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Deus absconditus, anno 89, n. 3-4 Luglio-Dicembre 1998, pp. 5-9

 

Mons. Renato Corti

Un’intuizione spirituale straordinaria

 

Omelia tenuta il 9 giugno 1998 presso il monastero di Ghiffa durante la Celebrazione Eucaristica commemorativa. Il testo qui riprodotto, autorizzato e rivisto dall’autore, è quello ripreso dal registratore.

Tempo fa, in una riunione alla quale avevo invitato religiosi e religiose della nostra Diocesi che portano avanti attività propriamente spirituali, con una battuta avevo detto: «Quando la gente viene da voi, non deve andare a casa dicendo «Che bel posto!» , ma deve tornare a casa avvertendo che ha incontrato qualcosa che interroga la vita». Ora, certamente Ghiffa è un posto bellissimo e, guardando stamattina il lago dicevo: «È veramente incantevole». Ma io so che nessuna delle nostre monache rimarrebbe 24 ore soltanto per la bellezza del lago: andrebbe a vederlo da qualche altra parte. Se voi rimanete qui è perché avete intuito qualcosa. È di questa intuizione che io vorrei dire una parola, più che a voi, a me stesso, ai sacerdoti numerosi, che sono qua, e anche a tutte le persone che hanno voluto partecipare a questa Eucaristia.

Con la comunità monastica oggi dobbiamo dire grazie a Dio per il dono fatto alla Chiesa attraverso madre Mectilde de Bar. E le monache che vivono oggi l’esperienza della consacrazione a Dio confermano che madre Mectilde è stata veramente una grazia nella storia della Chiesa. Questo, tra l’altro, ci conduce anche a tener conto di una cosa: che ci possono essere delle persone particolarmente importanti per la storia della Chiesa e che questo non lo si sa mai prima, lo si sa dopo. E anche qui, nel vostro monastero, ci possono essere delle persone molto importanti per la vita della Chiesa, anche considerate nella loro individualità, per le grazie che hanno ricevuto o che stanno ricevendo dal Signore: quelle grazie diventano grazie per tutti, non solo per tutta la comunità, ma diventano grazie anche per tutta la Chiesa. Noi siamo qui infatti oggi a ricordare una donna che è morta tre secoli fa.

1. Una donna illustre

Si comprende quindi perché sia stata scelta oggi come prima lettura una pagina del libro del Siracide (Sir 44,1.10-15), nella quale si fa l’elogio degli uomini illustri – noi dovremmo dire «delle donne illustri» – e si aggiunge, in quel testo che «nella loro discendenza dimora una preziosa eredità». Nel testo biblico poi si dice che questa eredità sono i nipoti. Qui non si tratta dei nipoti, se non in senso lato, e si tratta dei discepoli, di coloro che hanno intuito una intima affinità spirituale e il desiderio di fare proprie le intuizioni evangeliche di una straordinaria madre spirituale. Voi siete questa eredità, e mantenete viva l’intuizione di madre Mectilde. È di quella intuizione che noi viviamo, come giustamente don Giuseppe diceva all’inizio. È del mistero che noi viviamo, non di ciò che in definitiva è soltanto il vestito della nostra vita.

2. La potenza della croce e la fecondità di un seme

Mi sembra anche molto giusto che per questa celebrazione siano state poi scelte due pagine del Nuovo Testamento: una di Paolo ai Corinti e l’altra dal Vangelo di Giovanni. Perché? Perché queste due letture ci permettono di intravedere in che cosa propriamente consista la sapienza di madre Mectilde.

In primo luogo ci orienta nella linea giusta la pagina di Paolo (1 Cor 1,18-25) che, scrivendo ai Corinti, ricorda a loro l’eloquenza della Croce per chiunque voglia capire chi è e che cosa ha fatto per noi il Signore Gesù. Questa pagina di Paolo è fortissima, impressionante. Io spesso, leggendo Paolo, mi domando: «Ma come ha fatto a scrivere queste cose?». Eppure sono lì, scritte. E anche la prima lettera ai Corinti che, di per sé, è più «leggera» rispetto ad altre lettere di Paolo, perché affronta diversi problemi, tratta questioni concrete, ha tuttavia delle pagine, specialmente nei primi tre capitoli, poi anche negli ultimi, che sono straordinarie. Qui, senza mezzi termini, parla della Croce.

L’Apostolo, che andando a Corinto dice di non conoscere altro che Cristo, e Cristo crocifisso, ricorda loro l’assoluta imprevedibilità di Dio. Nella rivelazione di sé, il modo seguito da Dio per manifestarsi è del tutto imprevedibile. Nessuno l’aveva previsto, mai, in tutta la storia dell’umanità. Mai, nessuno. Nessuno aveva osato pensare che veramente Dio si sarebbe fatto uomo. Messia va bene, ma Dio, proprio Dio, non è possibile. E ancor meno si sarebbe potuto pensare che Dio condividesse fino alla morte e alla morte di croce la vicenda dell’uomo: questo è proprio scandaloso.

