Deus
absconditus, anno 95, n. 2, Aprile-Giugno 2004, pp. 47-49
Lorenzo
Emilio Mancini
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Sono le 12.50 di giovedì 12 febbraio 2004, la neve scende a grossi fiocchi, il cielo è grigio e la visibilità scarsa: stiamo aspettando di entrare nel lager dalla porta principale per cominciare la visita. Una nota scritta, frutto di una crudele ironia, ci accoglie: «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi, ma quale «lavoro«, quale «libertà» ad Auschwitz? La tecnica mi fornisce i migliori tessuti e le migliori fibre per affrontare le basse temperature e resistere a questo freddo polacco, ma i miei piedi e le mie mani sono congelati ugualmente. Eppure, ho visto le foto di qualche bambino che qui, più di sessant’anni fa, ci è arrivato senza scarpe, vestito solo di una camicia, dopo essere stato separato dalla propria mamma, destinata ad un’altra baracca e, forse, mai più rivista.
I fiocchi di neve sui volti delle ragazze si mischiano alle loro lacrime che scendono lentamente lasciando traccia sulle guance arrossate dal freddo; qualcuna non vorrebbe entrare nelle varie parti del campo o, quanto meno, vorrebbe selezionare le cose da vedere in base alla propria resistenza e sopportazione psicofisica, ma non sempre è possibile: il gruppo si muove quando si sta leggendo la descrizione di che cosa è contenuto nelle stanze, gli occhi sono già fissi sull’orrore delle montagne di capelli, di scarpe o di gavette. È troppo tardi: quell’immagine è ormai entrata nella memoria e difficilmente credo che ne uscirà.
Sono pronto ad intervenire in ogni momento: un mio professore di psicologia all’università mi ha insegnato che fra i meccanismi di difesa più frequenti c’è lo svenimento, come reazione ad un violento stress emotivo; a questo si aggiunga il freddo e lo stomaco vuoto. Sì, sono pronto ad intervenire per loro, ma io quanto resisterò ancora? Sono il loro docente accompagnatore, un loro punto di riferimento, non posso vacillare, anche se provo gli stessi loro sentimenti. La mia gola è gonfia di pianto, ogni tanto mi allontano dal gruppo, prego continuamente e faccio mie le parole di Cristo «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», ma non ho la sensazione di un Dio lontano, ma misteriosamente vicino, di un Dio che non mi spiega le ragioni del male, ma che vive su di sé l’esperienza della morte tragica, tragica come quella ad Auschwitz, di un Dio che non parla all’uomo per miti incomprensibili, ma che muore urlando per il dolore per obbedire ad un incomprensibile disegno d’amore.
Rispondo alle domande, ma non a tutte, non tanto per ignoranza, ma perché non tutte hanno una risposta, se non quei mesti abbracci che le ragazze si scambiano nel passaggio da una stanza all’altra per farsi coraggio e per professare silenziosamente quel «Mai più!» scritto in tutte le lingue sulla scultura posta al centro del campo di Dachau.
È paradossale, lo so, ma sono contento di vederle piangere, è una soddisfazione umana, professionale e vocazionale, perché mentre visitiamo il campo c’è anche chi ride, scherza e si diverte: segni di speranza si confondono con la paura che nulla possa cambiare.
Nel gruppo c’è un solo ragazzo che per due ore spegne la sua naturale gioia di vivere e la sua voglia di scherzare per stare vicino, col suo silenzio e la sua presenza, alle compagne di cui si sente in qualche modo responsabile.
Vorrei svegliare le ragazze da questo sonno angoscioso e dire loro: «Tranquille, è stato solo un orribile incubo, l’uomo non è questo, è naturalmente buono». Ma non è così: l’umanità è anche questa. L’uomo è quello che ha costruito una macchina prodigiosa che ci ha permesso di raggiungere Varsavia da Milano in meno di due ore attraverso il cielo, ma è anche quello che ha costruito questa ‘macchina’ di morte in grado di sterminare con precisione scientifica sei milioni di esseri umani e di ripeterlo a distanza di pochi anni con altra gente in Russia, in Tibet, in Armenia e in tante altre parti del mondo fino ad oggi.
Prima di partire, le ragazze erano state debitamente preparate: film, lezioni speciali, documenti, ma … tutto è rimasto nel mondo del ‘virtuale’: ora quei capelli con cui sono stati tessuti tappeti, quelle scarpe, quelle gavette, quei gabinetti e quei pagliericci sono reali.
Ora, non in virtù di un ragionamento o di un attento studio della teologia, comprendo meglio le parole di Catherine Mectilde de Bar sulla riparazione: non una pratica, una devozione confinata nell’alveo della spiritualità francese del XVII secolo, ma un’esigenza dell’uomo creato «ad immagine e somiglianza di Dio», ma anche fratello di Caino. Dalle atrocità degli svedesi in Lorena a quelle dei giorni nostri: una porzione di storia della salvezza, ma anche della dannazione e, appunto, della riparazione.
Ad Auschwitz mi tornano in mente proprio quelle righe del Vero Spirito in cui Catherine Mectilde de Bar descrive la passione di Cristo come la storia di un innocente trattato «come se fosse un bestemmiatore, un omicida, un falso testimone, uno spergiuro»[1], e quanti in questo campo hanno sofferto, avendo come unica ‘colpa’ quella di non essere ariani! Ecco allora che, in preda al più totale smarrimento, si comprende pienamente il significato della parola ebraica shoah, catastrofe.
Di fronte a questo spettacolo, ancora vivo e pulsante a distanza di sessant’anni, la ragione tace e anche la fede è messa a dura prova: che cosa chiedere a Dio, che cosa dirgli, che cosa offrirgli se non un silenzio orante e riparatore?
* Oblato secolare del Monastero «San Benedetto« di Milano. Ringraziamo il prof. Mancini per questa toccante testimonianza.
[1] M. Mectilde du Saint Sacrement, Il Vero Spirito delle Religiose adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento dell’altare, Ronco Ghiffa (VB), Monastero SS. Trinità, 1980, p. 57.