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Deus absconditus, anno 84, n. 1, Gennaio-Marzo 1993, pp. 54-63
P. Giuseppe Manzoni scj
Partecipazione al sacerdozio e al sacrificio di Cristo
Introduzione
Ho avuto la grazia di leggere alcuni libri riguardanti la vostra santa Fondatrice Madre Mectilde del Santissimo Sacramento (1614-1698). Il primo di questi libri trattava della Fondazione di Rouen e rimasi colpito dall’introduzione dal titolo: Alcune correnti spirituali del XVII secolo che hanno influito sul pensiero di madre Mectilde del Santissimo Sacramento.
Vi ho trovato molti spunti dottrinali di grande attualità, che mi hanno molto aiutato nello stendere le conferenze-meditazioni che svilupperemo in questa giornata secondo le prime indicazioni datemi dalla vostra Rev.ma Madre Presidente.
L’adorazione eucaristica riparatrice dovuta alla negazione della Presenza reale di Cristo nel SS. Sacramento da parte dei Protestanti e alle frequenti profanazioni eucaristiche durante le guerre della Fronda, dei Trent’anni e causate dalla richiesta di preparare dei filtri magici.
La scoperta, non solo della regola e della spiritualità benedettina, ma della Scuola francese e della sua profonda teologia fondamentalmente cristocentrica, impregnata del pensiero di Paolo e dei Padri della Chiesa, una mistica centrata sull’evento pasquale e sulla realtà di essere figli di Dio nel Figlio di Dio: «Abbà - Padre».
Madre Mectilde come tanti fondatori e fondatrici non è una teologa, non ha una sintesi dottrinale personale da presentare; ma è una mistica e fa qualcosa di molto più importante di un teologo: esprime ciò che Ella vive e contempla.
Madre Mectilde approfitta della notevole diffusione dell’adorazione eucaristica fra i laici, per contrastare l’insorgente giansenismo, favorendo l’adorazione continua del SS. Sacramento.
È fondamentale il fatto che Madre Mectilde faccia scaturire ogni vocazione cristiana dal battesimo. Nelle sue lettere esprime le stesse esigenze, sia che scriva a dei laici, che a delle anime consacrate, poiché la sorgente della nostra santità è il battesimo e tendiamo tutti allo stesso fine: la visione beatifica, ognuno secondo la via voluta da Dio. Nel battesimo riceviamo la partecipazione al sacerdozio e al sacrificio (stato di vittima) di Cristo.
Madre Mectilde affermava che nel battesimo, abbiamo fatto il voto di Gesù Cristo, che racchiude tutti gli altri voti: Vivo io, non più io, vive in me Cristo (Gal 2, 20).
I voti religiosi non sono altro che dei mezzi per vivere il voto di Gesù Cristo emesso nel battesimo, al quale troppo pochi pensano...
È essenzialmente il nostro battesimo che ci costituisce vittime con Cristo, per la gloria del Padre e la salvezza del mondo: Solo Cristo è la vittima che può riparare i peccati degli uomini... Noi ripariamo tramite Gesù Cristo. Non vi è che un solo Cristo, vero e degno riparatore della sua gloria e di quella del Padre (cf. LG n. 10-11; PO n. 2).
Nell’Eucaristia Gesù è nell’atto del suo massimo amore. E là, nel mistero pasquale della sua morte redentrice e del suo passaggio al Padre che ci ama all’estremo; ci invita a vivere continuamente la sua e nostra Pasqua, a passare al Padre con lui, morendo al peccato e vivendo per Dio.
Questo amore infinito proposto, donato agli uomini, com’è ricevuto?
Ripariamo per i peccatori, amiamo per le anime che non amano, otteniamo loro misericordia!
Madre Mectilde non si considera una «vittima innocente» di fronte ai peccatori, ma si sente solidale con loro e insiste nell’affermare che è prima di tutto in lei, in ognuno di noi che si deve vivere la riparazione. È la grande umile convinzione di Paolo: Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io (1 Tm 1, 15).
Essere vittima del SS. Sacramento significa sacrificare le nostre inclinazioni, tutto ciò che si oppone al regno di Gesù Cristo, mediante l’immolazione attuale di noi stessi alla grandezza di Dio, mediante la fedeltà ai nostri doveri, alle nostre Regole, all’obbedienza, alle esigenze della vita comune, al movimento dello Spirito Santo. Siamo così vittime con Gesù vittima; ostie con Gesù Ostia.
