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Deus absconditus, anno 90, n. 3, Luglio-Settembre 1999, pp. 30-39
Andrea Grillo*
La proposta cristiana di Madre Mectilde del S.S. Sacramento:
radici di una
spiritualità ancora attuale
«Perdere tutto senza perdere la pace»
M. Mectilde
L’occasione di un centenario è sempre un «terreno minato» per prendere la parola. Ricordando una perdita, una mancanza, ma dovendo anche celebrare un guadagno, una nuova più intensa ricchezza, ci si trova in imbarazzo. Come di fronte ad ogni uomo che lascia questa vita, un eccesso di cose da dire si trasforma spesso in silenzio perplesso, o, peggio, in parole di circostanza, in «frasi fatte» in «luoghi comuni».
Non è questo il caso di «commemorazioni di circostanza». Il ricordare «di circostanza» non è mai all’altezza di ciò che ricorda. Per ricordare davvero, bisogna evitare la strisciante ovvietà che insidia la meraviglia di ogni rapporto con un «altro», e riscoprire invece lo stupore originario che ha determinato la possibilità stessa del mantenersi di una memoria che sfida il senso più negativo e distruttivo del tempo, come quel «passare» che non lascia traccia.
Vorrei cercare di evitare proprio queste pericolose possibilità, seguendo un piccolo itinerario che dovrebbe condurmi ad affrontare il tema lungo tre brevi tappe:
a) mi chiederò anzitutto – e in via preliminare – il senso del «far memoria», che cosa significa per gli uomini e in particolare per i cristiani questo dovere e questo piacere di ricordare altri come unica via data agli uomini per ricordare a loro stessi chi sono e per progettare chi potranno essere domani;
b) passerò quindi ad esporre la «proposta cristiana» di M. Mectilde secondo quelli che mi sembrano i suoi tratti essenziali, con tutto ciò che la caratterizza, anche in senso strettamente «benedettino»;
c) mi dedicherò infine a «lasciare la parola» alla stessa M. Mectilde, cercando di mostrare la originalità e la freschezza di alcune visioni che ancor oggi possono «provocare» l’uomo e la donna contemporanei ad una radicale esperienza di sé e del mondo, aprendoli alla relazione con Dio e con il prossimo come propria verità.
1. Il senso del «far memoria»
Nel 1614 nasceva Catherine de Bar, nel 1698 moriva Madre Mectilde del SS. Sacramento. Nascere con un nome e morire con un altro: questo è il destino di moltissime donne e di moltissimi uomini che fanno una scelta (o meglio che rispondono ad un esser scelti) nel lasciar trasformare la loro vita in una testimonianza radicale della relazione che li fonda. Cambiare nome Poter accedere a se stessi solo passando dall’incontro con un altro, dal «segno» dalla «ferita» di questo radicale «perdere se stessi», persino nel nome, per «ritrovarsi donati a se stessi».
Nata come Catherine de Bar e morta come Mectilde del SS. Sacramento: proprio questa donna noi tentiamo di ricordare.
Che cosa significa ricordare? Se oggi noi dobbiamo ricordare è a motivo del fatto che l’atto stesso della memoria è parte stessa dell’uomo e del cristiano. Senza ricordare «altro» da noi, non possiamo essere noi stessi. Anzi proprio ricordando «altro», scopriamo come questo altro ci riguarda da vicino. Il mondo che abbiamo qui intorno, questa chiesa in cui parliamo, questo monastero che sta qui attorno a quella chiesa e che in essa si raccoglie pregando cantando, adorando, riparando, ha in M. Mectilde il suo «principio» E’ inevitabile far immediatamente reagire il «ricordo di lei» con il pensiero su di noi. Solo ricordandola possiamo dire pienamente «chi siamo».