Davvero Dio non ha scelto una via di potenza, come gli sarebbe certamente stato possibile, ma una via fatta di condivisione, di povertà e soprattutto di un amore che non teme di prendere la forma del sacrificio totale di se stesso in Gesù Cristo. Questa è la via scelta da Dio: non ce n’è un’altra. Ne esiste una sola, di fatto, adottata da Dio. Non ci sono altri Vangeli, altre «storie»: c’è solo questa.

È così, e non in altro modo, che Dio ha voluto salvare l’uomo. «Mentre i Giudei chiedono i miracoli, e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei»: è l’idea dell’abbassamento che risulta inaccettabile, che crea scandalo. «... ed è stoltezza per i pagani», perché come può una vicenda che si conclude in modo obbrobrioso come la condanna a morte, ottenere qualcosa di utile per il destino dell’uomo? Sono cose paradossali, sconvolgenti! Eppure, la storia di Dio, in Cristo, è questa.

Si può accostare il testo di Paolo alla pagina di Giovanni (Gv 12,24-26), e forse conviene ricordare che c’è un parallelo – forse è eccessiva la parola – tra questo brano e un’altra pagina di Paolo che avrebbe potuto essere letta oggi per intero, e cioè il secondo capitolo della lettera ai Filippesi, perché in quel brano ci viene raccontato in un modo conciso, tutto ciò che costituisce la vicenda del Verbo di Dio nella storia.

Vi si dice che il Verbo di Dio, «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo», divenendo simile agli uomini, «apparso in forma umana umilio se stesso fino alla morte e alla morte di croce». Sembra una spiegazione particolarmente limpida di ciò che Paolo insegna ai Corinti. Con queste due pagine di Paolo si connette la pagina evangelica di Giovanni che abbiamo ascoltato poco fa. Siamo condotti sul medesimo sentiero: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo. Se invece muore, produce molto frutto». Io vorrei ricordare nel contesto della celebrazione di oggi, una cosa che si dice troppo raramente e cioè che queste parole così intense, così nette, non vanno riferite anzitutto a noi. Non è che Gesù dica a noi: «Mi raccomando, ricordatevi...». No, noi siamo alla vigilia della Passione quando vengono dette queste parole e sono parole che vanno riferite a Gesù. Gesù sta parlando di se stesso, prima che di noi. Certo, anche di noi e però il dire che queste parole si riferiscono a Gesù significa che non vanno intese anzitutto per il loro valore di indicazione ascetica o morale. Certo lo sono. Ma più profondamente, queste parole vanno intese per la loro forza rivelativa del sentiero che Dio ha voluto seguire e vuol continuare a seguire, per portare salvezza nella vicenda misteriosa e drammatica dell’uomo lungo tutte le generazioni.

Veramente bisogna riconoscere che la Parola di Dio è meravigliosa! Quanto più la si accosta, tanto più si rimane meravigliati. Io capisco quello che qualche volta mi diceva il Cardinale Martini: «Quando mi metto a preparare un’omelia mi sembra sempre di trovarmi davanti alla pagina per la prima volta». E anche stamattina, io stesso, avverto che è così.

3. Alla scuola di Mectilde de Bar

Vorrei esprimere a modo di meditatio, una osservazione che ci permette di leggere nel nostro vissuto quello che la Parola di Dio ci svela. Io mi esprimerei così, guidato da un grande teologo che ho amato molto e che si chiamava Giovanni Moioli, che credo abbia scritto le cose più profonde e più convincenti a riguardo della vostra Madre.

Mi esprimerei così: tra tutti i misteri della vita del Signore – pensiamo la nascita, pensiamo il Battesimo, pensiamo le tentazioni, il deserto, la predicazione, i miracoli, gli anni di Nazareth ecc. – madre Mectilde è stata condotta dallo Spirito Santo a privilegiare quello che un istante fa attraverso la Parola di Dio è stato evocato.

La sua vocazione è stata quella di fermarsi a contemplare il Signore nel suo amore verso di noi. E nulla quanto l’abbassamento del Signore, fino a farsi egli stesso uomo e a sperimentare la morte, e la morte di croce, l’ha tanto stupita e intimamente persuasa che l’amore di Dio per l’uomo è reale ed è grande, al punto che più grande di così non potrebbe essere, perché se ci pensiamo, non riusciamo a immaginare cosa di più avrebbe potuto fare. Non si può trovare da nessuna parte perché è arrivato al massimo....

Per madre Mectilde il mistero della kénosis non è soltanto un mistero particolare tra altri misteri; madre Mectilde ha colto che questo mistero è il punto di vista a partire dal quale rileggere tutti i misteri del Signore, a cominciare dall’Incarnazione, che è un abbassamento, fino alla Risurrezione, non dimenticando un particolare: Gesù che compare ai suoi discepoli dopo la Risurrezione dice: «Guardate le mie mani e il segno dei chiodi, e il mio costato». Dunque il segno di quell’abbassamento riemerge addirittura in Cristo Risorto, quasi a dire che pure nella glorificazione quello rimane il luogo tangibile di un amore che non si è mai tirato indietro.

