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Deus absconditus anno 97, n. 1, Gennaio-Marzo 2006, pp. 14-29
Sr. Marie-Cécile Minin osb ap*
Desiderio
desideravi. La Passione dell’anima di Gesù.
Meditazione per il Giovedì santo
Desiderio desideravi... Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima di patire. Queste parole pronunciate da Gesù la sera del Giovedì santo, madre Mectilde le ha a lungo meditate e commentate[1]. Esse riassumono le due ultime tappe della vita di Gesù, ossia l’istituzione dell’Eucaristia (ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi} e la Passione (prima di patire). L’Orto degli Ulivi è il luogo in cui si svela tutta la sofferenza dell’anima di Cristo.
«Non esiste creatura sulla terra – scrive madre Mectilde – che, avendo una totale conoscenza delle sofferenze di Nostro Signore, potrebbe sopportarne la vista senza morire. Solo l’eterno Padre [...] e suo Figlio Gesù [...] ne conoscono tutta la vastità» [2]. La Passione di Cristo è il segreto di Dio perché lui solo sa ciò che essa è stata in tutta la sua ampiezza.
Ne Il vero Spirito [3] madre Mectilde consegna una meditazione sulla Passione dell’anima di Gesù. Per il lettore poco avvertito del linguaggio proprio del XVII secolo, alcuni passaggi dei capitoli IV e V possono urtare, disorientare, persino distogliere dalla spiritualità mectildiana. Per questo, «saper leggere consiste anche nel non perdere di vista i modi di espressione propri di ciascun periodo storico» [4].
Anziché entrare in questa dinamica storica di comprensione delle espressioni proprie di un dato periodo, proponiamo qui la rilettura di alcuni passaggi di questa meditazione, ponendoci nel solco di cristiani del nostro tempo i quali, con la loro personale esperienza, gettano una luce nuova e permettono di dispiegare tutta la ricchezza di questo testo. Questa meditazione di madre Mectilde non è altro che il frutto della sua relazione personale, costante e soprattutto sponsale con Gesù Cristo, amato e servito al di sopra di tutto. Tale rapporto personale con Cristo è decisivo per lo sviluppo di una vita cristiana, perché «se la nostra vita spirituale è autentica, essa si iscrive in un grande movimento dinamico che ha per risultato l’approfondimento della nostra relazione con Cristo” [5].
Ci fermeremo con madre Mectilde nell’Orto degli Ulivi per accogliere nel cuore un po’ della Passione dell’anima di Gesù, per rivivere con Lui, nella luce della sua Risurrezione, queste ore buie e terribili dell’agonia che già contengono in sé l’annuncio del suo trionfo mediante la Croce. Il termine greco “agon” non sta a significare gli ultimi istanti della vita ma la lotta e, qui, il conflitto tra la libertà umana di Gesù e la volontà del Padre.
L’Amore come potenza di annientamento di sé
Per madre Mectilde tutto il dramma della Passione si concentra nell’Orto degli Ulivi. Nel capitolo IV, la Madre apre così la sua meditazione:
«Il Cielo intero trema e freme di stupore, vedendo un Dio ridotto alla stregua di un colpevole sul quale pesano gli orrendi peccati del mondo intero. Gesù si trova qui nella massima umiliazione, ed è in questo stato di confusione che si annienta davanti alla Santità divina, alla quale offre un’ammenda onorevole ed esprime un atto di contrizione così perfetto da meritare l’assoluzione per tutti i peccati degli uomini» [6].
Per approfondire il senso di questo testo lasciamo la parola a una mistica del nostro tempo, Adrienne Von Speyr che, attraverso la sua personale esperienza, si riallaccia a madre Mectilde:
«La croce, così considerata – scrive – non è altro che la confessione del Figlio che riceve con la resurrezione l’assoluzione del Padre. La Pasqua è la remissione da parte di Dio di tutti i peccati che il Figlio ha portato sulla croce, in cui il Padre ridona al Figlio un corpo glorioso, al di là di ogni penitenza. Così il Figlio ha sperimentalo in se stesso la confessione prima di istituirla per noi, i veri peccatori, come sacramento» [7].
E aggiunge:
«Il Figlio, che ha “confessato” sulla croce tutti i peccati del mondo al Padre, dal momento della croce possiede un nuovo mistero di fronte al mondo. [...] L’abbandono del Padre sulla croce, il perfetto isolamento dal Padre negl’Inferi appartengono al nocciolo del mistero assunto da lui, nella confessione, e del peccato del mondo» [8].
Questo atteggiamento di Gesù di fronte al Padre ci aiuta a riconoscere e a confessare la Santità di Dio e il nostro doppio niente di creature e di peccatori. Gesù è la vera vittima di espiazione per i nostri peccati (Gv 2,2 e 4,10). Il sacrificio di Gesù costituisce l’espiazione radicale di tutti i peccati. Poiché li ha presi su di sé, sono annullati (Eb 9,26), “dimenticati” (Eb 10,19) da Dio. In lui il peccatore è riconciliato con il Dio della Pace.
«A partire dalla sua incarnazione e proprio perché in essa la natura umana è stata consacrata dall’unione con quella divina, Gesù è costituito in stato di vittima. Questo “stato” non è qualcosa di aggiuntivo alla sua realtà, ma una qualità essenziale del Figlio di Dio che si è incarnato per fungere da mediatore in favore dell’uomo» [9].
«È qui – continua madre Mectilde – dove Gesù, pur senza colpa, appare colpevole; è qui, dove è trattato con rigore dalla giustizia e santità divina; è qui, che si è fatto nostra vittima e garante dei peccatori; dove riceve la sentenza di morte, entra in agonia, vede le sofferenze inenarrabili della sua anima e del suo corpo».
