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Deus absconditus, anno 76, n. 1, Gennaio-Marzo 1985, pp. 31-37
Dom Jean Leclercq osb
Come interpretare gli scritti dei Fondatori e la quotidianità
C’è tutta una elaborazione riguardo all’adorazione e alla riparazione.
Ora, ogni autore (sia mistico, sia teologo, sia pontefice) ha espresso la sua elaborazione nel linguaggio del suo tempo, che è però basato interamente sulla Bibbia. E sempre più mi colpisce, leggendo questi testi, il vedere tutto un vocabolario biblico, che non è moderno, come alle volte pensiamo.
C’è il linguaggio della Bibbia, della Tradizione e poi della cultura di ogni scrittore, di ogni testimone.
Oggi il ruolo dell’ermeneutica (scienza che studia l’interpretazione dei testi e dei fatti) consiste nel considerare il testo alla luce della linguistica (altra scienza), con la sua particolare applicazione nello strutturalismo. Occorre studiare non soltanto la filologia (come una volta, cioè: parola per parola) ma anche la struttura, le strutture delle frasi e dello stile, che rivelano le strutture di pensiero con cui si esprime una dottrina; nonché discernere in questi testi, alla luce dei nuovi metodi, ciò che proviene dalla Tradizione antica e permanente, che deve essere mantenuta ad ogni costo, e ciò che invece costituisce le scorie, i dettagli determinati puramente da un certo periodo e che possiamo considerare secondari.
Ogni linguaggio di questi grandi testimoni (mistiche, mistici, teologi, papi) è un linguaggio; vale a dire non è soltanto una serie di parole più o meno coerenti, ma è un linguaggio nel senso che c’è una coerenza tra tutte le parole, immagini, e quindi fra le idee.
Per conoscere questo linguaggio bisogna utilizzare tutti i metodi scientifici di oggi: una sana e solida esegesi per la parte biblica, una conoscenza esatta e completa della storia antica, medioevale e moderna, e poi una riflessione intelligente, che deve tener conto pure dei problemi e delle difficoltà di oggi.
Facciamo un esempio. C’è stata una certa simbolica, un certo vocabolario sulla devozione al Sacro Cuore molto di moda nel secolo passato e che oggi non dice più niente, né ai giovani, né ad altri: è un fatto! E questo fatto dà luogo a delle vere difficoltà.
E questo vale sia per tutta la teologia del S. Cuore come per quella della Riparazione e della Adorazione.
D’altra parte non dobbiamo lasciarci influenzare né troppo, né niente da queste idee di oggi. Infatti, oggi, certi teologi proiettano semplicemente sui Misteri certe idee di moda, che possono essere interessanti, belle, ma provvisorie, relative all’oggi.
Quindi da una parte dobbiamo essere del nostro tempo e perciò affrontare i problemi del linguaggio, del pensiero, della teologia di oggi; dall’altra dobbiamo essere abbastanza liberi riguardo a tutto ciò che c’è di provvisorio, perché è soggettivo.
Noi dobbiamo puntare sull’oggettivo, che è il Mistero, la Rivelazione (costituita dalla Scrittura, dalla Tradizione permanente e continua e dal Magistero della Chiesa).
Le idee interessanti del padre tale o tal altro vengono dopo, se c’è tempo: e spesso non ne vale la pena!
Ho letto in Catherine de Bar (nel volume delle sue lettere relative alla fondazione in Polonia, del quale ho fatto la recensione) una sua lettera, con cui manda le sue monache in Polonia, e che è tutto un programma. In venti righe esprime in sintesi tutta la sua dottrina.
E nello scorrere il volume ho notato che ci sono idee e concetti che spesso si rincorrono.
La prima cosa che ho trovato interessante è l’espressione con cui la Madre esprime la finalità missionaria del suo Istituto. Nella sua lettera del 23.8.1686 scrive: «Vi mando come missionarie del SS. Sacramento».
È un’idea nuova per il suo tempo, mai esistita fino ad allora.
Un’invenzione interessante che si è verificata in America solo nel secolo scorso, dove erano giunti i primi benedettini per interessarsi degli immigrati. In seguito essi estesero il loro interessamento anche agli indiani, ecc. È in questo modo che si è creata l’idea dei monaci missionari, mai esistita prima. Da qui si è poi proiettata in Europa sul passato (v. ad es. S. Bonifacio, ecc.).
