Deus absconditus, anno 90, n. 4, Ottobre-Dicembre 1999, pp. 41-48
Riflessioni a cura di una monaca del monastero di Grandate (CO)
Il linguaggio dei simboli il cero, la corda
Introduzione
Tutte le sere in gran parte dei nostri monasteri italiani, in refettorio la monaca che il giorno successivo è in ritiro di riparazione chiede la preghiera di tutta la comunità leggendo un testo che generalmente contiene le seguenti parole :
Ricordando il nostro impegno di adorazione e riparazione verso il Santissimo Sacramento.
Il nostro impegno verso il SS. Sacramento è duplice: adorazione e riparazione
All’inizio dell’Istituto, la Madre Fondatrice ha voluto concretizzare quasi virilizzare questo impegno con dei segni: l’esposizione solenne del Santissimo Sacramento il Giovedì, ogni giorno la lettura dell’ammenda con la corda al collo e il cero acceso, ecc. [1].
Madre Mectilde ha assunto segni conformi alla sensibilità spirituale dei suo secolo, che poi, nel corso degli anni, sono divenuti parte espressiva del nostro carisma. Generazioni di Benedettine dell’adorazione perpetua del SS Sacramento sono state introdotte nella spiritualità mectildiana attraverso questi segni e sempre per mezzo di essi, l’hanno vissuta nel loro tempo.
Oggi, alcuni di questi segni non sono più immediatamente comprensibili a chi li vede dall’esterno; per questo alcune comunità hanno scelto di abbandonare il loro uso e di conservare solo la lettura dell’ammenda. Rimane però il dato incontestabile, che l’uomo ha bisogno anche della concretezza dei segni perché non è fatto solo di pensiero astratto.
Sarebbe inoltre semplicistico pensare che il linguaggio dei simboli sia immediato per tutti. Come ogni linguaggio può essere visto o sentito ma per poter essere compreso occorre un minimo di iniziazione.
Certamente quando Mectilde de Bar ha adottato per la prima volta il cero e la corda come segni di riparazione, nel corso della celebrazione alla quale ha preso parte anche la regina Anna d’Austria, il senso di tutta quella cerimonia era molto più comprensibile ai suoi contemporanei di quanto non lo sia per la gente del nostro tempo, tuttavia, non si può pensare che l’uso continuato di questi simboli si sia realizzato solo per dire qualcosa a chi vedeva dall’esterno.
La corda e il cero come espressione della riparazione; l’ostensorio come segno dell’adorazione, sono stati piuttosto un aiuto per le comunità monastiche a vivere nello spirito di questo carisma, con l’originalità propria che lo contraddistingue nella Chiesa.
Per favorire l’iniziazione al linguaggio dei simboli e dei riti e per comprendere la loro importanza per l’uomo, anche contemporaneo, riportiamo alcuni brani di Domenico Mosso [2].
Se una comunità monastica, in ogni suo membro, assume con consapevolezza e vive con intensità i segni che sono propri della sua identità carismatica, diverrà essa stessa segno per chi la accosta dall’esterno.
Che cos’è un simbolo, che cos’è un rito?
«Nel linguaggio comune spesso la parola «rito» richiama un comportamento sociale ripetitivo e/o stereotipo, che comporta di solito una certa nota di inutilità, di non funzionalità. Gli uomini non fanno soltanto cose necessario, indispensabili, o concretamente utili a qualche cosa. In tutti i popoli si possono notare comportamenti che ai nostri occhi appaiono per lo meno strani; non solo inutili, a giudicare dal risultato concreto che si può constatare, ma a volte addirittura dannosi, irragionevoli, apparentemente assurdi: animali sacrificati agli dei, invece di essere mangiati in tempo di fame, tatuaggi e pitture sul volto e sul corpo... » [3]
«Però di cose strane e inutili se ne fanno e se ne ripetono anche ai nostri giorni e nella nostra società. E se ci sembrano meno strane, è perché ci siamo abituati, le diamo per scontate (...).