I termini usati da madre Mectilde sono di tipo giuridico: “colpevole”, “colpa”, “giustizia”, “garante”, “sentenza”, ed evocano il tribunale, la condanna.
Più medita sulla Passione, più madre Mectilde si apre progressivamente al segreto delle “sofferenze inenarrabili” dell’anima di Gesù al Getsemani. Accoglie in sé quella sofferenza in maniera sponsale. Lascia risuonare in sé le parole dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani:
«Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,6-8).
Per madre Mectilde la distensione massima che si verificherà alla morte di Gesù sulla Croce è, di fatto, già iniziata nell’Orto degli Ulivi, quando Gesù accetta la distanza infinita che si scava tra il Padre e Lui, che ha rinunciato alla sua condizione di Figlio. Abbiamo davanti agli occhi l’impensabile: «il Padre impassibile e il Figlio in agonia» [10]. La ragione di un tale atteggiamento è difficile da capire, e tuttavia, come sottolinea Dominique Gonnet, in quel momento:
«Dio nega se stesso, “annienta se stesso”; è la prima negazione, “la negazione positiva”. Essa si esaurirebbe nel nulla se non fosse “negazione raddoppiata” per divenire “ragione della vita in verità”, “vita nella morte e attraverso la morte” » [11].
In una sua opera, François Varillon scrive a proposito della kenosi:
«La kenosi di Cristo fu totale nella sua morte. Ecco perché questa morte rivela in pienezza la gloria di Dio, che coincide con l’amore come potenza di annientamento di sé. In Gesù crocifisso è reso manifesto il puro “per te”, negatore del “per sé”, dell’Assoluto trinitariamente vivente. La croce è figura centrale della rivelazione: un uomo s-figurato s-vela l’Essere eterno senza figura» [12].
Per amore nostro, il Figlio ha deposto accanto al Padre tutto ciò che ha di divino e non vuole altro che soffrire e umiliarsi davanti al Padre suo. Per amore nostro vuole provare sempre più fortemente la distanza che separa il peccatore da Dio [13].
«Sulla croce – scrive Adrienne Von Speyr – il figlio non mostrerà e trasmetterà più niente. Sarà solo una cosa: l’uomo abbandonato dal Padre. Come tale parlerà. Guarda al Padre solo nella forma di colui che non vede se stesso, benché soffra trovandosi nelle mani del Padre. Egli ha raggiunto la piena degradazione e umiliazione della incarnazione»[14].
Raggiungiamo madre Mectilde, silenziosamente vicina a Gesù nel Getsemani:
«È qui che si dona a ciascun’anima in particolare, è qui dove accetta la morte per darci la vita, dove ci ridona i diritti che il peccato ci aveva sottratto. È qui che ci merita la grazia di entrare in comunicazione con il suo divin Padre; è qui, dove ci insegna a detestare il peccato, instillandone in noi l’orrore; è qui, che il Padre non risparmia il proprio Figlio e dove un Dio infinito è annientato davanti alla suprema Maestà di Dio infinito».
Il direttore spirituale e confidente di Adrienne Von Speyr, Hans Urs Von Balthasar, si è fermato in modo particolare sul mistero della salvezza. A proposito dell’agonia di Gesù, scrive:
«Nella terribile angoscia di non poter adempiere quanto richiesto, egli deve lottare per pronunciare l’assenso. Si tratta veramente di una lotta con se stesso. Egli deve estorcere a se stesso il ‘sia fatta la tua volontà’ nello sforzo dell’estrema debolezza. Le parole secondo le quali Gesù sudò sangue ne sono la dimostrazione… Né lo stato di veglia che Gesù pretende (‘vegliate e pregate’), né l’angoscia e il turbamento puramente umani di fronte all’imminente sofferenza possono chiarire questo prorompere dalla sua intima sostanza; si tratta solo di un conflitto in atto tra il Dio che è in cielo e il Dio che si fa rappresentare dai peccatori sulla terra»[15].
Eccoci ora immersi nel mistero del Padre considerato da madre Mectilde l’aspetto più negativo e più odioso: il Padre giustiziere del Figlio, il Padre che perseguita il Figlio per metterlo a morte a nome della giustizia. Certo, ed è lite qui, madre Mectilde è tributaria del linguaggio e delle formulazioni della sua epoca. Basta leggere Bossuet per ritrovare la stessa terminologia e iconografia. Ma se il senso attribuito da madre Mectilde alle parole che usa è – bisogna ammetterlo – il senso primo, è anche vero che noi oggi possiamo accogliere meglio con le parole e i concetti del nostro tempo, una tale meditazione. L’apostolo Giovanni non ha forse riassunto il mistero di Dio in queste tre parole: “Dio è Amore”? Che cosa avrebbe dunque dovuto perdonare a colui che è passato in mezzo agli uomini facendo del bene, al solo che non ha nuociuto a nessuno? Nel senso latino del termine, l’innocente è colui che non nuoce. Cosa avrebbe dunque dovuto perdonare all’Innocente?
Se Dio è amore, egli ama. Il Padre ama il Figlio, il Figlio ama il Padre e il loro amore è lo Spirito Santo. Dio si è rivelato in Gesù Cristo come amore, come Colui che ama e che ci ha amato per primo, gratuitamente. Dio si affligge per l’uomo che si allontana da Lui. Si affligge per puro amore.
«Per un Dio che “è amore” – ci dice Cantalamessa – la sofferenza e la passione sono certamente più confacenti che non il loro contrario, che è l’impassibilità. Dio soffre una passione d’amore, cioè una passione che deriva dal fatto che egli ama e ama davvero» [16].
