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Deus absconditus, anno 102, n. 4, Ottobre-Dicembre 2011, pp. 76-79
Sr. Maria Cecilia La Mela osb ap *
Peccato e gloria: due facce della misericordia divina in Mectilde de Bar
Sul tema del peccato, approfondito a lungo e con perizia teologica da Mectilde de Bar, ci sarebbe davvero tantissimo da parlare. Da una lettura analitica e comparata dei numerosi testi della nostra Madre Fondatrice, viene fuori una enorme varietà di intuizioni relative al peccato espresse con chiarezza e fedeltà al Magistero della Chiesa, agli sviluppi dottrinali del ‘600, il secolo della Controriforma cattolica e dell’evolversi del pensiero filosofico e scientifico. Un argomento vorrei, tuttavia, attenzionare proprio perché, ad una prima lettura, ha dell’assurdo. Scrive Madre Mectilde : « È gloria di nostro Signore che vi siano peccatori nei quali egli eserciti una misericordia tanto grande. E ve ne potrebbe essere una maggiore del perdonare a degli ingrati, miserabili, perfidi che lo hanno oltraggiato, che lo hanno offeso milioni di volte, che hanno disprezzato le sue grazie? ».[1] Santa Teresa di Lisieux, che presenta per molti aspetti una spiritualità simile a quella mectildiana, e non soltanto nella comune formulazione della “piccola via”[2], diceva ad una novizia: « Non siamo delle sante che piangono i loro peccati; noi ce ne rallegriamo perché servono a glorificare la misericordia del Buon Dio ».[3]
Si tratta di una percezione mistica profonda in entrambe e ben rispondente ad una precisa visione della fede e del rapporto con Dio. Piuttosto pionieristica appare, tuttavia, quella di Madre Mectilde, sia perché anteriore, sia perché inserita in un contesto spirituale imbevuto di giansenismo. La sua visione libera e ottimista è in pieno contrasto con l’eccessivo scrupolo e il rigore freddo propugnato dalla corrente ideologica del giansenismo e si articola, e questo è già una garanzia, nel solco della tradizione dei Padri della Chiesa e del più genuino monachesimo. Concetti simili li ritroviamo, ad esempio, in Isacco il Siro vissuto tra il VII e l’VIII secolo agli estremi confini dell’Iraq. In alcuni testi egli prende risolutamente le parti dei più poveri e dei peccatori, per sottolineare la necessità della grazia.
Quello che più sorprende è trovare questo concetto in alcuni scritti di Giacomo Leopardi e che ci accingiamo a rileggere con una chiave interpretativa particolare: la spiritualità di Madre Mectilde. Si tratta del primo Leopardi, precedente al 1822, quando il suo pensiero non si era ancora volto verso posizioni più rigorosamente materialiste e che lui stesso non avvertiva in contrasto con il cristianesimo. Nel dicembre 1820 il poeta di Recanati annota infatti nello Zibaldone: « Ed è ben conforme alla ragione e ben verisimile il supporre che Dio volendo manifestare la sua misericordia e tutta la sua gloria alla terra, e avendo scelto di farlo, com’era naturale, nella più nobile delle creature terrestri, abbia voluta assoggettarla ad una prova, e permettere la sua corruzione e infelicità temporale, la quale ha dato luogo a tutta quella manifestazione di Dio, ch’è seguita dall’incremento della ragione umana, alla Redenzione ecc. manifestazione che non avrebbe avuto luogo se l’uomo avesse conservato il suo grado e felicità naturale, ancorché più perfetto, relativamente alla sua natura. Questa supposizione è conforme non solo alla ragione, ma espressamente al cristianesimo, il quale insegna che Dio permise il peccato dell’uomo per sua maggior gloria ».
È ciò che la tradizione teologica e liturgica sintetizza nell’espressione, riportata tra l’altro nel prefazio della veglia pasquale, “felice colpa” che ci ha meritato un così grande riscatto! O ancora l’espressione neotestamentaria “oportuit Christus pati”, era cioè necessario che il Cristo patisse per la salvezza di tutti, quasi che in questa necessità sia espressa la vera libertà dell’amore redentore. Ecco perché la croce è intimamente associata alla gloria. Gesù si è addossato i nostri peccati: l’Incarnazione e la Resurrezione ci sono a partire proprio da questa condizione di peccato di cui è intessuta la storia e la quotidianità di ogni uomo.
L’insegnamento del cristianesimo non indulge ad una specie di lassismo, quasi che l’uomo debba fare poco o nulla per evitare il peccato come a dire “Tanto Dio mi perdona”, bensì lo apre alla dimensione della grazia soprannaturale che, anche nel limite e nella debolezza, gli fa sperimentare l’incontro con Dio che lo illumina e lo riscatta con la sua infinita misericordia. Bellissimo il versetto del salmo 36: « Se cade, non rimane per terra, perché il Signore lo tiene per mano ». E ancora Gesù a San Paolo: « Ti basti la mia grazia. La mia forza si manifesta nella debolezza » (2 Cor 12,9).