L’adorazione eucaristica è il nostro «ministero» principale nella Chiesa. Adorazione di Cristo, ma, tramite lui, della SS. Trinità: amore riconoscente, unitivo e anche doloroso... per i peccatori che trascurano l’Eucaristia, peggio, la profanano. Piaccia a Dio di bruciare i nostri cuori con questo amore doloroso. Potessimo morire di contrizione per i nostri peccati e per quelli dei nostri fratelli.
«Trahe me post te».
Vi sono due cose da fare nella vita per essere di Dio: Adorare e Aderire… sempre.
* * *
Faremo oggetto della nostra meditazione tre testi della Scrittura.
Il primo della lettera agli Ebrei: Egli (Cristo) nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Colui (il Padre) che poteva liberarlo dalla morte e fu esaudito per la sua pietà (ossia salvò il mondo con la sua obbedienza filiale e sofferente al Padre). Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì (ossia rese al Padre e a noi, con la passione e la morte di croce, la prova massima del suo amore) e, reso perfetto (nella sua sacerdotalità e nello stato di vittima), divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono essendo proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek (Eb 5, 7-10).
Questo è detto di Gesù al capitolo quinto della lettera agli Ebrei. Nella stessa lettera al capitolo decimo, dopo la presentazione dell’Ecce venio di Cristo che, entrando nel mondo, offre se stesso in sacrificio per i peccati (Eb 10, 5-7) è detto riguardo a noi (2° testo): Con un’unica oblazione egli (il Cristo) ha reso perfetti per sempre (nella partecipazione al suo sacerdozio e al suo sacrificio) quelli che vengono santificati (mediante il battesimo). Questo ce lo attesta anche lo Spirito Santo (Eb 10, 14-15).
Terzo testo della prima lettera a Timoteo: Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà (ossia il mistero della passione e morte di Cristo). Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito (con la risurrezione), apparve agli angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria (1 Tm 3, 16).
Partecipi del «mistero della pietà»
Di questo grande... mistero della pietà ognuno di noi, come battezzato, è partecipe, come afferma l’autore della lettera agli Ebrei: Con un’unica oblazione egli (Cristo) ha reso perfetti per sempre (nella sua sacerdotalità e vittimalità) quelli che vengono santificati (10, 14).
Il sacerdozio di Cristo non è un sacerdozio clericale, ossia secondo l’ordine di Aronne o secondo la tribù sacerdotale di Levi, ma è un sacerdozio laicale. Cristo appartiene alla tribù di Giuda e il suo sacerdozio è secondo l’ordine di Melchisedek.
Quando perciò noi diciamo sacerdote non dobbiamo pensare immediatamente al prete, dobbiamo pensare a noi stessi in quanto partecipi per il battesimo del sacerdozio di Cristo.
Declericalizziamo la realtà del sacerdozio.
Funzione essenziale del sacerdote, anche se non unica, è quella di offrire. Non c’è sacerdozio senza una vittima da offrire.
Nell’Antico Testamento i sacerdoti e i leviti offrivano i frutti della terra e soprattutto animali come vittime.
Gesù, sacerdote, non offre né cose né animali, ma in primo luogo offre preghiere e suppliche (Eb 5, 7).
Cristo, nella sua umanità, come ognuno di noi, riconosce di non aver nulla da offrire a Dio che non sia già suo; offrendo preghiere e suppliche con forti grida e lacrime, riconosce di essere tutto del Padre, riconosce che lui solo (il Padre) è la fonte d’ogni salvezza e redenzione, si offre perciò con la sua umanità al Padre, perché si serva di lui come vuole, per realizzare il suo disegno di salvezza. Così Cristo è vittima del suo sacerdozio ed è proprio questo atteggiamento oblativo che costituisce l’essenza del suo sacerdozio.
Anche noi come Cristo, non dobbiamo offrire, come vittime, cose o animali, ma noi stessi, nella nostra quotidianità: le piccole gioie, gli umili gesti, le varie croci, l’irradiazione dei frutti dello Spirito, ogni giorno. È proprio per l’azione trasformante dello Spirito che anche le più umili azioni della nostra quotidianità vengono qualificate come sacerdotali e sacrificali.