Dio, che non è in primo luogo una “potenza assoluta”, ma un amore assoluto, si manifesta abbandonando ciò che gli appartiene in proprio, ossia il Figlio.
«L’unità divina di volere tra Padre e Figlio e Spirito Santo, è una unità in forza della quale ciò che il Padre vuole, lo vuole allo stesso modo, anche il Figlio. Se dunque c’è stata una ‘crudeltà’ in Dio, questa non è stata del Padre contro il Figlio, ma di Dio contro se stesso. Dio è stato crudele con se stesso per amore dell’uomo» [17].
La Bibbia risuona sin dall’inizio di quel grido di Dio lanciato all’uomo: «Dove sei? », al quale l’uomo accetta alla fine di rispondere lasciandosi raggiungere dall’Amore con queste parole: «Maranatha, vieni Signore Gesù» (Ap 22,20).
«La vera novità del Nuovo Testamento – ci dice Benedetto XVI nella sua enciclica Deus caritas est – non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti – un realismo inaudito. Già nell’Antico Testamento la novità biblica non consiste semplicemente in nozioni astratte, ma nell’agire imprevedibile e in certo senso inaudito di Dio. Questo agire di Dio acquista ora la sua forma drammatica nel fatto che, in Gesù Cristo, Dio stesso insegue la “pecorella smarrita”, l’umanità sofferente e perduta. Quando Gesù nelle sue parabole parla del pastore che va dietro alla pecorella smarrita, della donna che cerca la dracma, del padre che va incontro al figliol prodigo, queste cose non sono soltanto parole, ma costituiscono il senso del suo stesso essere e operare. Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo – amore, questo, nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cfr. 19,37), comprende ciò che è stato il punto di partenza di questa Lettera enciclica: “Dio è amore” (1 Gv 4,8). È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore» [18].
L’abisso senza fondo della kénosi
Nell’Orto degli Ulivi Gesù percepisce la volontà del Padre e vuole aderirvi perché, appunto, volontà del Padre suo. Tutto l’universo morale del peccato pesa in quel momento sulla sua anima. La vera Croce che Gesù porta sulle spalle e a cui sarà inchiodato è il peccato.
In un’altra opera, Varillon fornisce la chiave interpretativa di questo dramma:
«La sofferenza di Gesù – scrive – nell’ora suprema, ha cessato di essere una sofferenza in comunione...Egli soffre da solo. E perciò maggiormente. È il limite estremo. ...Per Cristo, è l’abisso senza fondo della kénosi, dal quale sorge una fiducia che si fonda solo su se stessa e che proprio per questo è vertiginosa. È, nella privazione di comunione, la comunione più intima. Lo Spirito ne è il legame»[19].
È indicato qui il ruolo dello Spirito Santo nell’abisso della separazione. Senza lo Spirito Santo, questa separazione sarebbe la “dis-tensione” assoluta.
La Scrittura ci rivela Dio come essere di compassione (cf. Sap 11,23; 12,2). Il termine è lanciato: “compassione”. Questa parola rivela il senso dell’atteggiamento del Padre. Il suo silenzio è un silenzio di compassione: Dio non ha risparmialo il proprio Figlio per salvarci. Non si può capire l’atteggiamento di Dio nel mistero della Redenzione senza lasciar risuonare in sé le due parole pronunciate da Isacco quando chiede ad Abramo dove sia la vittima per l’olocausto: “Padre mio”. Queste due parole risuonano di nuovo sulle labbra di Gesù nell’Orto degli Ulivi, poi sulla Croce. Sintetizzano tutta la dimensione della Passione, perché «il Padre non è solo colui che riceve il sacrificio del Figlio, ma anche colui che ‘fa’ il sacrificio del Figlio: egli ha fatto il grande sacrificio di darci il suo Figlio! » [20].
..Mangiare questa Pasqua sarà per Gesù offrirsi a questa Passione dell’anima di cui madre Mectilde scopre sempre più la profondità:
«È qui, dove tutte le creature si mettono contro Gesù, fatto peccato – come dice San Paolo – per vendicare l’ingiuria che il peccatore fa a Dio con il proprio peccato. È qui dove Gesù, Uomo-Dio, è abbandonato alla potenza delle tenebre e dove, ridotto agli estremi, pronuncia le parole: “Tristis est anima mea usque ad mortem” ».
Dopo il mistero del Padre, madre Mectilde si concentra sul mistero del Figlio, Uomo-Dio abbandonato alla potenza delle tenebre. Quando si menziona questo abbandono, si pensa in genere alla consegna di Gesù tra le mani degli empi (cioè nelle nostre mani). Ma c’è un’altra chiave di lettura di questa espressione che viene fornita da Adrienne Von Speyr in un testo sulla discesa di Gesù agli inferi:
«Il Figlio guarda direttamente dentro nell’ultimo mistero del Padre che creò il mondo; il mistero che lasciò il potere al demonio di sedurre l’uomo. Il mistero del Padre è nascosto in queste tenebre. Dio sarebbe stato capace di far risplendere la sua luce ovunque, di non far sorgere il male e semplicemente di reprimerlo. Che non l’abbia fatto, appartiene alla sua impenetrabilità. Gli uomini dovevano essere liberi; non erano creati come una natura finita, dovevano crescere andando incontro a Dio. Dio voleva dare il suo cielo solo a figli adulti. In questo spazio della libertà sono poste le tenebre di Dio e la possibilità del peccato. Ma anche le tenebre di Dio erano un mistero della carità (cf. Gv 19,34)» [21].
