroicamente i turni di adorazione, sfuggendo al controllo dei carcerieri...o aiutate dalla complicità di uno di loro [67].

Questo attaccamento ad oltranza all’adorazione viene forse dalla consapevolezza che anche il gesto cultuale dell’adorazione non è solo un atto devozionale, ma nella sua concretezza (chiede del tempo per restare presenti alla Presenza) è il mezzo necessario per far passare nella vita quegli atteggiamenti inferiori di Cristo che celebriamo nel Mistero.

La fede ci dice che Cristo è nell’Eucaristia non solo nel momento della celebrazione, ma anche al di fuori di essa, cioè anche quando è terminato il nostro apporto personale e comunitario a livello rituale. In tal modo comprendiamo che veramente, in questo Mistero, c’è la fonte. La fonte che sta a noi scoprire, la fonte alla quale noi possiamo attingere, ma che non siamo noi a far scaturire.

E’ la fonte che sgorga da Dio incessantemente e gratuitamente.

Essa merita che, altrettanto gratuitamente noi la contempliamo [68] e per essa viviamo.

La capacità di un amore oblativo e gratuito come quello che Cristo ha mostrato nella sua Pasqua e che nell’Eucaristia ci sta continuamente davanti, non è forse il culmine della vita cristiana? Ecco dunque che la fonte ci porta al culmine. Nell’Eucaristia noi viviamo e adoriamo la fonte che ci porta a compimento.

Tutto quanto è racchiuso nella celebrazione eucaristica: lode, rendimento di grazia, intercessione, offerta, esperienza di comunione, è un universo tanto vasto che non si può esaurire nel momento celebrativo. L’adorazione lo prolunga nel tempo. Essa non si può certo sostituire alla celebrazione eucaristica, ma la prepara, e in certo senso, la grazia che lì si vive in intensità, nell’adorazione può dilatarsi ed entrare più in profondità nella vita.

La Madre ci ha lasciato come programma (prendendolo dagli autori della Scuola Francese) un binomio denso di significato: adorare e aderire.

Adorare Cristo nell’Eucaristia è aderire a Lui, fare ciò che Egli fa, divenire ciò che Egli è, lasciarsi vivificare dalla sua vita. Forse proprio perché ha vissuto così la sua esistenza di cristiana e di monaca particolarmente dedicata all’Eucaristia, la Madre ha potuto concludere la sua vita terrena e ritornare a Dio riconoscendosi come creatura da Lui uscita e da Lui redenta e ripetendo, per l’ultima volta: «Adoro e mi sottometto» [69].

3.D. Eucaristia-riparazione

3.d.1 Il Sacrificio eucaristico fondamento della Riparazione

Il tema riparazione, ne Il Vero Spirito, si collega strettamente all’Eucaristia, nel suo aspetto sacrificale.

In altre spiritualità, come nella devozione al Sacro Cuore legata a Paray le Monial, si parte dalla considerazione dell’amore di Cristo, che ama e non è riamato. Madre Mectilde tiene conto anche di questo aspetto [70], ma fonda la riparazione nell’Eucaristia come memoriale del sacrificio di Cristo e la presenta come imitazione di Colui che nel suo essere divino-umano è il Riparatore della nostra natura e della gloria del Padre:

«Nel Santo Sacrificio Gesù si trova nella massima umiliazione, ed è in questa situazione di confusione, che si annienta davanti alla Santità divina, alla quale offre un’ammenda onorevole ed esprime un atto di contrizione così perfetto da meritare il perdono per tutti i peccati degli uomini. E’ qui dove Gesù, pur senza colpa, appare colpevole; è qui, dove è trattato con rigore dalla Giustizia e Santità divina; è qui che si è fatto nostra vittima e garante dei peccatori; dove riceve la sentenza di morte, entra in agonia, vede le sofferenze inenarrabili della sua anima e del suo corpo. E’ ancora qui che si dona a ciascun’anima in particolare, è qui dove accetta la morte per darci la vita, dove ci ridona i diritti che il peccato ci aveva sottratto. E’ ancora qui, che ci merita la grazia di entrare in comunicazione con il suo divin Padre; è qui dove ci insegna a detestare il peccato, instillandone in noi l’orrore; è qui che il Padre non risparmia il proprio Figlio e dove un Dio infinito è annientato davanti alla suprema maestà di dio infinito. È qui dove tutte le creature si mettono contro Gesù, fatto peccato – come dice S.Paolo – per vendicare l’ingiuria che il peccatore fa a Dio con il proprio peccato» [71].