Difatti la sacerdotalità nel NT non è un ministero accanto ad altri ministeri (ad es. presiedere, predicare, insegnare…), ma è una qualifica che pervade tutti i ministeri, potremmo chiamarla una spiritualità che deve caratterizzare ogni membro del Popolo di Dio, nessuno escluso.
Ecco perché dicevo, parlando del sacerdozio, non pensiamo subito, clericalmente, al prete; ma a noi stessi, ad ogni cristiano che, per il battesimo, è partecipe del sacerdozio di Cristo, il sacerdozio comune a tutti i battezzati, senza il quale non è possibile il sacerdozio ministeriale.
Una messa continua
Anche la meravigliosa liturgia eucaristica rimane per noi sterile senza la liturgia della vita. La messa è sempre completa in Gesù, ma non è completa in noi, se la liturgia del rito non diventa liturgia della vita, realizzando le parole di Cristo: Fate questo in memoria di me, non solo sul pane e sul vino, mediante il sacerdozio ministeriale, ma nella nostra vita, come se ripetessimo, per ogni azione, la dossologia che conclude la grande preghiera eucaristica: Per Cristo, con Cristo e in Cristo..., essendo noi l’eucaristia del Signore, facendo della nostra vita, sotto l’impulso dello Spirito, una messa continua. Siamo sacerdoti e vittime con Gesù, se offriamo per amore, oltre a preghiere e suppliche, le umili azioni quotidiane, le piccole gioie ringraziando, le tante croci e prove accettando e ringraziando, sapendo che le croci sono amore e manifestazioni d’amore, se irradiamo in tutte le situazioni e con tutte le persone i frutti dello Spirito. Preciseremo meglio questa spiritualità tipicamente oblativa.
Si realizza cosí in noi l’affermazione dell’autore della lettera agli Ebrei: Cristo con un’unica oblazione ha reso perfetti per sempre (nella sacerdotalità e nella vittimalità) quelli che vengono santificati (10, 14; cf. 5, 8) e tutti i battezzati, proprio per il battesimo, sono dei santificati, ossia degli scelti per Dio, dei figli di Dio. Difatti, afferma ancora l’autore della lettera agli Ebrei: tutto questo lo attesta anche lo Spirito Santo...: Questa è l’alleanza che io stipulerò con loro... Io porrò le mie leggi nei loro cuori e le imprimerò nella loro mente (Eb 10, 15). Si realizza così la profezia di Ezechiele (cf. 36, 25-27).
Da tutto quello che abbiamo detto si comprende come l’oblazione di cui parla la lettera agli Ebrei (cf. 5, 7-10; 10, 14-15) e la partecipazione al grande... ministero della pietà di cui parla Paolo nella prima lettera a Timoteo (3, 16), non vanno intese solo come atteggiamenti interiori dello spirito, ma come offerta realizzata nella vita.
Una spiritualità oblativa
Cristo imparò l’obbedienza dalle cose che patì (Eb 5, 8); non si fermò alle preghiere e suppliche con forti grida e lacrime (Eb 5, 7), forme d’oblazione anche queste necessarie; ma reso perfetto ossia realizzando perfettamente la sua sacerdotalità e vittimalità, specialmente nella sua passione e morte divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono (5, 9) ossia per tutti coloro che aderiscono a lui con la fede e la carità, partecipando e vivendo la sua stessa vittimalità, il suo stesso sacerdozio alla maniera di Melchisedek (5, 10).
Con la sua oblazione, ossia con la sua sacerdotalità e vittimalità, Cristo è solidale con i perduti, con i dannati della terra, con i più miserabili fra gli uomini: i peccatori.
È un’oblazione quella di Gesù, sacerdote e vittima, che avviene, non come per i sacerdoti dell’antica legge e i leviti, attraverso i sacrifici e i riti solenni nel tempio, ossia con una liturgia gratificante; ma nel clima desolato e squallido della più ignominiosa esecuzione capitale, del supplizio di maledizione: la morte di croce, in una liturgia d’abbandono e di desolazione.
Proprio questo supplizio ignominioso e umiliante divenne offerta sacerdotale, olocausto sacrificale e salvifico, gradito a Dio, tramite il fuoco dello Spirito, fuoco d’amore che consumò Cristo in croce: Offrì se stesso a Dio – scrive l’autore della lettera agli Ebrei – con uno Spirito eterno (Eb 9, 14).