Sì, l’anima di Gesù è triste sino a morirne, raggiungendo così attraverso il tempo e lo spazio ogni uomo nel suo personale mistero di sofferenza e di morte, per farlo suo e trasfigurarlo con la presenza silenziosa di Colui che è andato sino al fondo di questa sofferenza.
In effetti nell’Orto degli Ulivi, poi al Calvario, il Padre è, silenziosamente, il più vicino al Figlio. Davanti al Padre, il Figlio appare rivestito del peccato del mondo e il Padre si leva contro il peccato, non contro il Figlio. Il suo amore per il Figlio è, in quel momento dell’esistenza di Cristo, tutto “compassione”. Compatire è “soffrire con”, silenziosamente e realmente. Se Dio ha accettato un simile sacrificio è per amore nostro, per ristabilire la relazione di amore tra Lui e noi, relazione distrutta dal peccato. Ascoltiamo di nuovo Adrienne Von Speyr:
«Con la missione della parola noi siamo diventati credenti, con la sua passione siamo stati rinnovati, con la sua risurrezione siamo risuscitati nella parola, con il suo ritorno al Padre, anche noi pronunciamo la parola del Figlio verso il Padre che penetra fino al cuore del Padre. Difatti attraverso il cammino del Figlio, suo Padre è diventato nostro Padre. E poiché questo ritorno del Figlio si è attuato nello Spirito Santo, lo Spirito ci viene donato nel momento in cui la circolazione della carità tra Padre e Figlio abbraccia di nuovo anche il mondo» [22].
Madre Mectilde avanza ancora un poco in questo mistero:
«È qui – scrive – che bagna la terra con il proprio Sangue, che si abbatte fino a sperimentare l’agonia della morte, dove tutti i peccati piombano insieme su questo Salvatore divino, per coprirLo delle loro tristi ombre e farLo comparire in questo stato dinanzi alla giustizia divina... ».
Gesù sperimenta in maniera simultanea e intollerabile la prossimità del peccato e per questo l’allontanamento massimo dal Padre. L’attrazione infinita che esiste tra Padre e Figlio è ora attraversata da una repulsione altrettanto infinita perché egli appare dinanzi al Padre in ciò che è maggiormente opposto al Padre: il peccato. La santità di Dio si incontra con la malizia del peccato, creando nell’anima di Gesù quella che può essere definita una tempesta massima. Vive la situazione-limite in maniera assoluta. La ragione è spiegata da Adrienne Von Speyr:
«Cristo – ci dice – deve passare attraverso gli inferi, per ritornare al Padre; difatti, deve poter vedere la grandezza dell’esecuzione nei risultati; il risultato è la separazione, il peccato senza coloro a cui esso appartiene; in ultima analisi egli ha operato la separazione tra peccato e peccatore e negli inferi egli colpisce anzitutto solo i peccati, non i peccatori» [23].
Questo ci permette di comprendere il seguito della meditazione di madre Mectilde, dove il peccato sembra in un certo senso personificato, quando evoca il “terrore e lo spavento che il peccato ha di Dio”:
«L’anima santa di Gesù soffre, non solo per la ripugnanza mortale che prova all’avvicinarsi del peccato, ma soffre pure il grande e tremendo sgomento per il terrore e lo spavento che il peccato ha di Dio adirato».
Questo passaggio parla dell’“ira” di Dio, della collera di Dio. Nella visione dell’Antico testamento la “collera” di Dio per i peccati dell’uomo (e non per l’uomo) non è mai allo stesso grado della sua giustizia. «L’ira – scrive Von Balthasar – è riservata a singoli atti di giudizio che sono in funzione di questa volontà di alleanza; la punizione passa mentre la benedizione resta» [24]. La collera di Dio è pura manifestazione di amore perché esercitata sempre contro il peccato e non contro il peccatore.
«Dio – riprende Cantalamessa – abbraccia insieme in sé un aspetto razionale, comprensibile per noi, e un aspetto irrazionale, che non è risolvibile con categorie razionali, ma con altre categorie e altri simboli. Il Crocifisso è la vera chiave di soluzione di questa ambiguità. Dio non è ora severo ora pietoso, a secondo del capriccio. Non fa intervenire ora la sua onnipotenza, ora la sua misericordia, arbitrariamente, senza una motivazione. C’è una spiegazione a questa ambivalenza, ed è questa: Dio è buono, tenero per il peccatore, è santo, terribile e implacabile contro il peccato...la croce è il più terribile no al peccato e il più amoroso sì al peccatore» [25].
Come scrive Paolo ai Romani, «l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà» (Rm 1,18). Il Figlio è davanti al Padre rivestito dell’empietà di tutti gli uomini di tutti i tempi. Dio ha fatto pesare su di lui l’iniquità e, per riprendere i termini del profeta Isaia:
«Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti» (Is 53,5-6).
«Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia» (1 Pt 2,24), lui, la cui ferita ci ha guariti.
«Dove c’è il peccato, là non può non appuntarsi il giudizio di Dio contro di esso, altrimenti Dio verrebbe a compromesso con il peccato [...]. Ora, Gesù nel Getsemani è tutta l’empietà del mondo» [26].
Madre Mectilde penetra sempre un po’ di più nel mistero del Figlio:
«Questo furore e sgomento sono grandi, quant’è piena e perspicace la conoscenza del Figlio di Dio, il quale sa che cos’è il peccato davanti a Dio e che cos’è Dio di fronte al peccato, e che cos’è un Dio giusto in rapporto al peccato per doversene vendicare».