Se pensiamo al progetto originario di Dio sull’uomo, vediamo il suo desiderio di trasfondere in noi la sua vita divina, cioè la sua capacità di amore gratuito. Condizione perché questa vita divina possa sussistere nell’uomo, è che egli sia consapevole di essere stato posto in libertà da un atto libero e gratuito di Dio e quindi sappia riconoscersi quale dono di Dio: non ci siamo fatti da noi e non siamo dunque noi il riferimento ultimo delle nostre azioni.

La dipendenza dell’uomo da Dio non è servilismo ma condizione di vita. Con il peccato, questo orientamento di tutto il nostro essere a Dio, viene meno: l’uomo si ripiega su se stesso e diventa una creatura divisa [72].

Con l’Incarnazione Dio ha voluto dare all’uomo la possibilità di ri-orientare la propria vita a lui e lo ha fatto venendo Egli stesso, nella persona del Figlio, ad assumere la nostra natura umana. Cristo ha aperto così a noi la possibilità di superare la frattura causata dal peccato e ha realizzato questo riconoscendo in tutta la sua vita di uomo la dipendenza dal Padre, facendosi obbediente fino alla morte.

Nel suo sacrificio Egli ha dolorosamente colmato in sé, mediante l’amore al Padre e agli uomini peccatori, l’abisso scavato dal peccato. Ciò è stato possibile perché Cristo ha sottratto la natura umana che aveva assunto, alla logica dell’amore proprietario (Da questo modo con cui Cristo si è fatto Riparatore facendosi Vittima, viene dedotto il nostro concetto di riparazione).

La Madre vede così l’essere vittima del Cristo: separato (secondo il rituale dei sacrifici antichi) dal peccato, eppure offerto per i peccatori; dato nella sofferenza e nella prova perché si aprisse a noi la sorgente dello Spirito:

«Gesù nel santissimo Sacramento rende gloria al suo divin Padre in due modi: primo, con l’omaggio dell’umiliazione infinita della sua divina persona; secondo, col farsi lo schiavo dei peccatori (se è lecito usare questo termine); sì, con tutto il rispetto perché di essi si è fatto cauzione e garante, per soddisfare la divina giustizia in tutto il suo rigore. Col primo modo Egli si annienta in maniera infinita, in omaggio alla grandezza divina; col secondo, si riduce come in un doppio annientamento, rivestendosi delle miserie umane e, per dirlo in breve, prendendo su di sé le nostre colpe, rendendosi colpevole e sopportando tutte le sofferenze e umiliazioni meritate dal peccato» [73].

Forse nel post-Concilio c’è stata la tendenza a tralasciare un po’ l’aspetto sacrificale dell’Eucaristia, per sottolineare maggiormente il fattore «comunione». Di pari passo è «scaduto« anche il tema riparazione, che è sembrato un discorso d’altri tempi.

Ma la riparazione che nasce dall’aspetto sacrificale dell’Eucaristia, non ignora la dimensione ecclesiale: perché l’umanità dispersa dal peccato divenga la Chiesa unita. Popolo santo e Corpo di Cristo, è necessario il sacrificio di Lui.

Mediante la sofferenza e la morte Egli ha distrutto in sé la forza disgregante del peccato e «ha fatto dei due uno solo...» (cf. Ef 2,15-16). E’ giusta dunque l’intuizione della Madre.

«L’Eucaristia è un sacrificio; dona la grazia, e unisce sempre più intimamente al Corpo mistico di Cristo, la Chiesa. Per queste tre proprietà fa riversare su chi riceve il Cristo, le sue sofferenze» [74].