Ma far memoria significa sempre queste due cose insieme: far memoria di altro e dimenticare se stessi. I cristiani spesso passano sotto silenzio questa legge, profondamente umana, per cui ogni uomo, per poter ricordare qualcosa ha bisogno anzitutto di spogliare se stesso, di dimenticare se stesso come illusorio centro originario di attenzione. A sua volta, e coerentemente con quanto abbiamo appena detto, è degno di memoria chi ci ha insegnato queste due cose: chi ha dimenticato se stesso per mostrare veramente la sua verità oltre lui stesso. «Dimentico del passato e proteso verso il futuro» – per citare Fil 3,13 – ogni cristiano realizza e rende testimonianza alla Parola di Dio, che lascia apparire nel mondo, ciò che lo supera e lo compie.
Ma che cosa potremmo ricordare di Lei, di Madre Mectilde? Che cosa può ancora dirci? Ecco un’ulteriore questione cui è necessario rispondere. Ciò che possiamo ancora ascoltare da M. Mectilde non deve essere necessariamente misurato sulla «sensibilità attuale». Poiché il criterio della «attualità» che pure deve sempre essere preso in considerazione per poter dire anche una sola parola sensata, non può funzionare come una nuova «legge» che si imponga al nostro modo di comprendere la fede cristiana. Quella attualità che non comprende più le parole di M. Mectilde può forse risultare, alla lunga, come ciò che di più «inattuale» si presenta all’orizzonte. Che cosa sia veramente «attuale» in senso cristiano resta allora un problema non di poco conto, che soprattutto è molto rischioso lasciar risolvere al «senso comune» o a ciò che si pensa «per lo più».
La sorprendente attualità di Madre Mectilde consiste allora essenzialmente nella sua quasi assoluta inattualità. In effetti, se si considera bene, ogni proposta autenticamente spirituale non può non avere un suo lato abbondantemente «inattuale», quando voglia avere la capacità di scuotere fino in fondo, di far pensare le cose alla radice, di aprire gli occhi, di risvegliare, di consolare in profondità e non solo di carezzare la superficie dell’esperienza umana. La «contemporaneità» della esperienza spirituale – questa sì che è sempre necessaria! – è ben altra cosa dalla sua semplice «attualità», anche per quanto riguarda il messaggio mectildiano.
2. La «proposta cristiana» di Madre Mectilde del SS. Sacramento
Ho pensato di riunire i fondamentali caratteri della proposta cristiana di M. Mectilde in 3 dimensioni essenziali. Ad esse corrispondono tre tratti peculiari dello stile cristiano di questa monaca benedettina che ha attraversato tutto il secolo XVII.
1. Spiritualità cristocentrica.
La monaca deve incarnare – attraverso il rapporto con Cristo – la pienezza della realizzazione dell’uomo come «vittima». Il modo di intendere questa caratteristica deve però essere riportato strettamente al «titolo» di vittima – di «ostia» – meritato dal Signore Gesù. Il suo essere allo stesso tempo sacerdote e vittima (santuario e altare) lo abilita a concedere ad ogni cristiano (e ad ogni monaca) la sua stessa obbedienza fino alla morte.
Già questa prima caratteristica suona subito, all’orecchio dell’uomo di oggi, come quanto di più «inattuale» (e perciò «astruso» e indesiderabile) si possa concepire. Se c’è una cosa oggi evidente è che nessuno deve essere vittima, mai e poi mai, mentre M. Mectilde propone questo «stato» come il più autenticamente cristiano.
Essere vittima è però pensato oggi solo come «privazione di un diritto», limitazione di possibilità vitali, mortificazione. Per questo spesso non sappiamo più che cosa significa obbedire. Mentre in M. Mectilde lo «stato» di vittima è la condizione per fare della vita la affermazione della relazione al Padre, nello Spirito del Figlio. L’uomo di oggi rifiuta (giustamente) che l’uomo individuo sia vittima, ma non riesce più a pensare che l’uomo in relazione fa della obbedienza la sua verità. La affermazione della monaca come «vittima» introduce nel pensiero scontato di oggi la verità di una relazione che fonda il mio «stato», dice con parole profonde che la mia libertà si fonda su una obbedienza radicale, che Cristo ha reso accessibile a me come a tutti.