Adesso c’è tutta una tendenza a considerare il monachesimo come missionario; anzi si dice che il vero monachesimo è missionario, e solo un certo ramo è contemplativo, ma secondario.
M. Catherine de Bar manda le sue monache in missione non per predicare in Polonia, ma per dimostrare, testimoniare la devozione al SS. Sacramento: quindi ha una finalità apostolica.
«Vi mando come missionarie del SS. Sacramento. E lo sarete se vi comporterete « come lo Spirito Santo vi suggerirà».
E continua nella stessa lettera, non senza una certa retorica propria del grande secolo francese. C’era infatti in quel tempo in Francia tutto un linguaggio d’amore, di corte, che si chiamava la «précieusité» e che aveva una simbolica complicata, divertente per noi, ma per quel tempo costituiva il linguaggio parlato:
«Allez, mes très chères enfants, allez chères victimes! Allez les choisies du Ciel!». Poi ecco:
«Dimenticate i vostri interessi per interessarvi soltanto degli interessi di Gesù Cristo (il che equivale a «sacrificatevi», «siate vittime immolate»). È in questo che trovo la forza per sacrificarvi, e consolatemi con le vostre notizie».
In queste righe c’è tutto un aspetto dottrinale ed umano insieme. Catherine de Bar era una persona umana molto sensibile.
Studiando con una concordanza biblica queste pagine della lettera-programma, ho visto che quasi tutte le parole, tutte le frasi della Madre sono bibliche, appartenenti al Nuovo Testamento, specialmente a S. Paolo e a S. Giovanni. Questo si nota pure in S. Agostino e in S. Bernardo.
Bisogna stare attenti alle parole.
Tutte queste parole non appartengono al linguaggio della « précieusité » amorosa del gran secolo, ma sono di S. Paolo e della Bibbia. Ho calcolato una ventina di reminiscenze bibliche in questo solo passo.
Nel linguaggio usato da Catherine de Bar c’è una coerenza riguardo alle fonti. Non è un linguaggio inventato in quel tempo, né trovato qua e là nella Tradizione, ma viene direttamente dalla fonte, dal Nuovo Testamento.
Inoltre nel testo c’è anche una coerenza interna, nel senso che tutte queste parole giovannee e paoline si rispondono e danno luogo a tutta una dottrina.
Le esigenze ascetiche provengono da questa prospettiva dottrinale.
Però non dobbiamo cercare in Catherine de Bar un trattato di teologia astratta, chiarissima. No! Il suo è un vocabolario biblico, con un’impronta specialmente di S. Paolo, che mostra tutto il fondo dell’anima di M. Mectilde de Bar. C’è tuttavia una certa imprecisione (come d’altronde nello stesso S. Paolo, che non ha risolto tutti i problemi, anzi ne pone molti agli esegeti d’oggi): però ha avuto delle intuizioni.
In Mectilde c’è la stessa coerenza psicologica e dottrinale.
Fra le parole che oggi dispiacciono ad alcuni c’è la parola «vittima», che si preferisce sostituire con il termine di «oblatività». Non è certamente più chiaro di « vittima »; è una parola moderna, nuova, che forse passerà e non esprime tutta la vittimalità. La vittimalità è qualcosa di più dell’oblatività. Il termine «oblatività» si adopera oggi molto in psicologia (specialmente freudiana).
Penso però che al di là di queste parole bisogna andare alla fonte biblica e vedere se c’è una coerenza, perché se abbandoniamo una di queste parole, di queste idee, anche tutte le altre sono messe in pericolo.
Qui ci si può chiedere come mai Catherine de Bar ha potuto essere così imbevuta di S. Paolo e S. Giovanni, quando in quel tempo era proibito leggere la Bibbia (anche S. Teresa d’Avila se ne lamentava).
Io penso che abbia ricevuto l’essenziale dalla liturgia e specialmente dal Messale, nei grandi Vangeli del tempo di preparazione alla Pasqua, che presentano tutti i temi fondamentali della salvezza.
M. Mectilde de Bar ha avuto un profondo contatto con lo stile della Bibbia attraverso la liturgia e specialmente la Messa. Nei suoi scritti c’è un linguaggio, una struttura molto seria da studiare. Occorre vedere le corrispondenze tra una parola e l’altra, come per es. tra «sacrifìcio», « vittima », « olocausto », ecc. con una concordanza biblica. Spesso sono parole mutuate direttamente dal latino, come per es. «être consommées», che in francese non esiste: si tratta di una parola latina presa a prestito. M. Mectilde conosceva il latino.