Già nel Battesimo noi siamo configurati a Cristo mediante la partecipazione alla sua morte. Tutta la nostra vita deve divenire simile alla sua, deve essere una vita di morte al peccato per crescere nella vita di grazia.

«Ogni dolore che coglie il cristiano non dev’essere considerato da lui una disgrazia naturale, il destino comune di ogni uomo, bensì solo una conseguenza della sua unione a Cristo mediante la grazia, la preparazione per essere glorificato insieme con Lui» [75].

Ma il fatto che l’Eucaristia ci mantenga anche membra vive del Corpo di Cristo ci deve far sentire la sofferenza per quelle membra dell’umanità redenta che non sono unite al loro capo.

«Anche la sofferenza rappresenta un elemento che rende la Chiesa attuazione e compimento di qualcosa, che dev’essere prestato dalla Chiesa suo Corpo (Col l,24)e ciò a ragione, perché se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui (1 Cor 12,26).

Ora, come potrebbero non patire se il Capo soffre o ha sofferto? Perciò, come Cristo Capo poté entrare nella sua gloria solo attraverso la passione (Lc 24,26), così le sue membra prolungano l’esperienza della sua passione fino alla glorificazione» [76].

In tal modo anche l’esperienza di solidarietà con i peccatori che Cristo ha vissuto nella sua agonia può continuare a vivere in noi, nella misura in cui lo Spirito ce ne da la grazia e noi glielo permettiamo; nella misura in cui ci lasciamo assimilare al mistero del Pane eucaristico.

Per Mectilde de Bar la nostra vocazione riparatrice viene come conseguenza naturale dall’essere configurate allo stato vittimale che Cristo porta nell’Eucaristia e non consiste in altro che nel fare ciò che Egli fa, quasi un prestarci a Lui perché compia in noi ciò che compie nell’Eucaristia [77].

3.d. II. Alcuni aspetti della riparazione

Se riparazione è imitazione di Cristo riparatore [78], significa che il concetto di riparazione non può essere ridotto a compensazione, ma è un impegno che richiede una donazione globale, uno stile di vita oblativo. Lo sintetizziamo in tre aspetti, che non vogliono essere però definizioni esaustive, ma solo evocazioni; ciascuno potrebbe dare a questo tema una diversa impostazione.

a. Riparazione-separazione

Mectilde de Bar vede già l’entrata della giovane in Monastero come la separazione della vittima (cf. Lv, rituale dei sacrifici) che veniva tolta all’uso comune e messa da parte per Dio:

«Fin da questo momento elle deve sforzarsi di mantenersi in quella preziosa solitudine che la separa completamente dalla terra e da se stessa, per vivere solo in Gesù» [79].

Restaurare la natura corrotta dal peccato richiede un continuo sforzo di separazione dal male.

b. Riparazione-orientamento a Dio

Allora, secondo la Madre la riparazione consiste anche nel restaurare il giusto ordine di dipendenza da Dio che noi, come creature dobbiamo al Creatore e che il peccato ha stravolto e stravolge. Concretamente questo si esplica nel rinunciare all’autodeterminazione e nel cedere, per amore momento per momento, la nostra esistenza a Cristo [80], come Cristo è vissuto in ogni istante della volontà del Padre:

«Un’anima veramente cristiana, che non vive più per se stessa, è veramente tutta viva nell’ amore e per amore. Tutta la sua gioia sta nel fatto che il suo Dio sia contento sia glorificato, che regni e che sia amato. Ecco, sorelle mie, ciò che deve impegnare al massimo le nostre anime, non tollerando che vivano per se stesse, né che riflettano sulla via dove sono condotte dalla divina Provvidenza per lamentarsene; e neppure che si rifugino nei propri sensi per soddisfare il loro amor proprio. Non dobbiamo più vivere come prima, come dice S. Paolo, ma camminare in novità di vita; dobbiamo vivere della vita nuova in Gesù Cristo: vita di grazia, vita di fede, che ci libera dalla nostra vita naturale che è totalmente contraria a quella di Nostro Signore Gesù Cristo» [81].

c. Riparazione-solidarietà con i peccatori

La riparazione è anche, secondo madre Mectilde, essere disposti a portare con Cristo il peso del peccato.