La grandezza di questo Atto potente che è l’Amore di Dio consiste in questo: Dio si vendica amando, La vendetta di Dio è il suo Amore, la sua offerta di perdono. La vendetta di Dio è la sua misericordia, ci dice ancora Cantalamessa:
«Dio si fa giustizia, facendo misericordia! Ecco la grande rivelazione, ecco la ‘vendetta’ di Dio sugli uomini che hanno peccato» [27].
Von Balthasar parlando di questa “collera di Dio” scrive:
«Questa “ira” non è un ‘come se’, ma una realtà in senso pieno: è il categorico no di Dio al comportamento che il mondo assume di fronte a lui. Dio ha il dovere, verso se stesso e verso la giustizia amorosa della sua alleanza, di dire questo no e di persistervi quando la sua volontà non è fatta sulla terra come in cielo» [28].
«Ora - scrive san Paolo - indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza, egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù» (Rm 3,21-26).
Al capitolo V [29] della sua opera, madre Mectilde prosegue la meditazione, considerando l’Innocenza di Gesù:
«Questo stato del Salvatore non deve essere considerato con leggerezza. EccoLo in posizione di colpevole, pur essendo l’Innocenza stessa, che, come afferma il Principe degli Apostoli, non commise peccato, e in cui non si trovò inganno sulla bocca (1 Pt 2,22) ».
La terminologia colpa, colpevole, utilizzata con costanza da madre Mectilde nei suoi scritti a proposito del peccato e del peccatore, può essere messa in relazione con l’avvenimento del Getsemani dove, in quel momento estremo, Gesù è l’Innocente, in piedi di fronte al Padre, rivestito di tutti i peccati dell’umanità.
«L’Incarnazione – nota Varillon – se fosse stata eclatante e gloriosa agli occhi degli uomini non avrebbe rivelato l’Innocente» [30].
Per amore del Padre e degli uomini Gesù ha accettato e vissuto la Passione. Cristo fa l’esperienza di ciò che è il peccato perché:
«...come uomo – nota Adrienne Von Speyr – il Figlio sente i peccati nel modo giusto, cioè così come Dio li vede nella sua assoluta purità. Inoltre egli possiede la natura intatta di Adamo prima della caduta nel peccato; sente quindi il peccato anche con la Innocenza umana di chi non ha mai peccato [...] Sente e conosce il cambiamento che il peccato opera nell’uomo [...] Per il Figlio la seconda espe-rienza globale è la scienza divina riguardo all’offesa arrecata a Dio con i peccati, un’esperienza che nell’Incarnazione si traduce in qualcosa di umano» [31].
Questa meditazione di madre Mectilde ci fa entrare nella profondità dell’anima del Cristo nel momento più critico della sua vita, l’agonia, la lotta dell’ultima sera della vita, momento in cui ogni vita umana entra in un confronto diretto con l’imminenza della morte.
«A questo atto di offerta Gesù ha dato una presenza duratura attraverso l’istituzione dell’Eucaristia, durante l’Ultima Cena. Egli anticipa la sua morte e resurrezione donando già in quell’ora ai suoi discepoli nel pane e nel vino se stesso, il suo corpo e il suo sangue come nuova manna (cfr Gv 6,31-33). […] L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione» [32].
Un mistero che nasce dalla Trinità
Madre Mectilde tenta di entrare nel segreto di Dio. Se osa farlo è perché l’amore la spinge a condividere questa sofferenza con Lui, per riparare, se fosse possibile, perché lei stessa, in un certo senso, ne ha fatto l’esperienza e può quindi comprendere un poco dell’intimo dell’anima di Cristo nel momento in cui il combattimento è al massimo livello. Questo è il nocciolo della sua spiritualità riparatrice: rivolgere su di sé gli oltraggi rivolti a Gesù nel Sacramento del suo amore, nell’Euca-ristia; riceverli al suo posto; portare il dolore al suo posto. Fare, se fosse possibile, per Gesù quanto egli ha fatto per noi.
«In seguito al peccato – scrive Cantalamessa – la grandezza di una creatura davanti a Dio sta nel portare su di sé, dello stesso peccato, il meno possibile di colpa e il più possibile di pena. In altre parole, nell’essere “agnello”, cioè vittima, e nell’essere “immacolato”, cioè innocente. Non sta tanto nell’una o nell’altra cosa prese separatamente – cioè nell’innocenza, o nella sofferenza –, quanto nella sintesi delle due cose e nella compresenza di entrambe nella stessa persona»[33].
Ciò che vi è di più grande al mondo è quindi la sofferenza ingiusta (1 Pt 2,19), perché è la sola che si avvicina maggiormente al “modo di soffrire di Dio”. Se Dio soffre, questo può avvenire solo innocentemente, ingiustamente, perché “egli non ha fatto nulla di male”, come ha detto uno di quelli che è stato crocifisso con lui.
Continuiamo a leggere questa meditazione:
«...ma prese su di Sé i nostri peccati, si coprì della vergogna ad essi dovuta ed è entrato nell’abisso del nulla».
Siamo nel cuore del mistero dei Tre giorni: Giovedì santo, Venerdì santo e Sabato santo.
«Il Sabato santo – scrive Hans Urs Von Balthasar – vi è la discesa di Gesù morto agli inferi, vale a dire (semplificando molto) il suo farsi solidale nel non-tempo con coloro che sono perduti nella lontananza da Dio. Per essi, la scelta con la quale hanno preferito il loro Io in luogo del Dio dell’amore disinteressato, è definitiva. Il Figlio morto discende in questa definitività (della morte), ormai senza più agire in alcun modo, anzi, privato fin dalla croce di ogni potere e di ogni iniziativa propria, come colui di cui puramente si dispone, come colui che sia stato abbassato a pura materia, in un’obbedienza assolutamente indifferente (come un cadavere), incapace d’ogni solidarietà attiva, e men che meno di tenere qualsiasi “predica” ai morti».