L’asserzione mectildiana del peccato come esaltazione della gloria di Dio potrebbe essere letta anche alla luce di quello Gesù dice nell’apprendere che Lazzaro è ammalato: « Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa sia glorificato il Figlio di Dio » (Gv 11,4). Sappiamo bene come nel Vangelo di San Giovanni la malattia, e soprattutto la morte, intesa anche come tenebra, sono strettamente congiunte al peccato, sono cioè immagine, segno della devastazione che esso compie nel cuore e nella vita dell’uomo. Ecco che possiamo intravedere, nell’affermazione di Madre Mectilde, il significato pasquale del passaggio, la prospettiva della resurrezione.
Continua ancora Madre Mectilde « Quale bontà, quale carità, quale amore! Andare a cercare i peccatori, tentare di ricondurli a sé con tanti tocchi interiori e sollecitazioni amorevoli. Oh, chi può concepire l’amore divino, di cui il suo sacro cuore è infiammato, per quei poveri miserabili? E che cosa non opera per la loro salvezza! È incomprensibile. Se i peccatori potessero conoscerlo, non uno si dannerebbe e ritornerebbero tutti a Lui ».[4] É bene puntualizzare subito che Madre Mectilde non è una donna permissiva, non è una monaca tiepida, ma è radicale ed esigente con se stessa e con gli altri. Le sue considerazioni sul peccato non lasciano adito a malintesi: « Il peccato è una cosa talmente orrenda e spaventosa che è stata necessaria la morte di un Dio per ripararlo » scrive in un altro contesto.[5] Come sciogliere questa apparente contraddizione? Come può il peccato che è orrendo diventare esaltazione della gloria di Dio? Sembra che la Madre Fondatrice presenti il peccato ora come velatamente attenuato, ora come spietatamente denunciato. Ella in realtà non entra in contraddizione perché la gloria è da attribuirsi alla misericordia, non al peccato, il peccato è negativo in tutti i suoi aspetti e va evitato per quanto è possibile. Dal momento che però esso c’è, ed è profondamente connaturato nella natura umana, l’onnipotenza di Dio ne fa occasione per la maturazione dell’uomo stesso. “Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva” (Ez 33,11).
Gesù, che è venuto non per i sani ma per i malati, ci insegna ad essere misericordiosi con noi stessi e con gli altri imitando la prodigalità di Dio Padre. Misericordia non è mollezza, scusa di comodo, rassegnazione di fronte al male; la misericordia è una finestra aperta sul mondo dalla quale Dio veglia continuamente, perché l’umanità muore per mancanza di amore. Il Dio che si commuove fino alle viscere per le sue creature è il Dio della vita! È significativo che l’ultimo strumento delle buone opere che San Benedetto elenca nella Regola è: “Della misericordia di Dio giammai disperare” (RB cap. IV). Il Dio d’amore di Madre Mectilde, e non il Dio di timore di Giansenio, si sente più offeso dalla nostra mancanza di fiducia nella sua misericordia che non dal peccato in sé.
Madre Mectilde sembra muoversi su un terreno minato, cammina sul filo del rasoio, eppure riesce a mantenersi nella piena ortodossia e, ai suoi tempi, non era molto facile. Riesce a non lasciarsi influenzare dal rigorismo giansenista, ma non cade neppure nell’errore opposto, quello operato dal quietismo. Madre Mectilde opera, in sintonia con le disposizioni del Concilio di Trento, una saggia e corretta sintesi: ella accorda il primato assoluto alla grazia su tutti gli sforzi umani ma non esclude la necessità dell’ascesi, della risposta personale all’iniziativa di Dio. Tutto dipende da Dio, ma anche l’uomo deve dare il suo contributo. È quello che diceva Sant’Agostino, ossia il Dio che ci ha creati senza di noi, non ci redime senza di noi.
Per Madre Mectilde il peccato è causa di gloria per Dio perché l’uomo rinnovato dalla misericordia, il figlio pentito che torna a casa, la creatura che serenamente riconosce di essere nulla e si apre al tutto di Dio, diventa motivo di gioia per il Padre che è tale proprio perché non si stanca mai di accogliere e di perdonare.
[1] C. M. de Bar, Sul cuore santissimo della Vergine Maria, in L’anno liturgico, p. 381.
[2] « Ogni giorno ricevo nel fondo dello spirito tali leggi interiori che mi rendono certa della mia piccola via, tutta silenzio e annientamento »: C. M. de Bar, Non date tregua a Dio, p. 66.
[3] Teresa di Lisieux, Une novice de sainte Thérèse, Ed. du Cerf 1986, p. 105.
[4] C. M. de Bar, Sul cuore santissimo della Vergine Maria, in L’anno liturgico, ivi.
[5] C. M. de Bar, Prepararsi alla natività di Nostro Signore, in L’anno liturgico, p. 82.