Se guardiamo a Gesù-Riparatore, vediamo che Egli non si è limitato ad amare il Padre al posto nostro, ma si è fatto solidale con noi; ha amato il Padre dall’«interno« della nostra condizione umana, perché sulle sue orme anche noi potessimo amarlo da figli.

Anche noi siamo chiamate, dall’Eucaristia, a condividere l’entrare di Cristo nel dramma del mondo immerso nel peccato.

Don Moioli afferma:

«Ci sono delle persone, e una di queste è forse madre Mectilde, che vivono con un orrore fortissimo, quasi fisico per il peccato e, contemporaneamente, nella carità nella distanza che è vicinanza, si sentono vicinissime ai peccatori» [82].

In questa prospettiva, forse possiamo comprendere la parte centrale del § 17 del I capitolo de Il Vero Spirito (pp. 16-17). Contiene espressioni che alla prima lettura spaventano, ma che, alla luce dello Spirito, possono essere viste non come il decreto che ci dichiara delle condannate, ma come la profondità di un amore che ci interpella.

E’ lo stesso amore che spinse Cristo ad uscire fuori della porta della città (Eb 13,12), Egli, il Figlio prediletto, e a morire della morte dello schiavo.

Se lo Spirito ha portato, lungo i secoli, tante persone a farsi carico delle sofferenze fisiche e povertà materiali dei fratelli, e sono nati così tanti Istituti per la cura degli ammalati, degli orfani, ecc., non bisogna dimenticare che grande povertà per l’uomo è la lontananza da Dio: suo Principio e Fine.

La Madre era consapevole di questo. Aveva compreso che questa lontananza, non solo è sofferenza per l’uomo, ma anche sofferenza per Dio, che ama la sua creatura e vuole la sua gioia. Mectilde de Bar resta stupita di fronte a ciò che Cristo ha sofferto nel farsi solidale con i peccatori. Afferrata da questa follia d’amore del Maestro, comprende che la nostra vocazione consiste nel lasciar rivivere in noi questo amore senza misura.

Il suo anelito è forse accostabile al desiderio di san Paolo: «Vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo, a vantaggio dei miei fratelli» (Rm 9,3).

Sembrerebbe una follia.

Se la comunione con Dio è il bene supremo, perché accettare di sentirne la separazione? Perché, se la comunione è vera, non può essere gioiosa finché non è piena. I fratelli lontani sono membra di Cristo, suo Corpo, come noi. Se essi mancano alla comunione, mancano a Cristo, mancano a noi:

«Ecco dunque lo stato che anche noi dobbiamo vivere, umiliandoci profondamente davanti all’infinita maestà di Dio, mediante un duplice annientamento fatto di umiliazione, di vergogna e di confusione per i nostri peccati e per quelli dei nostri fratelli. Quest’ultimo punto significa che dobbiamo caricarci di ogni sorta di sofferenze: accettare il disprezzo e tutto ciò che merita il peccato. Quale perdita di noi stesse dobbiamo vivere! E quale ripulsa da parte di Dio dobbiamo subire. Dal momento che siamo peccatrici, cariche dei nostri peccati e di quelli degli altri peccatori, dobbiamo forse aspettarci un trattamento di nostro pieno gradimento? Sbaglieremmo senz’altro se pretendessimo, nel nostro stato di vittime, di gustare le delizie della vita interiore e se, per il fatto di avere la corda al collo e la torcia in mano, credessimo di essere bene accolte alla mensa del Signore e di essere partecipi delle dolcezze del suo amore» [83].

Proviamo ora ad ascoltare a questo riguardo un autore dei nostri giorni Ezio FRANCHINI:

«L’idea indubitabilmente sottintesa alla vocazione riparatrice, è quella di un Dio capa-ce di soffrire. [...] Lo scandalo non sta nell’attribuire un cuore a Dio. Sta in una rappresentazione impropria che [...] Si potrebbe delineare così: l’Amore non è amato, dunque stringiamoci noi, i pochi buoni, attorno a Lui, perché non veda i tanti cattivi che lo insultano.