Ci siamo mai chiesti per esempio, che cosa se ne fa il milite ignoto di tutte le corone di alloro che vengono deposte sulla sua tomba? (...) O a che cosa serve fare cin-cin con il bicchiere di spumante? O che senso hanno i botti di Capodanno?
Ecco: i riti sono cose di questo genere» [4].
(...) «Esistono parecchi elementi rituali di cui la nostra vita è imbastita e tali elementi entrano in gioco in maniera ineliminabile nelle più importanti attività umane... » [5].
«Il gesto rituale non si fa per se stesso, per il risultato materiale che ne consegue, ma per qualcos’altro: le azioni rituali sono azioni simboliche e la loro importanza deriva proprio dal ruolo e dalla forza del simbolo nella vita dell’uomo. (...)
Quando si dice di qualcosa: “È solo un simbolo...” normalmente si commette un errore di valutazione. O perché si sottovaluta la portata del simbolo; o perché si attribuisce valore di simbolo a qualche cosa che in realtà “non funziona” (o non funziona più) come tale. (...)
Ma che cosa si intende esattamente quando si dice simbolo. Il più delle volte quando si parla di simboli, si pensa subito a determinate cose, oggetti, figure: la bandiera d’Italia, (...) l’ulivo e la colomba, (...) il cero pasquale. In realtà, nessuna di queste cose rappresenta di per sé un simbolo...
Il simbolo esiste soltanto in rapporto a qualcuno che lo riconosce o comunque lo vive (anche inconsciamente) come tale. Una bandiera di per sé non è che un pezzo di stoffa o un determinato accostamento di colori. Ma se questi colori sono il verde, il bianco e il rosso, noi vediamo in essi il simbolo dell’Italia. Quella cosa (un drappo color verde bianco rosso) ai nostri occhi (...) diventa segno di qualcos’altro: del Paese in cui siamo nati, della lingua che parliamo, della società in cui viviamo e a cui apparteniamo» [6].
«Il simbolismo (ciò per cui qualcosa è considerato un simbolo) non nasce dalle cose stesse, ma dalle persone: è l’uomo che dà un senso alle cose e assume le cose nel suo linguaggio.
I riti sono azioni simboliche; il che significa che sono un fatto di linguaggio, di espressione e di comunicazione, in cui e attraverso cui l’uomo dice qualcosa di se stesso e del mondo. Nel rito, anzi, l’uomo “dice se stesso” in rapporto agli altri, alle cose, alla realtà nel suo insieme» [7].
I riti, infatti, sono fondatori di identità (sia personale, sia sociale) e apportatori di senso. È attraverso i riti che si riceve, si riconosce, si conferma o si modifica il proprio statuto personale in rapporto agli altri e alle cose: «il rito fonda e manifesta il “posto” di ciascuno nel mondo. È attraverso i riti che le cose acquistano significato per l’uomo» [8].
Il linguaggio dei simboli
«II termine simbolo deriva da una parola greca che significa “mettere insieme”. Contiene sempre l’idea di una connessione, di un rapporto, di uno scambio, attraverso cui avviene l’identificazione e un riconoscimento reciproco.
Nell’antichità si chiamava symbolon un oggetto tagliato in due, di cui i due partner di un contratto conservavano ciascuno una parte. Da sola, ognuna delle due metà non “significava” nulla. Diventava invece segno di riconoscimento, quando veniva “messa insieme” all’altra metà. Il simbolo funzionava così quale mediatore di identità e di rapporto. In seguito il significato della parola simbolo si è ampliato fino a indicare qualunque elemento che, all’interno di un determinato gruppo umano, permette al gruppo come tale o agli individui che ne fanno parte di riconoscersi e di identificarsi (...).
“Il pane e il vino dell’Eucaristia, l’acqua del Battesimo, il cero pasquale, (...) la genuflessione davanti all’altare...sono quindi dei mediatori di identità cristiana. Questi gesti, questi oggetti ci introducono subito nel mondo del cristianesimo cui appartengono (...)”» [9].