In questo atteggiamento vitale, la monaca del S.S. Sacramento deve tradurre in vera esperienza vitale quella memoria di altro e quella dimenticanza di sé che M. Mectilde esprime con le parole: «puro sguardo verso Dio e oblio di sé». Guardare a Dio e dimenticare se stessi non è anzitutto un modo di «mortificarsi», è piuttosto un inno alla vita, alla gioia di un rapporto che promuove e salva, lode e ringraziamento per il dono di grazia e d’amore che Dio ha riservato e garantisce ad ogni uomo.
Certo, questo duplice atteggiamento, verso Dio e verso se stessi, non è privo di difficoltà, non è senza peso e fatica. Ma tutto ciò è incidentale, strumentale, marginale rispetto al lato centrale, finale e sostanziale della spiritualità mectildiana. La «vittima» condivide con Cristo la condizione di colui che «ha imparato l’obbedienza dalle cose che ha patito», e lo ha fatto per scrivere la pagina definitiva della vittoria della vita sulla morte, della grazia sul peccato, della gioia sulla disperazione.
2. Mistica eucaristica.
La adorazione e la riparazione sono i due versanti che reciprocamente si integrano e si sostengono nel rapporto con l’eucaristia. Mentre il primo atteggiamento – di adorazione – è volto ad una lode totale al Dio di grazia e di misericordia, il secondo è indirizzato ad una condivisione del peccato dell’uomo. Sono i due aspetti reciproci dell’atto di fede, che è ad un tempo lode a Dio e perdono del peccato dell’uomo. Entrambi questi movimenti essenziali alla vita della monaca ruotano attorno al sacramento eucaristico, in cui la pura offerta e lo stato di vittima si sovrappongono indistricabilmente.
Aver centrato sulla eucaristia questa spiritualità della «vittima» risponde tanto alle esigenze del tempo di Mectilde, quanto alla lungimiranza di una correlazione che impedisce proprio quegli eccessi «mortificanti», che pure sono sempre stati una possibilità di queste tendenze spirituali. L’eucaristia, continuamente posta al centro, mantiene, sempre più alta e più luminosa, l’evidenza di un «dono», che sovrasta e sostiene ogni «diritto» e ogni «dovere» dell’uomo e della donna. Non c’è compito o dovere che possa ottenere ascolto se non perché illuminato e coperto dalla maestà – umile e perciò vittoriosa – del pane della vita.
La qualità «eucaristica», e perciò gioiosa e consolante, di quella vittima (Cristo) e di queste altre vittime (monache), impedisce ogni deriva individualistica, intimistica o unilateralmente ascetica. Come vedremo meglio più avanti, è proprio questo tratto eucaristico a garantire l’equilibrio della proposta spirituale mectildiana, che matura – non dimentichiamolo – in ambiente benedettino.
3. Fedeltà alla regola benedettina.
Con tutta la «pressione» che esercitano le prime due caratteristiche della spiritualità di M. Mectilde, ad equilibrare la «pretesa» ascetica interviene poi anche, e non secondariamente, la regola di S. Benedetto, che segna la spiritualità mectildiana con una «sobria e serena scansione del ritmo di vita». Questa terza caratteristica merita anche una parola di chiarimento.
La regola libera dalle regole: così potremmo dire per Mectilde, ed anche per noi, oggi. In effetti, «per servire Dio occorre una santa libertà»: dietro queste parole possiamo scorgere il valore della impostazione benedettina, rispettosa della pazienza e della lentezza, ma anche pronta a volgere ogni spazio e ogni tempo alla lode di Dio.
Scandire il tempo, valorizzare il lavoro, prestare cura al pasto, al dormire, allo svegliarsi, alla cura di sé non è in contraddizione con il rapimento per l’assoluto, con il distacco dal mondo, con il trascurare le cose umane. Anche questo aspetto della proposta mectildiana mi pare che oggi trovi scarso ascolto nei percorsi spirituali cristiani contemporanei. Questa sapienza di vita, che non trascura il contingente per attingere al trascendente non è una forma di piccolo compromesso rispetto al grande ideale, ma è la sola via data all’uomo per restare se stesso. Se non è azzardato descrivere la fede cristiana come la via con cui l’uomo può veramente restare se stesso, «creato ad immagine e somiglianza di Dio», senza scadere a livello animale e senza proiettarsi a livello angelico. Queste due alternative – entrambe sbagliate – oggi attirano come sempre lo sguardo accecato dell’uomo.