Di questo mistero è partecipe, per il battesimo, ogni cristiano, ed è chiamato a viverlo nell’umile vita d’ogni giorno. Sia la storia, sia la nostra vita sono disseminate di tanti piccoli e grandi calvari personali, familiari, comunitari, sociali, nazionali, mondiali. È una desolazione..., però, se ho fede, è anche una grazia: è la squallida liturgia del Calvario che si rinnova... e, se la vivo con amore, è purificazione, redenzione, salvezza, santità.
Comprendiamo come la spiritualità oblativa, riguardando tutta la nostra vita, è eminentemente teologale (non è solo sforzo morale o ascetico), è partecipazione alla vita di Cristo, per essere offerti al Padre, vivificati interiormente dallo Spirito: L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5, 5). Si realizza così la profezia di Dio in Ezechiele: Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo (Ez 36, 26).
La partecipazione al sacerdozio e al sacrificio di Cristo, lo ripetiamo, non è solo un’offerta rituale; è un’offerta di vita. Caso mai, la liturgia del rito (eucaristia) ci apre e ci dà forza per la liturgia della vita.
Ecco perché la lettera agli Ebrei, dopo aver parlato ampiamente del sacerdozio e dell’offerta sacrificale del Cristo (capp. 1-10), per indicare che tutto questo ministero sacerdotale e sacrificale deve realizzarsi nella nostra vita, tratta a lungo delle opere della fede (cap. 11), della pazienza nelle prove e della fedeltà alla vocazione cristiana (cap. 12), per concludere al cap, 13: Perseverate nell’amore fraterno. Non dimenticate l’ospitalità... Ricordatevi dei carcerati... Non dimenticatevi... di far parte dei vostri beni agli altri, perché di tali sacrifici il Signore si compiace (vv. 1-3.16; cf. Rm 12, 9-16), con un’ultima esortazione ad essere partecipi di Cristo sacerdote e vittima: Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque verso di lui, fuori dell’accampamento portando il suo obbrobrio... (Eb 13, 12-13).
Questa funzione sacerdotale e vittimale è tipica, non solo dei preti, ma anche dei laici. Caratterizza tutte le loro azioni, li porta ad essere nella loro vita adoratori in spirito e verità, consacrando il mondo a Dio. Ne parla ampiamente il Vaticano II (cf. LG 34: EV/1, 372-373; cf. nn. 362; 374-381, 917; 1244).
Il nostro piccolo mistero di pietà
Dopo aver trattato della nostra partecipazione a Cristo sacerdote e vittima sul piano personale, precisiamo meglio come ognuno di noi, nel grande... mistero della pietà che è Cristo, possa essere un piccolo mistero della pietà.
Il mistero della pietà è un mistero d’amore che si dona o amore oblativo, è l’amore di Dio-Padre che si dona a noi in Cristo Gesù.
Questo mistero di amore oblativo che scende in noi (di cui facciamo un’esperienza efficace nella preghiera d’intimità) richiede da parte nostra l’amore oblativo che sale al Cristo e, tramite il Cristo, al Padre (ne facciamo l’esperienza ancora nella preghiera d’intimità).
Diventiamo cosi, anche noi, nel Cristo grande… mistero di pietà (1 Tm 3, 16), piccoli misteri di pietà, anzitutto accettando, nella quotidianità, le gioie della vita come espressioni e manifestazioni dell’amore di Dio per noi. Siamo tanto superficiali che, facilmente, nelle gioie ci dissipiamo, diventiamo leggeri, euforici, non valorizziamo l’amore che le gioie della vita racchiudono e non ringraziamo il Signore, neppure le godiamo, preoccupati del passato o in ansia per il futuro; accettando le croci, le sofferenze quotidiane come espressioni e manifestazioni dell’amore di Dio per noi. Non si tratta di andare a cercare le croci o di inventarle, ma di accettare le umili croci d’ogni giorno, di valorizzare l’umile quotidianità. Anche per le croci d’ogni giorno, come per le gioie, siamo facilmente superficiali; ci lasciamo prendere dal nervosismo, dall’impazienza, cadiamo nella tristezza, ci lamentiamo, e così, ripiegandoci egoisticamente su noi stessi, sulle nostre ferite, non valorizziamo l’amore che le croci racchiudono e sciupiamo gran parte della nostra vita.