I simboli, dunque, sono tali in quanto fatti di linguaggio che rivelano e operano un rapporto di identificazione e riconoscimento (...). Un simbolo propriamente detto, (...) fa entrare dentro un dato ordine di cose di cui esso stesso fa parte. Infatti, un simbolo non funziona come tale se non per coloro che a loro volta fanno parte di questo ordine di cose e vi si riconoscono (...).
Si può comprendere allora perché il simbolo non può essere considerato come “una forma confusa di discorso razionale che attende di essere spiegato o decifrato” [10].
La funzione propria del simbolo non sta dal lato del messaggio da comunicare/recepire, ma da quello del rapporto che lega insieme determinati interlocutori (...).Il che non esclude che un simbolo contenga e comunichi determinati messaggi, anche se questa sua valenza informativa (...) non è primaria e non può mai essere troppo precisa» [11].
«Occorre, comunque, non dimenticare mai che il valore più specifico dei simboli non consiste nell’essere portatori di significati, ma nell’essere rivelatori e operatori di identità-nella-relazione» [12].
Posta questa premessa sulla necessità dei simboli e dei riti e sul loro ruolo, è forse possibile focalizzare meglio il nostro tema.
Il «rito» che in alcuni dei nostri monasteri si svolge ogni mattina dopo l’Eucaristia, con la lettura di una preghiera di riparazione, con una corda al collo, da parte di una monaca inginocchiata alla colonna, mentre tutte sono prostrate, dovrebbe essere l’ambito in cui quella comunità monastica esprime la propria partecipazione al dono della redenzione appena celebrato nel mistero eucaristico.
È questo il modo con cui ci si ricorda il particolare impegno di partecipazione al sacrificio di Cristo e si rinnova la propria adesione al carisma della riparazione.
La corda e il cero sono solo dei segni, ma assunti consapevolmente all’interno di una particolare famiglia monastica possono diventare mezzi che aiutano ad esprimere la propria identità e il proprio posto all’interno della Chiesa.
Certamente si può obiettare che l’identità non muta anche se si rinuncia ad esprimerla in tale modo. E’ vero. Noi siamo cristiani e lo sappiamo anche se non lo portiamo scritto in fronte, però il segno della croce, fatto più volte al giorno, il Padre nostro, e tante altre espressioni concrete ci aiutano a mantenere viva e ad esprimere la nostra fede. Lo sappiamo che nell’Eucaristia è realmente presente Cristo, ma una genuflessione o un inchino fatti passando davanti al tabernacolo, ce lo ricordano e possono diventare silenziose e profonde espressioni di fede.
Viene però da chiedersi perché madre Mectilde ha scelto proprio la corda e il cero per esprimere il concetto della riparazione.
Dentro il segno
Biblicamente l’immagine della corda richiama l’assenza di libertà, la condizione di prigionia. Nel libro di Giobbe, in una serie di immagini che esprimono la potenza di Dio capace di capovolgere le situazioni, si legge: «Rende stolti i consiglieri, priva i giudici di senno; scioglie la cintura dei re e cinge i loro fianchi di una corda» (Gb 12,17-18).
La nota a questo versetto, nella bibbia TOB, dice che la frase è un’allusione alla deportazione.
La corda è dunque segno di prigionia: il re che deteneva il potere di decidere le sorti del popolo può essere privato di tale potere (alla cintura si portavano le armi, segno di forza) ed essere legato ad altri prigionieri per essere condotto in schiavitù.
Il Lessico di iconografia cristiana alla voce «corda», dice:
«Attributo del diavolo, che trascina dietro sé i dannati del giudizio finale legati a una corda o a una catena, e perciò simbolo dell’irretimento e della servitù. Affreschi dell’XI sec, nelle chiese rupestri della Cappadocia mostrano Cristo prigioniero con la corda attorno al collo.
La corda inoltre è attributo della prostituta Raab che fece scendere con una corda da una finestra nelle mura della città le spie di Giosuè a Gerico» [13]. (Nell’iconografia di alcune sante che la tradizione presenta come meretrici convertite è pure presente la corda).