[...] Questa «consolazione vicaria« [...] suppone appunto che si possa noi dare a Dio quello che gli altri gli negano, quasi dispensando gli altri dal loro contributo, visto che, in fin dei conti, in conguaglio viene comunque versato.

Terribili queste supposte equazioni [...]. Dio [...] ama uomini veri, e non può consolarsi con nessuna sostituzione. Non si sottrae un figlio al Padre pensando di poterlo ripagare con affetti surrogatori.

[...] per dare gioia a Dio, non c’è che lavorare per la salvezza dei fratelli. Ciò che si da in amore ai fratelli peccatori, è amore di Dio. L’intercessione con cui si da voce ai lontani - e il lottare con Dio perché egli li converta - è amore di Dio, e gioia per Dio» [84].

«[...] Cristo entra nella «struttura di solidarietà dell’esistenza umana« [...] e si fa peccato perché noi diveniamo giustizia di Dio. [...] Non soltanto Cristo, anche la Chiesa vive nel fratello, divenendone sorgente di conversione. [...] E’ questa la riparazione: questo offrirsi per la salvezza dei fratelli, dentro i fratelli, solidali con loro»  [85].

«La struttura di solidarietà che ci fa simili a Cristo ci costringe a una sorta di corresponsabilità nella colpa. [...] Non ci è dunque chiesto un improbabile pagare per gli altri, ma un seminarci dentro gli altri, in forza della comunione, perché essi trovino in sè le risorse della chiesa come un’altra forza» [86].

Anche la «riforma liturgica [...] non ha fatto abbastanza per portare la nozione di sacerdotale battesimale a questo livello di rappresentanza, [...] di vicarietà.

[...] chi mai ci dice che la liturgia è prima di tutto un modo di amare i nemici, cioè di uscire extra portam (Eb 13,12), con Cristo, tra i condannati, per addossarci sacerdotalmente la loro sorte?» [87].

«[...] è compito degli istituti che ne hanno il carisma, non certo accettare la delega e sostituirsi in proprio alla chiesa [...], ma stimolare la coscienza ecclesiale a riassumersi una missione che è costitutiva della storia della salvezza. [...] Non si favoriranno vocazioni ad un dolorismo equivoco, ma non ci si può dispensare dal ricordare a tutti che l’esistenza cristiana è vittimale esattamente nel senso in cui lo fu per Cristo, umiliato, e per questo vincitore» [88].

«La solidarietà con i maledetti, assunta per avere in noi i medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù, obbliga ad una organizzazione della vita spirituale molto più etero-centrata, non motivata dalla propria salvezza personale. E’ quello che all’origine della nostra tradizione, si chiamava per solito «amore puro«, amore non preoccupato, cioè, altro che del servizio» [89].

 



[1] M. Mectilde du Saint Sacrement (Catherine de Bar), Il Vero Spirito delle religiose adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento dell’altare. Ronco di Ghiffa 1980. Le citazioni, nel corpo del testo si riferiscono a questa edizione, indicata in seguito con l’abbreviazione VS (N.d.R.).

[2] Per una panoramica più ampia sull’argomento, rimandiamo ad un precedente studio dell’a • Il culto eucaristico prima e dopo il Concilio di Trento. I suoi riflessi nella spiritualità di Mectilde de Bar, in Deus Absconditus n.2 (1997), pp. 7-18 (N.d.R.).

[3] Cf. Salvatore Marsili EUCARISTIA, teologia e storia della celebrazione, ANAMNESIS, ed. Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 78-91.

[4] Cf. Ibid., p. 107.

[5] Cf. Ibid., pp. 74-77.

[6] II «Decreto sul SS. Sacramento dell’Eucaristia» fu emanato nell’ottobre 1551, al termine della XIII Sessione conciliare. Il Decreto «Dottrina e Canoni sul Sacrificio della Messa» fu emanato al termine della XXII Sessione, nel settembre 1562.