La vera spiritualità cristiana non è mai affermazione dello Spirito «contro» il corpo – né ovviamente del corpo contro lo Spirito – ma dello Spirito «incorporato» e del corpo «ispirato».
3. Tratti «provocatori» del suo insegnamento
La «inattualità» di M. Mectilde di cui abbiamo parlato si esprime soprattutto in alcuni punti-chiave del suo insegnamento ed esempio. Per l’uomo e per la Chiesa di oggi alcuni tratti di M. Mectilde risultano positivamente provocatori proprio nel portare alla luce nodi irrisolti della percezione che l’uomo contemporaneo ha di sé, del mondo e di Dio. Passerò in esame alcuni di questi loci, che potranno meglio aiutare a cogliere tale loro inattuale attualità. Attraverso il contatto con M. Mectilde potremo svolgere – in trasparenza – anche qualche considerazione sull’uomo e sul cristiano di oggi [1].
1. Chi è l’uomo?
Cominciamo con l’ascoltare una prima affermazione di M. Mectilde:
«Tutti gli esseri creati si corrompono e vengono distrutti nel succedersi dei secoli, confermando mediante la loro distruzione che Dio solo esiste per se stesso» (VS 2).
Solo Dio è per sé, l’uomo è «per altro». Quanto importante e quanto dimenticata è oggi una affermazione di questo tenore! Eppure essa coglie una delle più originarie esperienze dell’uomo, che l’uomo nella sua vita non solo dimentica, ma capovolge. Il suo «nulla di essere» dimenticato, diventa «nulla di peccato», volontà ostinata di essere qualcosa di valido e di sussistente «di per sé» [2].
In effetti, ricondurre l’uomo alla natura – come vorrebbe oggi con tanta cieca nostalgia una prospettiva «ecologica» – significa perderlo. Per l’uomo non si tratta di «entrare in se stesso», ma di «uscire da sé», di rinunciare a se stesso, di perdere la propria volontà. In Madre Mectilde tradizione mistica e critica della modernità si alleano con una scansione benedettina del tempo.
Il duplice concetto di nulla di essere e di nulla di peccato costituisce la griglia di lettura dell’uomo nella sua finitudine e nella sua colpa. Ma questo non deve essere percepito come il prevalere di un senso pesante e angusto della vita. E’ piuttosto una evidenza originaria, rispetto a cui la vita può assumere l’aspetto straordinario dello stupore, della meraviglia, della gratitudine e della lode continua. Da solo, l’uomo è un nulla di essere, e per il fatto di illudersi di essere «comunque» qualcosa, è anche un nulla di peccato. Nella relazione con Dio – ricostituita da Cristo nella sua struttura originaria e resa accessibile nell’incontro del prossimo – l’uomo è invece pienezza di essere e assenza di peccato.
La provocazione alla mentalità moderna è assai forte. Ancor di più lo diventa quando questo «principio» si cala nel concreto e diventa il criterio di orientamento della vita quotidiana, come vedremo al paragrafo successivo.
2. Uno strano decalogo
Consideriamo perciò il provocatorio «decalogo» che presenta le «delizie» di una Figlia del S.S. Sacramento e che trasforma in una piccola «regola» quotidiana il grande principio che abbiamo appena ascoltato. Eccone i dieci punti:
- essere sconosciuta
- non occupare posto
- scegliere sempre l’ultimo posto
- fare del bene a tutti senza sperare ricompensa
- amare d’essere povera d’onori, di stima e di affetto
- essere felice di essere senza doti
- amare la solitudine e tenersi nascosta
- mantenersi sempre in uno stato di attuale amoroso abbandono per i peccatori
- essere mossa da insaziabile esigenza di partecipare ai disprezzi di Gesù
- accettare la sofferenza e il disprezzo. (cfr. VS 27-28).