Il concetto sottostante al segno della corda si specifica così ulteriormente: essa è segno della schiavitù del peccato e ha attinenza con la condizione di peccatore.
Ritorniamo al momento del primo solenne atto di riparazione: la reggente Anna d’Austria «fu invitata dinnanzi all’ostensorio della rue Férou a leggere, con la corda al collo e il cero acceso, sulla “colonna di riparazione”, un’ammenda onorevole di bella fattura trinitaria nella quale, in nome di tutti i suoi sudditi, la regina si riconosceva colpevole e chiedeva perdono per le profanazioni eucaristiche commesse durante i disordini.
Il potere politico restituiva al popolo cristiano, sublimata a servizio del Mistero di riconciliazione universale, la simbolica riparatrice che esso le aveva un tempo dato in prestito.
L’ammenda “onorevole” o “riparazione d’onore” (opposta alla riparazione pecuniaria) introdotta in Francia dal XV al XVII sec., era pena inflitta, previamente all’esecuzione capitale per ogni delitto grave contro Dio, la Chiesa, lo Stato, l’assassinio, ecc.
Il condannato, in camicia, con un cero in mano e la corda al collo, in ginocchio davanti a tutti confessava il suo crimine e domandava perdono. Madre Mectilde la adotta per significare la solidarietà nel peccato che lega tutti gli uomini (quindi anche le monache ai loro fratelli nel mondo) redenta in misura sovrabbondante dalla solidarietà in Cristo» [14].
La corda al collo dice dunque il riconoscimento, in noi e nei nostri fratelli, della schiavitù del peccato che ci toglie la libertà dei figli di Dio.
La riparazione non è solo pregare Dio «da giusti» perché usi misericordia a chi ha sbagliato, ma è «mettersi nei panni» del peccatore.
Questo è possibile sia perché «ne abbiamo la stoffa», cioè abbiamo la nostra parte di peccato, sia perché, unite a Cristo, siamo chiamate a ritenere cosa che ci riguarda il peccato del mondo.
La Madre lo esprime senza mezzi termini ne «il Vero spirito»:
«Dal momento che siamo peccatrici, cariche dei nostri peccati e di quelli degli altri peccatori, dobbiamo forse aspettarci un trattamento di nostro pieno gradimento?
Sbaglieremmo senz’altro, se pretendessimo, nel nostro stato di vittime, di gustare le delizie della vita interiore e se, per il fatto di avere la corda al collo e la torcia in mano, credessimo di essere bene accolte alla mensa del Signore, e di essere partecipi delle dolcezze del suo Amore! » [15].
Questo potrebbe sembrare uno sguardo troppo pessimista che presenta un’immagine cupa di Dio, ma l’accento va posto piuttosto sulla capacità di amore oblativo che ci è richiesta.
Dio che ci ha creati liberi, non può toglierci la libertà di peccare e il peccato genera sofferenza e morte. Dio non può eliminare magicamente queste conseguenze negative, ciò significherebbe toglierci la libertà.
Nel suo Amore ha trovato però un altro modo per salvarci: in Cristo si è fatto Egli stesso carico di quelle conseguenze.
Ciò che Cristo fa, anche la Chiesa suo Corpo è chiamata a farlo. L’Eucaristia ci mantiene membra vive di Cristo e ci permette di partecipare al mistero della sua morte e risurrezione, al suo Amore che si offre per la vita del mondo.
Quando Cristo dice, per mezzo del sacerdote: «Prendete, questo e il mio Corpo offerto per voi», lo dice di Se stesso, ma noi che siamo pure suo corpo nella Chiesa, dobbiamo permettere che quelle parole si compiano anche in noi. Deve poter dire anche della nostra vita: «Prendetene tutti».
Ecco allora che anche ciò che ci può essere di buono nella nostra vita, non è più nostro, è per tutti; e il peccato, la situazione di morte spirituale dei nostri fratelli, è anche nostra.