[7] Dizionario Teologico diretto da Heinrich Fries, ed. Italiana a cura di Giuliano RIVA, ed. Queriniana, Brescia 1972, vol. 1, p. 626.

[8] VS cap I, § l. p. 2.

[9] Ibid.,cap. I, § 14, p. 13.

[10] Cf. Raymond Deville, La Scuola Francese di spiritualità, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1990, pp 55-70.

[11] VS cap. XIII, § 1, p. 120; vedi anche cap. XVII: «La stima e il rispetto che dobbiamo avere per Dio».

[12] Ct. Ibid., cap. XIV: «La divina volontà».

[13] Ne Il Vero Spirito ritroviamo spesso frasi che contengono la parola nulla: «Entrare nel proprio nulla» «Essere nulla, annientarsi». Sono espressioni che devono essere contestualizzate per non rischiare di attribuire troppo facilmente a m. Mectilde una certa ‘mania di distruzione’. La Madre ha davanti, fisso, un solo fine che è poi il fine proprio di ogni vita cristiana: l’adorazione, il culto, la vita, tutto deve condurci a diventare Gesù Cristo: «Tutto l’impegno [di coloro che sono più avanti nella via dell’unione] consiste nel vivere una morte continua, lasciandosi vivificare dalla vita di Gesù, vivendo di Lui stesso, cioè della stessa vita di cui Egli vive in se stesso. L’anima che per singolare misericordia vive di tale vita, non vede altri che Lui non fa nulla fuori di Lui, ma agisce in modo tutto divino» (VS cap IV, § 10, p. 45). Non si tratta di spersonalizzazione, anzi! Il desiderio di morire per lasciar vivere Cristo in noi, di essere nulla affinchè Egli sia tutto, è possibile solo nello Spirito Santo. È un desiderio che nasce dall’amore, da un cuore libero, stupito di fronte all’amore del Verbo Incarnato che per primo «svuotò se stesso» per assumere la nostra povertà. Don G. Moioli dice:«Exinanivit semetipsum è il sottofondo dell’annientamento mectildiano. L’idea dell’uomo contenuta ne Il Vero Spirito contrappone Adamo, cioè colui che afferma se stesso, rapinando un’uguaglianza con Dio che non gli compete, all’altro Uomo, Cristo, il quale, pur avendo diritto all’uguaglianza con Dio, vive in riferimento e in obbedienza a Dio. Quando ne Il Vero Spirito si usa il termine nulla per definire l’uomo, esso non vuole definire l’uomo in sé (perché così lo negherebbe), ma l’uomo in rapporto a Dio. Questo termine intende porre l’uomo al suo giusto posto. Esistono però diversi tipi di nulla, che si ritrovano tutti ne Il Vero Spirito. Bisogna distinguere:

a) nulla di essere. Vuole esprimere l’uomo in quanto creatura, cioè l’uomo che non è la radice di se stesso ma è totalmente riferito a Dio, radicato in Dio. Quando l’uomo non riconosce questa sua condizione è in un atteggiamento di falsità, allora deve essere ricondotto nel proprio nulla: «Davvero devi riconoscere che da te non sei». Questo è dunque un nulla positivo, che ci pone nella verità (cf. VS, cap. V, § 5, p. 61 : «Rimaniamo nel nostro nulla anche se dovessimo ottenere riconoscimenti e vantaggi»).

b) nulla di peccato. Si ha quando l’uomo non riconosce in Dio la propria radice e pretende di essere «da sé». Da questo nulla l’uomo deve essere liberato (Cf. VS cap V, § 5, p. 61: «Su che cosa si può stabilire la propria esaltazione? Bisogna essere ridicole e irragionevoli per non essere di continuo confuse, dato che di nostro abbiamo solo motivi di errore e di annientamento»).

c) nulla di grazia. È il nulla di sé, nella pienezza della grazia. Si ha quando l’uomo, non solo riconosce il proprio nulla, ma accetta che la vita di Cristo sia in lui. È crocifissione della natura, non perché la natura sia male in sé, ma perchè essa è chiamata a superarsi: è chiamata ad una vita più grande (cf. VS cap XI, pp. 109-111)» (dalla registrazione di una conferenza tenuta da don G. Moioli nel Monastero di Grandate).