Questo metodo di studio si potrebbe applicare ad altri casi: a M. Caterina Lavizzari, che si dovrebbe studiare secondo questa linea. Non si tratta tanto di accumulare un testo dopo l’altro, ma di discernere se c’è — e certamente c’è — ciò che è valevole da ciò che è caduco, considerando tutta la tradizione biblica, quindi il Messale, le devozioni, ecc..
In questi ultimi giorni ho avuto l’occasione di applicare questo metodo ad un’altra testimone: Sr. Gabriella della Trappa. Ho considerato gli scritti, cioè le poche lettere ch’ella scriveva alla mamma, ai suoi, al suo parroco, con delle espressioni molto pittoresche. Ho considerato soprattutto ciò ch’ella ha scritto quando stava bene in salute, a 24 anni. E ho scoperto che questa ragazza sarda, che non aveva studiato, possedeva una cultura. In pochi anni di vita monastica aveva assimilato tutto il vocabolario, il linguaggio tradizionale monastico (non leggendo libri, ma tramite il linguaggio degli anziani, delle tradizioni, delle letture in comune, della liturgia).
Nel leggere le sue lettere, che sono poche e ordinarie, si nota che essa possiede un linguaggio del tutto biblico. Le ho studiate con la concordanza. E mi sono soffermato sulle strutture. Quando per es. scrive alla mamma: «Se vedessi la proprietà di Vitorchiano è un vero Paradiso in confronto ai campi selvaggi della Sardegna» e aggiunge: «sono felice come un pesce nell’acqua». Questa è una battuta dei Padri. Il monastero – essi dicono – è un nido; «in nidulum meum» dice S. Gertrude. Il «nido» è un termine anche biblico: è sempre stato considerato come il simbolo del rifugio o di sicurezza per il popolo di Dio, la Chiesa; il luogo dove s’incontra Dio, il cuore, la coscienza.
Tutto questo, senza saperlo, Sr. Gabriella l’ha assorbito in monastero. Allo stesso modo quando parla di « vita nascosta », che è un tema nettamente patristico.
La sua non era erudizione libresca: era tradizione vissuta.
«Essere volontariamente silenziose – scrive. Se ci vedessi diresti: ma quante mute!». E non le manca la vena d’umorismo, ride di se stessa. Le avevano fatto studiare musica, perché probabilmente aveva una bella voce ed era piena di salute, e allora scrive alla mamma: «se mi vedessi seduta all’armonium rideresti, e anch’io ogni tanto mi fermo e mi metto a ridere, tanto mi sembra ridicolo».
La Beata Gabriella formula una nozione dello stato vittimale che è giusta, perché dice che il solo atto salvatore fu l’offerta di Gesù a suo Padre:
«O Gesù, io mi offro a te, in unione al tuo sacrificio. (notate il senso giusto dei due termini: l’unico e vero sacrificio che può offrirsi è Cristo, e noi ci uniamo a Lui).
Poi si definisce «piccola vittima». In quel tempo si dava importanza ai diminutivi. Anche questo è un linguaggio: non è soltanto una forma familiare di parlare; ha un senso profondo. Così spontaneamente Sr. Gabriella non si considera altro che una «piccola vittima».
«E sebbene sia indegna – continua – spero fermamente che il Padre guardi con occhi di compiacenza la mia “piccola offerta”».
«O Gesù, consumami come una «piccola ostia« di amore».
Nella Beata Gabriella e in Madre Lavizzari tre temi si rinforzano a vicenda:
a) il simbolismo vittimale b) l’allegoria nuziale e c) la devozione a Cristo Re (che era molto viva in quel tempo).
Ella scrive: «Non avrei potuto desiderare una festa più bella per la mia consacrazione al Signore». Fu in quell’occasione che compose l’unica sua preghiera: un testo di circa quasi due pagine (eccezionale per una persona poco colta): è una bellissima preghiera a Cristo Re, che comincia con quest’atto di offerta:
«Nella semplicità del mio cuore, ti offro tutto lietamente, o Signore!».
Poi segue il tema del «regno di Gesù in tutti i cuori», poi il tema delle «nozze spirituali», che attraversa tutta la tradizione.