Che cosa ci suggerisce questa serie di indicazioni sulla «identità» della monaca del SS. Sacramento? La cosa più sorprendente è che questa «perdita di identità» appare assai affine alla tradizione mistica della «perdita della volontà», del superamento della soggettività. Con ciò essa sfida la mentalità contemporanea – ossia la mentalità di sempre, dotata però di strumenti molto più raffinati – che fa della notorietà, del primo posto, del diritto alla ricompensa ecc. il proprio ABC. Si deve però prestare grande attenzione al fatto che questa «umiliazione» resta per Mectilde e per le sue Figlie un «dono di Dio». È Dio che può concedere all’uomo la grazia di sapersi inconsistente di per sé e di poter sussistere solo grazie all’atto d’amore con cui Dio e il prossimo lo hanno promosso e continuano a sostenerlo.
Il «porsi in disparte» non è anzitutto la azione della monaca, ma una sorta di sua «passione», con cui esprime riconoscenza e gratitudine e testimonia la lode a Dio quasi facendogli spazio e lasciandogli la signoria sul tempo. La monaca non ha un proprio luogo, un proprio posto, e non ha un proprio tempo per testimoniare espressivamente che Dio è autore e custode del nostro spazio e del nostro tempo. Non si priva dello spazio e del tempo proprio, ma attesta con un atto estremo e significativo la autorità divina sullo spazio e sul tempo.
3. I molti sensi della parola «adorazione»
Altrettanto sorprendente è la profonda articolazione cui M. Mectilde sottopone il concetto di «adorazione». Possiamo suddividere il suo significato il tre direzioni:
a) come prassi cultuale, come rapporto con l’ostia eucaristica; questo, che per noi è diventato quasi il senso «primario» del termine, mentre in M. Mectilde ricorre meno frequentemente di quanto si potrebbe pensare. Ha il valore della prassi orante e quotidiana che esprime la verità del secondo e terzo livello di significato che qui consideriamo.
b) come comprensione di sé, come atteggiamento di fondo dell’uomo; soprattutto nell’adorare, nel ringraziare riparando e nel riparare ringraziando l’uomo può essere se stesso. Puro sguardo verso Dio e condivisione del peccato con i peccatori è l’atto con cui l’uomo ritrova la propria verità, nella compagnia infallibile del Signore Gesù Cristo.
c) come esperienza esistenziale, come «stato» dell’uomo che è «nulla di essere» e «nulla di peccato». La adorazione è la vita cosciente di questo duplice nulla che converte l’esistenza in lode a Dio e in solidarietà con il prossimo. In Gesù, Figlio di Dio, questo doppio movimento dell’uomo, da Dio e dal prossimo verso Dio e verso il prossimo, diventa una possibilità offerta gratuitamente e graziosamente ad ogni uomo.
Il senso cristiano di adorazione è dunque essenzialmente un modo – forse «il» modo – di far posto a quel «rapporto con Cristo» che apre ogni uomo a questa duplice relazione a Dio e al prossimo come propria verità. Questo è il motivo per cui secondo M. Mectilde la adorazione può essere spiegata molto brevemente mediante la eguaglianza: adorare = aderire.
4. Il rapporto con l’eucaristia
L’adorazione si realizza nella eucaristia, che è vista però soprattutto come l’accostamento alla S. Comunione:
«Sorelle mie, dobbiamo accostarci alla santa Comunione: primo, affinché Nostro Signore sia in noi tutto quello che deve essere, e perché noi cessiamo di essere tutto ciò che siamo, con lo scopo di perderci felicemente in Lui e staccarci da noi stessi» (VS 63)
Nella adorazione riferita all’eucaristia non prevale dunque il vedere – come potrebbe far pensare una tradizione più recente – ma il mangiare. Ad illustrazione di questa priorità centrale M. Mectilde si chiede:
«In che modo [Cristo] si nutre di noi? mangiandoLo, sorelle mie, ci mangia e, mentre Egli sta nei nostri cuori, noi stiamo nel Suo» (VS 19).