E Von Balthasar continua:
«Egli è un morto insieme con loro (ma anche per un amore supremo). [...] La parola del salmo: ‘Se io vado in fondo agli inferi, là sei anche tu’ (sal 139 [138],8) acquista dunque un senso totalmente nuovo» [34].
Dio è il solo a conoscere la dimensione e il peso del peccato. Gesù entra nella “notte oscura dello spirito”. È l’uomo descritto dal salmista: «Pesa su di me il tuo sdegno e con tutti i tuoi flutti mi sommergi. Hai allontanato da me i miei compagni, mi hai reso per loro un orrore” (sal 88 [87], 8-9). I peccati degli uomini erano su Gesù, egli li ha indossati, liberamente, «in realtà, l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia» (Rm 1,18).
Prosegue madre Mectilde:
«È difficile esprimere con parole ciò che il Figlio di Dio ha sofferto in tale stato. In verità, egli è stato sottoposto ai tormenti, che tutti i peccatori dovrebbero provare, se comprendessero sufficientemente la malvagità del peccato. L’eterno Padre L’ha trattato come se fosse un bestemmiatore, un omicida, un falso testimone, uno spergiuro, ecc.. Agli occhi del Padre è apparso ricoperto di tutte le brutture e nefandezze degli uomini. O Dio! Che cosa tremenda! Il dolore causatoGli dalla ripulsa del suo divin Padre è stato così grande, per cui, nonostante lo zelo perla Sua gloria e per la salvezza delle anime, Egli gridò: “Padre mio, se è possibile passi da me questo calice, senza che ne gusti l’amarezza! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” ».
Parlando dell’ “ira” di Dio, il cardinal Martini si esprime così:
«Il calice dell’ira di Dio, di cui parla Geremia e che è il castigo immanente di tutte le malvagità umane, è bevuto da Gesù; questo è il mistero della redenzione, del ristabilimento dell’alleanza: che Gesù stesso viene a bere il calice dell’ira di Dio portando su di sé il nostro peccato (2 Cor 5,21) per ricostituire il piano di Dio. Gesù, a nome dell’umanità, assume l’ira di Dio meritata dai nostri peccati, nel suo corpo, l’ira immanente che è l’ingiustizia del mondo; non si sottopone a un’ira esterna di Dio, come se il Padre volesse punire il Figlio, bensì beve il calice dell’ingiustizia del mondo e così diventa redentore dell’umanità e mediatore della nuova alleanza. È il mistero della croce, e senza una contemplazione assidua, amorosa del Crocifisso, non riusciremo a interpretare adeguatamente le parole sull’ira» [35].
È divenuto in certo modo il peccato del mondo.
«È Dio stesso che, nel Figlio, si lascia schiacciare dalle conseguenze del peccato realizzando il massimo dell’ira e il massimo della misericordia. È un mistero che nasce dalla Trinità»[36].
Madre Mectilde si ferma più sull’ignominia della Passione che sulla gloria della Risurrezione. È per volontà del Padre che è avvenuta questa Passione. Eccoci nuovamente al cuore della kenosi del Figlio. Nella lettera ai Filippesi (2,5-8), Paolo esorta:
«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (hoc enim sentite in vobis quod et in Christo Iesu qui cum forma Dei esset non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo sed semet ipsum exinanivit formam servi accipiens in similitudinem hominum factus et habitu inventus ut homo humiliavit semet ipsum).
«Egli è l’uomo “fatto peccato”. Cristo – è scritto - morì “per gli empi”, al loro posto, non solo a loro favore. Egli ha accettato di rispondere per tutti; è dunque il “responsabile” di tutto, il colpevole davanti a Dio! È contro di lui che “si rivela” l’ira di Dio e questo è “bere il calice” » [37].
Madre Mectilde prosegue:
«Un Dio, rivestito della forma del peccatore, su cui gravavano tutti i peccati del mondo: quale abisso! Chi lo potrà comprendere? ».
Madre Mectilde ha colto tutta la portata della lettera ai Filippesi, che può essere qui riassunta con le parole di Von Balthasar:
«In tal modo la kenosi – come abbandono della “forma divina” – diventa, è vero, l’atto distintivo dell’amore del Figlio che trasferisce la sua condizione di ‘genito’ (e la conseguente dipendenza) dal Padre nella forma espressiva dell’obbedienza creaturale; tuttavia in questo atto tutta la Trinità resta impegnata: il Padre come colui che invia il Figlio e lo abbandona sulla croce, lo Spirito come colui che unisce entrambi ormai soltanto nella forma espressiva della separazione» [38].
E altrove scrive:
«Nella sofferenza del Gesù vivente vi è la disponibilità a bere il “calice” dell’ira, vale a dire, a lasciar sfogare su di sé tutta la potenza del peccato: Egli ne accoglie in sé i colpi e l’odio che si portano dentro, e lo ammortizza, per così dire, mediante la sofferenza»[39].
La volontà di Dio riserva allo stesso Dio, al di là del paradosso di una simile formulazione, il parossismo di ogni sofferenza. Anche la sofferenza si eleva a potenza infinita solo quando sua causa e sua misura è Dio, quando c’è di mezzo Dio, e ciò avviene al momento della Passione di Cristo.
Adrienne von Speyr aiuta un po’ ad entrare in questo mistero insondabile e incomprensibile che supererà sempre l’uomo.