Per la Beata Gabriella tutto questo non era letteratura, ma usciva spontaneamente dalla sua vita. Aveva veramente assimilato tutto questo dall’atmosfera della liturgia. E tutto questo costituisce una cultura e le dà la sua vera ricchezza.
La quotidianità
Oggi esiste una nuova scienza; un nuovo ramo della scienza storica, che – usando un neologismo – si chiama studio della «quotidianità».
All’Università di Vienna c’è un Istituto speciale che studia la vita quotidiana, cioè la conoscenza della realtà, gli orari, ecc. Tutto questo va bene!
Ma la quotidianità per i monaci è anche altra cosa: sono tutti i.pensieri, le lotte, le gioie, ecc. che fanno parte della vita quotidiana. Quindi non basta studiare l’orario, il cibo, ecc.: non basta! È l’interiore che trasfigura tutta questa quotidianità. E sr. Gabriella lo illustra molto bene nelle sue lettere, dove descrive i dettagli della vita. Ella non ha nien’altro da dire di importante, non ha grandi idee mistiche, non fa politica. Tutto ciò che dice si poteva trovare nelle usanze del monastero, ma lei lo verifica, lo mostra veramente vissuto.
Ciò che gli altri studiano nei testi, in lei lo vediamo vissuto.
È proprio nella quotidianità che ci santifichiamo. Un poeta francese, Apollinaire, ebbe ad esclamare: «Ah, que la vie est quotidienne!». «Quanto è quotidiana la vita!». Ma per le monache che giorno e notte vivono in un ritmo sempre uguale, la quotidianità accettata è il quadro entro cui santificarsi.
Sr. Gabriella scrive: «Non desidero che santificarmi nell’amore all’osservanza dei miei doveri e nell’abbandono perfetto alla Volontà di Dio!». E la prima delle osservanza è l’orario. L’importanza dell’orario, sottomettersi a un orario! Quindi santificarsi nell’orario!
Sr. Gabriella scrive ancora: «L’ora della preghiera è stabilita e così pure l’ora del lavoro», e ne dà la ragione profonda: «di modo che nessuno fa a suo capriccio».
Questo non esclude tuttavia una certa libertà ed è la stessa Sr. Gabriella che aggiunge nella stessa frase: «e solamente nei momenti di intervallo ognuna può leggere o scrivere o andare in Chiesa, come vuole».
Ecco: c’è l’orario, c’è la struttura e all’interno c’è un certo margine di libertà. Non si tratta di un’oppressione prodotta dalle osservanze, ma di una liberazione.
«Non manca qualche piccola contrarietà – scrive ancora – e spero con l’aiuto del Signore e conformandomi alle usanze monastiche che le difficoltà scompariranno presto».
Notate: parla di «usanze monastiche»: questo è bellissimo! È una grande testimonianza.
«È veramente una grande fortuna – scrive ancora – vivere in monastero dove tutte le azioni anche le minime, come pure il far niente quando è comandato dall’obbedienza, apportano un gran merito».
«Vivo, mangio, dormo sotto lo stesso tetto con Gesù. Che cosa si vorrebbe di più in questa vita mortale? Desidero solo la santità nell’adempimento perfetto dei miei doveri».
Pascal aveva detto: «Fare le cose piccole come le grandi, a causa della maestà di Dio che le fa in noi; e fare le grandi cose come le piccole, a causa della nostra miseria».
In tal modo una persona in comunità non si fa notare.
Nel processo di beatificazione di Sr. Gabriella un testimone ha deposto: «E passata notevolmente inosservata».
In un mio articolo sulla «vecchiaia» ho citato un vecchio abate che cercava di passare inosservato da tutti, tanto che un monaco gli disse: «Padre, sembra che si scusi sempre di vivere!». È morto santo!
Ma un vecchio monaco diceva pure: «La poesia del chiostro è prosa!». E anche per Sr. Gabriella ci sono stati momenti di malinconia, monotonia e diceva:
«Io amerò la mia vita per quanto monotona possa essere!».
Fra le testimonianze del processo di beatificazione fu deposto che a chi chiedeva a Sr. Gabriella se avesse mai provato momenti di malinconia, ella risposte:
«Quando ho la malinconia vado dal Signore».
È proprio attraverso i riti della quotidianità che ci penetra il ritmo dell’eternità!