Viene sentita con vigore l’esigenza della partecipazione eucaristica perché senza una adeguata «presenza» celebrativa:
«Non partecipiamo alla Santa Messa come dovremmo...infatti al Sacrificio, perché abbia la sua pienezza, occorre la nostra parte...» (VS 40).
Per questo l’aspetto sacrificale è sempre unito a quello «conviviale» e sacramentale, senza mai perdere la bella unità che la tradizione ha sempre valorizzato per un accesso equilibrato alla eucaristia:
«Sorelle mie, trovo che la Santa Messa è un bellissimo banchetto» (VS 45).
«... Quando nessuno dei partecipanti alla Messa fa la Comunione, al Santo Sacrificio manca qualche cosa. Perché? Dato che Gesù l’ha istituito per comunicarci la sua vita e per trasformarci divinamente in sé, per questo dobbiamo diventare una medesima ostia con Lui, una medesima vittima di amore» (VS 139).
Anche l’atteggiamento con cui ci si dispone alla messa deve essere adeguato al suo contenuto e muovere sentimenti all’altezza della situazione sacramentale:
«E’ possibile assistere alla morte di un Dio, all’effusione del suo Sangue, alla nostra riconciliazione col suo divin Padre per opera di Cristo, e rimanere così fredde così distratte e così lontane da Gesù?» (VS 46).
Questi brevi accenni sono sufficienti a far cogliere la grande attualità di un pensiero che, sebbene ormai lontano da noi più di tre secoli, in certo modo anticipa temi che la chiesa universale ha riscoperto soltanto negli ultimi 50 anni e che fa ancora tanta fatica a comprendere fino in fondo e ad attuare nella propria esperienza sacramentale ed eucaristica.
5. Sobrietà equilibrata
Ogni forma di ascetismo accentuato – come capita anche per alcuni aspetti del pensiero di M. Mectilde – corre sempre il rischio di esagerare. Ha bisogno – anche qui – di una «regola», non tanto per imporre obblighi, quanto per limitarli. La sapienza equilibrata di M. Mectilde formula molto brevemente questo principio di sovrano equilibrio:
«Fuggiamo dunque le creature, ma fuggiamo anche noi stesse» (VS 157).
Il grande obiettivo e la vista corta dell’uomo: entrambe queste dimensioni sono tenute presenti, non si perde l’una per considerare l’altra. Solo così è possibile tener insieme il «rinnegamento di sé» e la serenità di una esistenza senza compiti ossessivi. Insomma, la logica del dono prevale e trionfa anche laddove il compito, il dovere e il progetto potrebbero farsi pericolosamente totalizzanti. Ascoltiamo il tono garbato e lungimirante con cui viene qui presentata la dimensione della «mortificazione»:
«Portiamo sempre con noi un falcetto per tagliare quella parola, stroncare quello sguardo, vincere quello scatto e, a poco a poco, senza tanta fatica, cresceremo... Non vi dico grandi parole che vi sconcerterebbero, come: morte continua e grande mortificazione. Mi direste: «Come è possibile morire e rinnegarsi continuamente?«. Ma è più dolce dirvi: «Togliete, scalzate, tagliate« e in seguito vedrete che Dio benedirà la vostra piccola fatica» (AD 203).
6. Capacità stilistiche
Un ultimo aspetto risulta importante considerare: M. Mectilde sapeva parlare, sapeva scrivere. Ascoltiamo questo suo «incipit»:
«Sorelle mie, ritengo che sarebbe più utile stare nella solitudine e in silenzio per ascoltare la voce di Dio, e anche più vantaggioso all’anima parlare a Dio, invece che parlare di Dio. Ma, poiché è mio dovere parlare, vi dirò che il silenzio è una cosa santissima» (VS 90).