«Se ora – scrive – la volontà del Padre vuole che il Figlio soffra, le forze umane devono sperimentare l’estraneità di tale fatto: “non la mia volontà”. E anche dopo aver pronunciato questa decisione, il Figlio rimane nell’obbedienza, nel dolore e nel timore. Sceglie la volontà del Padre e sa che questa volontà significherebbe passione; essa non sarà addolcita dal fatto che procede dall’obbedienza, ma al contrario; difatti il Figlio conosce la grandezza e l’intransigenza della volontà paterna, a cui ha rimesso la propria» [40].
Per salvare l’uomo, il Padre ha scelto per il Figlio la via della sofferenza (cf. Isaia 53). Come abbiamo visto, la giustizia, la vendetta di Dio è l’offerta della salvezza in Cristo.
«L’incomprensibile combinazione tra peccato del mondo e volontà di Dio – peccato del mondo che si è condensato nell’assoluto sdegno di Dio, ira di Dio che ha preso corpo nel peccato del mondo e si è dimostrata perfettamente in questo giustificata – rende impossibile nella vittima ogni rapporto con Dio e con il mondo. Il sacrificio è nell’assoluta solitudine. Ma in questa solitudine non è affatto lasciato solo, poiché cadono attivi e aggressivi “su di lui i terrori” (Gb 30,15)» [41].
La contemplazione della Passione dell’anima di Gesù introduce madre Mectilde nella sponsalità del mistero pasquale, dove Cristo celebra sulla Croce le nozze con l’umanità. Potrebbe fare proprie queste parole:
«Non sono più io che vivo, cioè il mio “io” non vive più...Ormai la causa dell’ “io” è perdente; egli (san Paolo) ha accettato liberamente di perdere il suo ‘io’, di rinnegare se stesso, per cui, anche se l’ “io” vive e ha dei sussulti, è però ormai soggiogato. Per Dio ciò che conta, in questo campo, è il volere, perché la cosa riguarda proprio la volontà. Questo è ciò che dobbiamo fare anche noi per essere “crocifissi con Cristo” » [42].
In definitiva, non possiamo non ravvivare il nostro amore personale per Gesù, considerando come fa Adrienne von Speyr che
«la passione sulla croce è espressione della intima carità divina. Dio ha scelto questa espressione per mostrarci il mistero della sua carità; per potersi rivelare, la carità soffre. [...] Il fuoco della sofferenza in cui ha fatto l’esperienza del peccato, lo può impiegare in futuro, insieme come fuoco e carità» [43].
Nell’orto degli Ulivi, Gesù
«si pone a disposizione della croce con la forza della carità eterna e sperimenta come uomo una sofferenza illimitata che corrisponde alla sua divinità e alla sua carità divina. La misura della sofferenza non è determinata solo dal motivo della croce, il peccato, ma anche dalla volontà di Dio di realizzare in noi la sua infinita carità» [44]
E la Von Speyr aggiunge:
«Se Dio portasse nel mondo la sua carità solo come fuoco, troverebbe forse alcuni che non sarebbero ancora induriti dal peccato e si rimetterebbero al suo fuoco. Ma il suo piano è di redimere tutti [...]. Poiché egli è completamente innocente e in lui niente può essere bruciato, egli prende su di sé come combustibile il peccato del mondo e lo brucia su se stesso, nella natura umana che il Padre gli ha donato, e soffre per ciascuno di noi» [45].
Sì, per riprendere le parole persuasive dell’allora Cardinale Ratzinger nell’omelia del 18 aprile 2005, alla vigilia del Conclave che lo avrebbe reso successore di Pietro:
«La misericordia di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone la banalizzazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male, tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della vendetta e l’anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto. Questa è la vendetta di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre per noi. Quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza - diveniamo disponibili a completare nella nostra carne “quello che manca ai patimenti di Cristo” (Col 1,24)» [46].
Così, nella propria anima, madre Mectilde condivide l’esperienza di Gesù al Getsemani ed espone in termini efficaci la sofferenza dell’Uomo-Dio, vicino a cui ella dimora, spiritualmente raccolta nel silenzio più profondo. Vuole raccogliere le sofferenze spirituali di Cristo, aiutando le sue sorelle a «capire che se l’amore di Dio è “un oceano sconfinato, senza fondo e senza rive”, così è anche il suo dolore» [47].
Se l’immagine che madre Mectilde dà del Padre è tipica del suo tempo – e chi potrebbe rimproverarglielo? – sta a noi saper rileggere i suoi scritti e rendere il suo linguaggio udibile e trasmissibile, senza tradirlo, nel nostro tempo come lo fu nel suo.
La sua esperienza mistica - perché madre Mectilde de Bar è una grande mistica, con i piedi ben piantati sulla terra e un solido buonsenso - la conduce a riparare la gloria di Cristo nell’Euca-ristia, accettando di ricevere il dono della Passione a nome di coloro che si fanno beffe dell’amore di Dio espresso nel SS. Sacramento. Madre Mectilde è un’anima che ha saputo vivere interiormente unita il più possibile alle sofferenze dell’anima di Gesù.
Anche se la missione di madre Mectilde del SS. Sacramento è spirituale e per nulla teologica, a partire dal momento in cui ella cerca di entrare nel mistero di Dio, entra, in definitiva, nel terreno teologico, il quale non è altro, semplicemente, che “parlare di Dio”, di quel Dio venuto tra gli uomini per dire loro, la sera del Giovedì santo: «Desiderio desideravi...Ho desiderato ardentemente mangiare questa Pasqua con voi, prima di patire» per amore vostro e per amore del Padre mio.