In questo contesto dell’abbassamento di Dio, della condivisione piena dell’esperienza umana e del valore di condivisione che è rintracciabile in tutti i misteri della vita del Signore, in questo contesto l’Eucaristia è apparsa a madre Mectilde come la vera sintesi di tutto il Vangelo e della Rivelazione intera. Qui l’abbassamento è quello della Presenza reale del Signore, del Kyrios dell’universo intero e della storia nella forma semplice, dimessa e silenziosa del pane. C’è un abbassamento in ciò che noi chiamiamo «il Sacramento». Il Signore è colui che è grande, è il Signore della storia, non c’è paragone rispetto a lui da parte di qualunque altra realtà. Bene, è il Signore che diventa pane.

È la presenza del Signore nel Sacramento che diventa luogo nel quale il Signore in certo senso scompare, divenendo nostro cibo e facendo tutt’uno con noi, perché, in verità, noi veniamo assimilati a lui, fino a fare una cosa sola, ad essere il suo corpo. È la presenza del Signore che ancora oggi si propone al cuore delle persone e alla loro libertà, non impiegando l’onnipotenza di cui dispone per vincere in tal modo l’uomo, ma affidandosi sempre e unicamente all’onnipotenza apparentemente debole del suo amore, della sua misericordia, della sua instancabile attesa dell’uomo, come insegna la parabola del figliol prodigo.

Questa è l’intuizione di madre Mectilde: dunque, recupera tutto il Vangelo e trova la sua espressione nel sacramento che sta al culmine di tutta la liturgia.

Concludendo vorrei fare due preghiere.

La prima è per voi, sorelle monache. La preghiera è per ottenere che l’intuizione della vostra Madre Fondatrice vi accompagni e vi accompagni dentro il continente inesauribile del mistero della persona di Gesù. È un continente vastissimo. Per usare l’immagine di san Giovanni della Croce: è una montagna che contiene un’infinità di tesori e non si è mai finito di scavare per portare alla luce tutti questi tesori. Io vi invito, prego per voi, perché con l’intuizione della vostra Madre voi ripercorriate il Vangelo dalla prima all’ultima pagina, perché è dalla prima all’ultima pagina che viene detto questo. Anzi, se vogliamo ascoltare il suggerimento di sant’Ambrogio, anche l’Antico Testamento dice questo, perché già tutto l’Antico Testamento ci parla di Cristo e lo prepara.

E poi esprimo una seconda preghiera, per tutta la Chiesa. È una preghiera che sento molto urgente e che richiederebbe molta intensità da parte di tutti noi, anche da parte di voi laici che siete qui stamattina e che toccate con mano giorno per giorno com’è la vicenda del mondo.

La esprimerei così: la Chiesa deve affrontare l’epoca moderna, segnata anche e non secondariamente dalla messa in discussione di Dio. Questi quattro secoli hanno messo in discussione Dio. L’altro giorno leggevo un testo del presidente della Repubblica Ceca, Waclaw Havei, che non è un praticante, ma è religioso. Dice: noi ci troviamo per la prima volta nella storia, una società organizzata in maniera atea. E aggiunge che su questa base noi non riusciamo più a renderci responsabili della storia, del mondo. Non riusciamo più perché manchiamo di fondamento per prenderci questa responsabilità, e allora ci rifugeremo fondamentalmente nella ricerca di noi stessi, nella difesa di noi stessi, nel vedere di cavarcela in questo tratto di cammino che non si sa bene perché c’è e che va a finire nel nulla.

Questa epoca moderna è segnata talvolta dalla negazione di Dio come di colui che è il peggior concorrente dell’uomo e del suo sviluppo in autonomia e libertà, fino alla «maggiore età». A questa epoca culturale, segnata anche dai terribili drammi sperimentati dall’umanità nel XX secolo, nulla può persuadere a un ritorno verso Dio quanto Cristo crocifisso. Questo l’ha intuito molto bene nei nostri tempi Bonhoeffer. Ha intuito che la vera risposta all’ateismo moderno è Gesù crocifisso.

Così l’uomo può tornare a Dio, perché da lui, l’uomo non ha nulla da temere, ma solo da sperare. Nessun Dio è più vicino all’uomo di quel Dio che ha preso il volto dell’uomo della Sindone. E poiché siamo nel periodo in cui vediamo la Sindone, proprio mentre vediamo la Sindone, noi siamo molto aiutati – e io ringrazio il Signore che così tanta gente vada a Torino – a scoprire nell’uomo della Sindone il volto di Dio. Quello è il volto di cui parla Paolo, il seme di cui parla Giovanni.

Chiediamo dunque come grazia per tutti noi questa: che nella vita della Chiesa non venga resa vana la Croce di Cristo. Queste parole sono una sfida anche per la Chiesa di oggi. Nel suo modo di essere presente nel mondo, non deve lasciare ombre su questo fatto fondamentale: il Dio unico e vero è amore, quell’amore che possiamo contemplare e toccare con mano sul volto di Cristo e nella sua storia che è fatta di un amore che l’ha condotto fino al martirio. Su questo la Chiesa non deve sbagliare.