[14] Cf VS, cap. XVII, § 17, p. 150; cap. XV, § 4, p. 135.

[15] Cf. Ibid., cap. IX, § 3, pp. 94-95.

[16] Cf. Ibid., cap. XIII, § 3, p. 124.

[17] Cf. Ibid., Cap. III, § 4, p. 35; cap. XIII, § 3, p. 124; cap. VI, § 8, p. 66.

[18] Cf. Ibid., cap. XV, § 1, pp. 130-131.

[19] Cf. Ibid., cap. X.

[20] Cf. 2 Cor 5,21; VS cap. IV, § 20, p. 53.

[21] Cf. VS cap. IV, § 20, p. 54; cap. V, § 2-3, pp. 56-59.

[22] Cf. Ibid., cap. IV, § 4-5, p. 43.

[23] Cf. Ibid., cap. I, § 1, p. 2.

[24] Cf. Ibid., cap. IV, § 20, pp. 52-53.

[25] Cf. Ibid., cap. IX, § 5, p. 98.

[26] Cf. Ibid., cap. II, § 3, p. 25, alla fine.

[27] Cf. Ibid., cap. I, § 1, pp. 2-3; cap. IX, § 4, p. 96.

[28] Cf. Ibid., Cap. X, § 2, p. 105.

[29] Cf. Ibid., cap. XVIII, § 13, § 16, § 22.

[30] Cf. S. Marsili, o.c., pp. 63-64.

[31] Catechismo del Concilio di Trento, ed. Paoline, Roma 1961, p. 262.

[32] Cf. VS cap. II, § 2, p. 24; cap. IX, § 5, pp. 97-98; cap XVIII, § 20.25.

[33] Cf. Ibid., cap. I, § 1, p. 2.

[34] Ibid., cap. 1, § 17, p. 14.

[35] Ibid., cap. IV, § 1, p. 39.

[36] Cf. Ibid., cap. IV, § 6, p. 43.

[37] Ivi.

[38] Cf. S. Marsili, o.c., pp. 27-28.

[39] VS cap. IV, § 1, p.40.

[40] Ibid.,cap. IV, § 1, p. 39.

[41] Ibid., cap. IV, § 2-3, pp. 40-41.

[42] Cf. Sant’Agostino, De civitate Dei 10, 20, cit., in S. Marsili, o.c., p. 185.

[43] Cf. S. Marsili, o.c., pp. 22-23.28-29.

[44] VS.cap. IV, § 11, pp.45-46.

[45] Cf. Ibid., cap. I, § 12, p. 12.

[46] Ibid., cap. I, § 9.12, pp. 9.12.

[47] Cf.Ibid, cap VII, § 2, pp. 69-70.

[48] Ibid., cap. II, § 3, p. 25.

[49] Cf. Ibid, cap. VII, § 2, p.71.

[50] Cf. Ibid., cap. VI, § 6, p. 65.

[51] Ibid., cap. VII, § 4, p. 74; vedi anche cap. VII, § 6, p. 83.

[52] Ibid., cap. VII, § 2, p.70.

[53] Ibid., cap. VII, § 5, p. 78.

[54] Ibid., cap. VII, § 5, p. 77: vedi anche cap. IV, § 17, p. 49; cap. I, § 11, p. 11: cap. VII, § 5, p. 80.

[55] Ibid., cap VI, § 2, p. 63.

[56] Cf. Ibid., cap. I, § 10, p. 11.

[57] Ibid., cap. VII, § 5, pp. 77-78.

[58] Ibid., cap. VII, § 5, p. 81.

[59] Cf. Ibid., cap. VII, § 5, p. 79 in fondo.

[60] Ibid., cap. I, § 18, p. 19.

[61] Sant’Agostino, Confessioni, lib. 7,18.

[62] Cf. VS, cap. I, § 18, p. 20; cap. VII, § 5, p. 82.

[63] Cf, Ibid., cap. XII, § 2, p. 115.

[64] Cf. Ibid., cap. IV, § 10, p. 45; cap. XII, § 3, p.117.