Forse può essere riportato qui quanto S. Paolo dice nella lettera agli Efesini, riguardo al rapporto tra il popolo di Israele che era già nell’alleanza con Dio e i pagani che erano più lontani da Lui: «Cristo è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di Lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito». (Ef 2,17-18)
Tale condivisione e compartecipazione ha un solo modello: Cristo, che da ricco che era, si fece povero per arricchire noi con la sua povertà (cfr. 2 Cor 8,9).
Egli ha condiviso fino in fondo la povertà più grande dell’uomo: è stato trattato «da peccato» (cfr. 2 Cor 5,21) pur essendo il solo Giusto. «Cingendo» la nostra natura umana si è rivestito della debolezza propria del peccato. Come dice S. Agostino, commentando l’episodio evangelico della lavanda dei piedi, «Cristo ha deposto le prerogative della sua natura divina e si è cinto della natura di servo» [16].
Si è fatto volontariamente schiavo per «lavare» il nostro peccato. Si è lasciato «legare» dalla sofferenza e dalla morte per rendere a noi la libertà e la vita. Il mettere la corda al collo è anche riconoscere che Cristo ha fatto tutto questo per noi. È stare davanti a Lui in nome e assieme a tutti coloro che sono avvinti dai legami del peccato, per chiedere che la luce (ecco il cero acceso) e la forza della Pasqua di Cristo possano ancora oggi spezzare la schiavitù della colpa.
E’ anche impegnarsi a «prestare» la nostra vita a Cristo, perché possa continuare il suo farsi servo dei peccatori, per riscattarli alla dignità di figli.
Madre Mectilde dice che è
«un’atto di umiliazione in cui ci confessiamo colpevoli, ma non può essere accolto dal Padre se non per Gesù Cristo.
Allora...ci uniremo particolarissimamente a Gesù Cristo Nostro Signore per riparare attraverso di Lui, la gloria di suo Padre e la sua nel Santissimo Sacramento. Fatto ciò, bisognerà abbandonarci nella fede credendo fermamente che Lui riparerà in noi e ci renderà degne, per mezzo suo, di glorificarlo. Bisogna dimorare, semplificate, in questa unione di sé a Gesù» [17].
Verso la luce pasquale
L’impegno che la riparazione richiede è molteplice.
«E’ in noi che dobbiamo cominciare a riparare la gloria di questo amabile Salvatore; in noi per primo occorre stabilire il suo impero: insomma, in noi devono operare la giustizia e la santità per renderci vere vittime. [...] E’ necessario che noi abbiamo zelo ardente per strappare dai nostri cuori tutto quello che gli impedisce di regnare in noi da sovrano e di trovarvi le sue compiacenze. Non basta, dobbiamo portare il suo amore nel cuore di coloro che lo profanano e contribuire alla loro salvezza riparando per essi» [18].
La riparazione non è solo adorare, amare, credere...«al posto di», cioè fare ciò che i peccatori non fanno, ma vivere e fare di tutto perché anch’essi possano giungere a riconoscere, amare, lodare.
Non per nulla l’ottava delizia della Figlia del SS.mo Sacramento dice:
«Si mantenga sempre in uno stato di attuale amoroso abbandono per i peccatori, offrendo a Dio in ogni momento la propria vita per ottenere loro una completa conversione, mediante un sincero ritorno alla grazia» [19].
La grazia del ritorno alla comunione con Dio è ciò che chiediamo tacitamente con il cero acceso.
Il segno corda + cero è davvero pasquale. Esprime due aspetti: lo stato di servitù e di morte, legato al peccato, e il desiderio della vita nuova nello Spirito, che Cristo ci ha donato con la sua morte e risurrezione.
Nel quadro della prima Ammenda, si nota la presenza non di un solo cero acceso durante l’atto di riparazione, come facciamo noi oggi, ma di tante candele accese quante sono le persone che portano la corda al collo.
Quindi il simbolo completo è costituito dalla corda, dal cero, e dalla lettura del testo di ammenda, che esplicita sia il riconoscimento della colpa come la richiesta della grazia di una vita nuova.
«Mi prostro davanti alla Tua santissima Maestà, per adorarti in nome di quelli che non ti rendono alcun omaggio.