Capire che le croci quotidiane sono espressioni d’amore e ringraziare (è assurdo lamentarsi delle manifestazioni d’amore) è vivere in un atteggiamento eucaristico (preghiera di ringraziamento), è capire e vivere l’aspetto più difficile, più arduo del mistero della pietà.
Inoltre la vita non è solo accettazione, ma è anche dono, azione. Il mistero della pietà si realizza in noi, se diffondiamo attorno a noi i frutti dello Spirito; se siamo creature di carità, di gioia, di pace; creature di pazienza, quindi di comprensione, di accettazione, di misericordia, di perdono; creature di bontà e di benevolenza, d’umiltà e di mitezza, attaccati a Cristo e guidati nei nostri pensieri, desideri, parole, azioni, non dal nostro egoismo, ma dallo Spirito di Dio.
Nell’accettazione e nel dono noi viviamo l’oblazione d’amore sotto l’influsso dello Spirito Santo.
Il mistero della pietà, abbiamo detto, è un mistero di amore oblativo e, se vogliamo, se lo Spirito ci ispira e un saggio direttore spirituale ci approva, possiamo giungere a fare il voto di oblazione, la cui materia, senza obbligo di peccato grave, è l’accettazione delle gioie e delle croci quotidiane, ringraziando, e la diffusione dei frutti dello Spirito.
Realizziamo cosi, in Cristo grande... mistero della pietà, il nostro piccolo mistero di pietà.
«Partecipi delle tribolazioni di Cristo»
La partecipazione a Cristo sacerdote e vittima, ossia al grande... mistero della pietà (1 Tm 3, 16) ci coinvolge, non solo nella vita personale, ma nella vita apostolica.
Bisogna non solo occuparsi, ma preoccuparsi del fratello nel bisogno, fare propria la sua tribolazione, come Gesù ha fatto suo il nostro bisogno, il nostro peccato, è stato tribolato per noi: Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio (2 Cor 5, 21).
Non dimentichiamo che la vita è disseminata di piccoli o grandi calvari. Anche la famiglia, anche la comunità possono essere un piccolo calvario nel grande calvario di Cristo. È dolore, ma è anche grazia. Ognuno di noi dica con Paolo: Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo (lett. «quello che manca delle tribolazioni di Cristo«) a favore del suo corpo che è la Chiesa (Col 1, 24). Non si tratta evidentemente di completare le sofferenze espiatrici di Cristo, già complete; ma l’apostolo Paolo vive quelle stesse tribolazioni apostoliche (nel suo corpo) che Cristo per primo esperimentò, e ha il suo posto sulla croce, accanto al suo Signore e Salvatore. Sono tribolazioni sofferte in vantaggio della Chiesa che è il Corpo di Cristo. Come per Paolo così è per ogni apostolo del vangelo di Cristo, per ognuno di noi.
La «thlipsis» (tribolazione) è una categoria biblico-teologale, che ci rimanda all’imitazione (mimesis), intesa non in senso morale, ma vitale, di assimilazione a Cristo, per rivivere il suo mistero di morte e di vita.
La sorte del Maestro è la sorte del discepolo, come tante volte ricorda Paolo nelle sue lettere: Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati..., portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel vostro corpo... Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita (2 Cor 4, 7.10.12).
È un vivere continuamente il mistero pasquale.
Sempre riferendoci all’esempio di Paolo è significativo il fatto che egli non metta in primo piano l’organizzazione della sua opera di evangelizzazione a Corinto, le sue fatiche, l’essersi fatto tutto a tutti (1 Cor 9, 23). La realtà nascosta, la più importante, che rende efficace il suo apostolato: è la sua assimilazione a Cristo, il rivivere il suo sacrificio. Comprendiamo come proprio nella debolezza dell’Apostolo, accolta e amata, la grazia di Cristo, tramite lo Spirito, raggiunga la sua massima efficacia: Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte (2 Cor 12, 9-10).
Il lavoro, le tribolazioni dell’Apostolo e nostre sono l’occasione per assimilarci a Cristo, rivivere il suo sacrificio... ed è proprio questa assimilazione, questo rivivere il sacrificio di Cristo che rende fecondo il nostro apostolato.