* Monaca del Monastero di Rouen (F).
[1] Cf. la “Lettera sulla festa dei sacri desideri di Gesù Cristo”, N. 594, nel manoscritto Cr C p. 106, riutilizzata per la composizione del cap. VIII del Véritable esprit des Religieuses adoratrices perpétuelles du Très Saint-Sacrement de l’Autel
[2] N. 880. conferenza per il Giovedì santo (89/1).
[3] Le Véritable esprit des Religieuses adoratrices perpétuelles du Très Saint-Sacrement de l’Autel, Paris 3a ed ; tr. it.: Il Vero Spirito, Ronco-Ghiffa, 1980. I numeri delle pagine faranno riferimento alla traduzione italiana, che abbiamo però parzialmente modificata.
[4] Anna Maria CANEVA, Il riformatore della Trappa. Vita di Armand-Jean de Rancé, Città Nuova, Roma 1996, p. 22.
[5] Jean LAFRANCE, La conoscenza di Cristo nella preghiera quotidiana, ed. OR, Milano 1989, p. 42.
[6] Cf. Il Vero Spirito, cit., pp. 52-55.
[7] Adrienne VON SPEYR, Mistica oggettiva. Antologia redatta da Barbara Albrecht con un saggio introduttivo di Hans Urs Von Balthasar, Jaca Book, Milano 1975, Teologia, 27, n. 78, p. 132.
[8] Adrienne VON SPEYR, Mistica oggettiva, o. c. n. 106, p. 153.
[9] Mario MASINI, Lettera agli Ebrei, messaggio ai cristiani, Queriniana, Brescia 1985, p. 102.
[10] Dominique GONNET, Anche Dio conosce la sofferenza, ed. Qiqajon, 2000, p. 56.
[11] Dominique GONNET, Ibid., p. 53.
[12] François VARILLON, L’umiltà di Dio, Qiqajon, Magnano 1999, pp. 138-139.
[13] Cf. Adrienne VON SPEYR, Mistica oggettiva, o. c. n. 79, p. 132.
[14] Adrienne VON SPEYR, Mistica oggettiva, o. c. n. 81, p. 133.
[15] HANS URS VON BALTHASAR, Nella pienezza della fede, Città Nuova, Roma 1992, p. 194.
[16] Raniero CANTALAMESSA, La vita nella Signoria di Cristo, ed. Àncora, Milano 1991, p. 131.
[17] Raniero CANTALAMESSA, La vita nella Signoria di Cristo, o. c., p. 126.
[18] BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Deus Caritas est, 25.12.2005, n. 12.
[19] François VARILLON, La sofferenza di Dio, citato in Dominique GONNET, Anche Dio conosce…o. c., p. 56.
[20] Raniero CANTALAMESSA, La vita nella Signoria di Cristo, o. c., p. 134.
[21]Adrienne VON SPEYR, Mistica aggettiva... o. c., n. 101, p. 50.
[22]Adrienne VON SPEYR, Mistica aggettiva, o. c., n. 110, p. 156.
[23]Adrienne VON SPEYR, Mistica aggettiva, o. c., n. 98, p. 147.
[24]Hans Urs VON BALTHASAR, Gloria, vol. 7, Nuovo Patto, Jaca Book, Milano 1977, p. 188.
[25]Raniero CANTALAMESSA, La salita al Monte Sinai, Città Nuova, Roma 1994, p. 28.
[26]Raniero CANTALAMESSA, La vita nella Signoria di Cristo, o. c., p. 84.
[27]Raniero CANTALAMESSA. La vita nella Signoria di Cristo, o. c., pp. 62-63.
[28]Hans Urs VON BALTHASAR, Gloria, o. c., p. 189.
[29] Le Véritable esprit, o. c., pp. 85-86; tr. it. pp. 56-57.
[30] François VARILLON, L’umiltà di Dio, o. c.., p. 95.
[31]Adrienne VON SPEYR, Mistica oggettiva... o. c., n. 76, pp. 130-131.
[32] BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas est, n. 13.
[33] Raniero CANTALAMESSA, La vita nella Signoria di Cristo, o. c., p. 92.
[34] Hans Urs VON BALTHASAR, Nella pienezza della fede, o. c., p. 200.
[35] Carlo Maria MARTINI, L’ira di Dio e altri scritti (1962-1994), (a cura di Silvia Giacomoni), Longanesi e C., “Il cammeo”, vol. 301, 1995, p. 167.
[36] Ibid., p. 167.
[37] Raniero CANTALAMESSA, La vita nella Signoria di Cristo, o. c., p. 84.
[38] Hans Urs VON BALTHASAR, Gloria, o. c., p. 195.
[39] Hans Urs VON BALTHASAR, Nella pienezza della fede, o. c., n. 74, pp. 129-130.
[40] Adrienne VON SPEYR, Mistica oggettiva, o. c.. n. 74, pp. 129-130.
[41] Hans Urs VON BALTHASAR, Gloria, o. c., p. 191.
[42] Raniero CANTALAMESSA, La vita nella Signoria di Cristo, o. c., p. 98.
[43] Adrienne VON SPEYR, Mistica oggettiva, o. c., n. 83, pp. 135-136.
[44] Ibid., p. 136.
[45] Ivi.
[46] Joseph RATZINGER, Omelia del Cardinale Joseph Ratzinger, Decano del collegio cardinalizio nella Patriarcale Basilica di san Pietro, Lunedì 18 aprile 2005, in La mia vita, Autobiografia, san Paolo, Cinisello 2005, p. 148.
[47] Raniero CANTALAMESSA, La vita nella Signoria di Cristo, o. c., p. 82.