Vorrei, col mio amore e con la mia offerta ottenere per loro le grazie di conversione, affinchè anch’essi ti tributino amore, onore e gloria, per l’estensione di tutti i secoli» [20].
Può darsi che, per motivi pratici, la molteplicità dei ceri si sia «riassunta» nell’unico cero della colonna, che arde al centro del coro per ricordare ed esprimere l’impegno di preghiera e di offerta di tutta la comunità.
La simbologia della corda e del cero non manca dunque di contenuto.
Il simbolo, a differenza del segno, non rimanda ad uno solo, ma ad una catena di significati.
Se per noi la colonna è un simbolo della riparazione, è comprensibile che oltre all’interpretazione che abbiamo sopra esposto ne siano state date altre:
- qualcuno ha visto nel cero acceso un richiamo al cero pasquale, e perciò un segno del nostro inserimento, con la riparazione, nel Mistero pasquale;
- altri vedono nella corda al collo, il segno del legame che unisce la nostra vita a Cristo. Anche questo è vero, perché la riparazione non è iniziativa nostra, ma adesione ad uno stato di Cristo nell’Eucaristia; Ciò che conta è che ogni interpretazione tenga conto del significato originario che la Madre ha voluto porre in questo simbolo e del contenuto specifico, proprio del nostro carisma.
Se assunto e vissuto consapevolmente, nella forma e negli impegni che comporta, anche questo, che può sembrare solo un dettaglio della nostra vita monastica, può rendere la comunità stessa segno.
Forse non sarà un segno immediatamente decifrabile per chi lo vede dall’esterno, ma può essere una provocazione, un invito alla riflessione, uno stimolo ad interrogarsi su temi, come quello del peccato e della redenzione, che tendono ad essere rimossi dalla società attuale.
Ci aiuti Maria Santissima, nostra Celeste Abbadessa, ad adorare con fede Cristo nell’Eucaristia e ad aderire a Lui, come Egli aderì in tutto alla volontà del Padre e attraverso la valle oscura della passione e della morte, ci aprì la via pasquale, per passare con Lui dalla schiavitù del peccato ai pascoli della Vita eterna.
[1] Cfr. M. Mectilde de Bar, Costituzioni sulla Regola di S. Benedetto, Alatri 1982, pp. 67-70.
[2] D. MOSSO, Vivere i sacramenti, ed. Paoline, Cinisello 1992.
[3] Ibid., pp. 25-26.
[4] Ibid., pp. 27.
[5] G. Dorfles, Nuovi riti, nuovi miti, Einaudi, Torino 1965, pp. 68-69, Citato in D. Mosso, o.c., pp. 31-32. 42
[6] D. Mosso, o.c., p. 48. Le espressioni in grassetto, qui e altrove nel testo citato, sono di chi scrive.
[7] Ibid., p. 49.
[8] Ibid., p. 47.
[9] L.M. Chauvet, Simbolo e sacramento, citato in D. MOSSO, p. 67.
[10] H. Cox, La seduzione dello spirito, citato in D. MOSSO, p. 67.
[11] D. Mosso, o.c., pp. 66-67.
[12] Ibid., p. 69.
[13] Gerd Heinz-Mohr, Lessico di iconografia cristiana, ed. IPL, Padova 1995.
[14] V. Andral, Catherine Mectilde de Bar. Un carisma nella tradizione ecclesiale e monastica, ed. Città Nuova, Roma 1988, nota 29, p. 95.
[15] Madre Mectilde del SS. Sacramento, Il Vero Spirito, Novara (pro manuscripto), 1980, p. 16.
[16] Madre Mectilde del SS. Sacramento, Il Vero Spirito, Novara (pro manuscripto), 1980, p. 16.
[17] Bénédictines du St. Sacrement de Rouen (a cura di) Documents historiques.
[18] Catherine Mectilde de Bar, Non date tregua a Dio, ed. Jaca Book, Milano 1978, p. 130.
[19] Il Vero Spirito, cit., p. 28.
[20] Dal testo dell’Ammenda utilizzato dal monastero di Grandate (N.d.R.).