E Paolo insiste, scrivendo ai Filippesi: Anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio liturgico della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi (2, 17).
Se è vero che siamo salvati, non per le nostre opere, ma per la fede e per l’assimilazione a Cristo e al suo sacrificio, allora le nostre opere contribuiscono alla redenzione e salvezza del mondo, non per se stesse, ma per la misura d’amore, di offerta-sacrificio che contengono. Sono necessarie; ma valgono per la loro cristificazione.
Chi salva il mondo non è l’uomo, ma Dio in Gesù Cristo… Noi possiamo fare solo spazio alla salvezza, accoglierla nel nostro lavoro, nelle nostre opere; non mirare al successo, ma morire all’uomo vecchio, al nostro io, perché non sia ostacolata l’azione dello Spirito e nascano cose nuove: Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove (2 Cor 5, 17). Così collaboriamo alla realizzazione del grande... mistero della pietà (1 Tim 3, 16).
È lo scandalo della croce che salva il mondo: Mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani (1 Cor 1, 22-23).
Il regno di Dio si costruisce con mezzi poveri. Esso ha come unica, vera risorsa, non le realizzazioni umane in sé, ma la debolezza (secondo il mondo, non secondo Dio) dell’amore: la fede, la speranza, l’oblazione, l’immolazione, la riparazione.
È la vita di Cristo che siamo chiamati a condividere, vita di Cristo che ci è stata donata nel battesimo. Dobbiamo condividerla sul piano personale e sul piano apostolico. Condividerne la sorte di Servo del Signore, di Agnello immolato per la redenzione e salvezza del mondo. Ecce venio... ha detto Cristo, entrando nel mondo (Eb 10, 7); Ecce venio ripetiamo anche noi, per partecipare al suo sacerdozio, al suo stato di vittima, per la redenzione del mondo, fino al Consummatum est... (Gv 19, 30).
Quando parliamo di oblazione-riparazione-immolazione siamo rimandati alle profondità del sacerdozio e del sacrificio di Cristo, in una vita essenzialmente teologale e mistica. Siamo rimandati al primato dei piccoli e dei poveri, non solo come destinatari della salvezza, ma come protagonisti, primi operatori della salvezza, come abbiamo detto parlando del nostro lavoro e delle nostre opere, uniti a Gesù, sacerdote e vittima, sotto l’influsso dello Spirito: Non c’è, infatti, altro nome, dato agli uomini sotto il cielo, nel quale sia possibile essere salvati (At 4, 12).
Ripetiamo: sono necessari il nostro lavoro, le nostre opere; ma valgono per la salvezza in quanto cristificate, ossia in quanto realizzate in unione al sacerdozio e al sacrificio di Cristo e in quanto comunicano la morte e la vita di Cristo, non solo con le nostre parole, ma col dono della nostra vita: In noi opera la morte, in voi la vita (2 Cor 4, 12).
Così si realizza in noi la partecipazione al grande... mistero della pietà (1 Tm 3, 16) sia personalmente sia apostolicamente, realizzando la parabola del chicco di grano (cf. Gv 12, 24) e accogliendo l’invito di Paolo: Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi (voi stessi) come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale (Rm 12, 1).
L’esempio del buon Samaritano
L’esempio più efficace e commovente ed insieme quotidiano nella pratica del mistero della pietà lo ritroviamo nella parabola del buon Samaritano (figura di Cristo) ove è chiara la condanna della pietà sterile, solo rituale del sacerdote e del levita, che passano oltre e anche il più lontano possibile dal malcapitato incappato nei briganti. Gesù, questo atteggiamento lo pone in rilievo soprattutto riguardo al sacerdote, il quale lo vide (il malcapitato), passò oltre, dall’altra parte (Lc 10, 31); mentre il levita semplicemente lo vide e passò oltre (Lc 10, 32). Il Samaritano invece, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione, una compassione che non è sterile pietà; ma gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò ad una locanda e si prese cura di lui. II giorno seguente estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno (Lc 10, 33-35).
Il buon Samaritano non fa nulla di straordinario; fa con tutto il cuore quello che gli è possibile fare. Il Samaritano incarna la vera, fattiva pietà cristiana. Anche ad ognuno di noi, Gesù domanda che facciamo quello che ci è possibile fare: Va’ e anche tu fa lo stesso (Lc 10, 37).