[65] Cf. Ibid., cap. II, § 1, p. 22, § 3, p. 26.

[66] Cf. V. Andral, Catherine Mectilde de Bar, Un carisma nella tradizione ecclesiale e monastica, Città Nuova, Roma 1988, p. 250.

[67] Cf. Catherine Mectilde de Bar, Non date tregua a Dio. Lettere alle monache, Jaca Book, Milano 1978, nota 190, p. 145.

[68] Cf. VS cap. X, § 1, p. 104.

[69] Cf. V. Andral, o.c., p. 183.

[70] Cf. VS, cap. I, § 2, p. 4.

[71] Ibid., cap. IV, § 20, pp. 52-53.

[72] Egli si ritrova ad essere un campo di tensioni tra due amori, come esprime bene Sant’Agostino: l’amore di Dio fino al disprezzo di sé e l’amore di sé fino al disprezzo di Dio. Questi due amori sono in concreto:

a) l’amore disinteressato, puro, nel quale si identifica la carità agàpe. È l’extasis, il vivere fuori di sé, l’eccentricità dell’uomo. Il centro dell’uomo è fuori di sé. Quanto più l’uomo esce da sé, tanto più entra nel suo vero centro.

b) l’amore interessato: l’uomo si fa centro di se stesso e delle cose. È l’amor proprio, cioè l’amore proprietario, che è più vasto dell’orgoglio. In questo caso, l’uomo, per ritrovare il suo vero centro, deve realizzare l’esproprio. Detto questo, bisogna riconoscere che, nella spiritualità del ‘600, ciò che è naturale era spesso, troppo facilmente contrapposto a ciò che è soprannaturale (cf. VS cap. XIII, § 1.2 pp. 120-121). Si vedevano la «natura« e la «vita di grazia», come realtà antitetiche, mentre l’uomo, originariamente in Cristo, è stato pensato come un’unità. Quando in questi scritti si parla di «vita naturale» o di «nostra vita», bisogna intendere la vita dominata dall’amore proprietario; vita che si pensa autonomamente, a prescindere da Dio. La ‘vita di Cristo in noi’ è invece quella guidata dall’amore disinteressato. Si comprende allora che, non tutto ciò che nasce spontaneamente in noi, solo per il fatto che è qualcosa di naturale, va represso. Va represso piuttosto ciò che in noi si pone contro Dio (Lo sviluppo di questo concetto è stato ripreso da una conferenza di don G. Moioli tenuta alla nostra Comunità nel 1980).

[73] VS cap. I, § 15-16, pp. 13-14.

[74] Karl Rahner, Eucaristia e sofferenza, in Saggi sui Sacramenti, ed. Paoline.

[75] Ibid.

[76] Ibid.

[77] Cf. VS cap. I, § 8, p. 9.

[78] Ne Il Vero Spirito la figura di Cristo Riparatore della nostra natura è ben presentata nel cap. IlI, § 4, pp. 34-35: «II peccato, sorelle mie, non può cancellare totalmente l’immagine e il carattere che Dio ha impresso in noi, ma ci toglie la somiglianza che ci era stata data nel battesimo, quella che Adamo aveva ricevuto all’inizio della creazione, quando Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”. L’anima riacquista una bellezza tutta divina perché viene resa conforme a Dio per mezzo di Gesù Cristo. È per suo mezzo, infatti, che tutto nell’anima viene riparato e che essa recupera tutte le perfezioni che aveva perduto».

[79] VS.cap. II, § 4, p. 125.

[80] Cf. Ibid., cap. II, § 2, p. 23

[81] Ibid., cap. XIII, § 1. pp. 120-121.

[82] Da una conferenza tenuta alla comunità di Grandate.

[83] VS cap. I, § 17, pp. 15-16.

[84] Ezio Franchini, Spiritualità oblativo riparatrice, EDB, Bologna 1989, p. 164.

[85] lbid., p. 156-157.

[86] Ibid., p. 159

[87] Ibid., p. 160.

[88] Ibid., p. 161.

[89] Ibid., p. 166.