Con parole semplici, con una certa dose di sottile ironia, rifacendosi ad una lunga tradizione mistica – sempre in equilibrio tra il dire e il tacere – M. Mectilde sa sempre che ogni riflessione teologica e spirituale non è indifferente rispetto alle parole con cui viene espressa.
Sia pure indirettamente, in lei vi è sempre viva la coscienza di una esigenza di «stile», di una bisogno di «esprimere adeguatamente per poter esperimentare davvero». Anche da questa sua caratteristica possiamo ancor oggi imparare qualcosa di importante; possiamo riscoprire la delicatezza di ogni espressione spirituale e teologica, nella quale si nasconde sempre una piccola trappola. Ogni volta che prendiamo la parola a proposito di Dio, del Cristo e dello Spirito, dobbiamo poter ricordare noi – e saper ricordare agli altri – la «differenza» di questi temi, di questi argomenti da tutti gli altri possibili, per quanto siano interessanti o avvincenti. Facciamo un vero servizio alla spiritualità cristiana quando sappiamo mantenere la differenza e suscitare lo stupore di fronte all’inconcepibile che si realizza.
Per far ciò, non possiamo mai ripiegare su una teologia scontata, su una spiritualità di scuola, su una «routine» consolante ma vuota. No, M. Mectilde ci indica, in un modo originale, la sapienza necessaria – anche sul piano linguistico ed espressivo – per far spazio alla Parola di Dio tra le parole degli uomini, all’agire di Dio nel progettare umano, al silenzio di Dio nel frastuono mondano, infine alla eloquenza divina nei deserti della storia.
4. Alcune conclusioni
Abbiamo cominciato dal «nome»: che cosa c’è di più nostro e che cosa dobbiamo di più agli altri? In ciò che appare come più propriamente personale, già si nasconde infatti un debito profondo, una gratitudine difficile, una sporgenza altrui che ci imbarazza e da cui fuggiamo. Ma proprio questo è il bello del ricordare cristiano. Solo con la fatica della memoria l’uomo può trovare la strada verso di sé, solo dimenticando se stesso nel ricordo può trovare se stesso grazie al ricordo, passando per altri, ringraziando altri e in loro rendendo grazie a Dio.
Anche questo nostro «ricordare» M. Mectilde fa parte di quella «strategia della memoria» che l’uomo combatte da sempre, ma senza la quale non può capire chi è. Cambiare nome è un modo simbolico per ricordare il fatto sorprendente secondo cui il nome che ognuno porta segna su di lui il sigillo di una relazione, la traccia di una cura e di un interesse da cui siamo stati promossi e del quale possiamo «strutturalmente» dimenticarci.
M. Mectilde del S.S. Sacramento e Catherine de Bar – questi due nomi per una sola persona – ci ricordano ciò che lei stessa ha testimoniato, dando origine ad una «scuola di vita cristiana» che può ancora dire una parola importante, con la dimenticanza di sé e con il ricordo della misericordia che da Dio Padre, per mezzo del Figlio Gesù Cristo, nello Spirito Santo, torna al Padre, ieri, oggi e sempre.
* Relazione tenuta il 2 ottobre 1998 presso il monastero di Grandate (CO) nell’ambito delle celebrazioni per il tricentenario della morte di madre Mectilde de Bar. L’a. è docente presso l’Istituto Pastorale di Liturgia di Padova e presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo, in Roma.
[1] Per le citazioni adotterò le seguenti sigle: VS = Il Vero Spirito delle religiose adoratrici perpetue del S.S. Sacramento dell’altare, Novara 1980; AD = Attesa di Dio. Riflessioni sulla regola di S. Benedetto, Milano, 1981.
[2] Come non ricordare qui la affermazione di un teologo così significativo per l’età contemporanea come D. Bonhoeffer, il cui pensiero è stato letto spesso in modo distorto. Egli ha affermato «Non esiste l’uomo in sé, così come non esiste Dio in sé: ambedue sono vuote astrazioni» (Etica, Milano, Bompiani, 1969, 187). Si potrebbe dire che l’epoca moderna abbia voluto conoscere soltanto queste due astrazioni!