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Deus absconditus,  anno 89, n. 2, Aprile-Giugno 1998, pp. 44-49

 

Maria Pina Scanu *

Fondamenti biblici della spiritualità di Catherine Mectilde de Bar

È quanto mai significativo che la Comunità delle Benedettine del SS. Sacramento celebri il 70° anniversario della presenza ad Alatri e il terzo centenario della morte della fondatrice Catherine Mectilde de Bar con una biografia proprio sulla fondatrice delle Benedettine del SS. Sacramento curata con squisita attenzione da Mons. Giuseppe Capone che racconta e comprende, come egli stesso spiega nelle prime pagine, come nella storia di questa mistica del ‘600 si attinge non «cosa bisogna credere, ma che cosa vuol dire credere» [1].

Nell’atto della pubblicazione di questa biografia vi colgo un’occasione importante che le Benedettine del SS. Sacramento offrono alle persone amiche, alla comunità ecclesiale, alla comunità cittadina, come proposta di riflessione che concorre a dare e a rinnovare le ragioni della loro scelta e del loro cammino monastico, ma anche come invito a trarre insegnamento da chi le ha precedute in un’elevata esperienza di fede e di Dio.

Non c’è dubbio che leggendo la biografia e gli scritti della fondatrice Catherine Mectilde de Bar ci si imbatte in una figura di un tempo, di una cultura, una teologia, dai caratteri ben diversi dagli odierni, e tali persino da mettere a disagio. Bisogna avere il coraggio, tuttavia, di non fermarsi alla superficie, ricordando, pure, il detto che se oggi vediamo più lontano è solo perché siamo dei nani sulle spalle di giganti.

È stato per me interessante scoprire nella spiritualità di Catherine Mectilde de Bar alcuni motivi fondamentali della fede biblica che certo l’hanno sostenuta e le hanno consentito di innalzarsi con tanta determinazione nell’adesione a Dio e che, inoltre, rendono la sua esperienza spirituale ancora viva ed efficace.

Esistono degli studi sull’uso che Catherine Mectilde de Bar fa della Bibbia [2], sulle numerose citazioni esplicite, implicite o le allusioni al testo biblico che già rivelano l’importanza da lei attribuita alla Sacra Scrittura; tuttavia, nella ricerca dei fondamenti biblici della sua spiritualità ho prestato attenzione alle argomentazioni sviluppate nei suoi scritti, soprattutto nelle lettere [3] come luogo privilegiato per apprezzare il movimento del suo spirito.

Dalla lettura di tali scritti, tre motivi affiorano con particolare intensità: il primato della Sacra Scrittura sulla Regola; il «perdersi in Dio»; l’«annientamento».

1. Il primato della Sacra Scrittura sulla Regola

In un manuale adottato nei suoi monasteri, pubblicato nel 1686 con il titolo Esercizi spirituali o pratica della Regola di San Benedetto, Catherine Mectilde de Bar dispone che solo «Dopo la lettura della Sacra Scrittura, che esse [le monache] preferiranno a qualsiasi altra a causa del suo Autore che è lo Spirito Santo e della verità che vi si trova molto più sicuramente che in qualsiasi altro libro, esse ameranno in modo singolare quella della santa Regola, di cui leggeranno tutti i giorni qualche cosa» [4].

Dunque, la Scrittura è prima della Regola. Malgrado la Regola di San Benedetto si presenti spesso come una catena di citazioni bibliche che già rimandano alla Bibbia, Catherine Mectilde de Bar non esita a indicare la preminenza della Scrittura, di tutta la Sacra Scrittura, sulla Regola.

Catherine Mectilde de Bar, in fondo, comprende che la vita spirituale ha bisogno di nutrimento e la fonte principale è la Parola di Dio. Solo dal contatto vivo con la Parola di Dio nasce la risposta della fede. L’ascolto della Scrittura costruisce e rafforza l’identità del credente, del monaco, introducendoli attivamente nel piano di Dio, nella prospettiva di Dio; la Regola poi, ne orienta la disponibilità a vivere nella comunione, compiendo la Parola ascoltata.

Appaiono importanti anche le modalità di lettura proposte: «Esse leggeranno con molta devozione e applicazione di spirito, persuadendosi che è Dio a parlare a loro per mezzo di quell’autore...faranno una lettura attenta ed avranno pazienza di leggere i libri per intero, cercando di penetrarne bene il disegno, l’ordine, il senso, le prove. Non leggeranno per curiosità, ma col desiderio sincero di cercare Dio e di apprendere i mezzi per piacergli. Leggeranno poco, posatamente, con attenzione e ruminando molto» [5].

Queste indicazioni per la lettura della Sacra Scrittura si situano nella più genuina tradizione monastica della lectio divina, una lettura quotidiana, fatta con attenzione, soffermandosi in meditazione e preghiera, custodendo nell’intimo la Parola così che illumini la vita.

Per Catherine Mectilde de Bar tale lettura della Sacra Scrittura diventa il primo luogo in cui si manifesta l’anelito profondo della monaca, il quaerere Deum, il cercare Dio. La Scrittura guida il credente, il monaco, la monaca, nella ricerca di Dio.

2. «Perdersi in Dio»

Nelle lettere, è frequente l’esortazione di Catherine Mectilde de Bar all’«abbandono», al «perdersi in Dio».

Così, per esempio, scrive alla Priora di Toul nel 1665:

«Lo voglio dire proprio di cuore. Noi dobbiamo credere per fede che egli [Dio] ci ama come suoi figli ed è una verità infallibile; dobbiamo dunque abbandonarci alle sue cure e alla sua bontà materna. Oh, come un granello di fede ci farebbe un gran bene e ci libererebbe da tante pene con una totale fiducia in lui! È questo che vuole da noi, tanto più che ci fa grazia e misericordia per sua pura bontà e non per i nostri meriti. Preferisco che egli mi salvi per la sua carità e bontà divina che non per le mie opere» [6].

Qualche settimana dopo scrive ancora alla stessa:

«Io vi posso dire, mia carissima madre, che offendete di più il Signore con la poca fiducia che avete nella sua divina carità sulla vostra anima, che per tutte le grandi colpe che potreste commettere. Egli non può sopportare che feriate il suo amore. Vi scongiuro di prestar fede a quanto vi dico. Questo timore che avete, questa impressione della giustizia di Dio su di voi, incisa nel fondo dell’anima, non portano affatto buoni frutti. Nostro Signore vuole che lo guardiate nella bontà infinita su di voi, non secondo quel che sentite in voi stessa; diminuireste quell’adorabile bontà che è un attributo divino. Ma, elevando la vostra fede, affidatevi a lei per se stessa, senza guardare a ciò che siete voi e che meritereste di essere. Ecco il modo di vivere come Gesù vuole e di ricevere gli effetti della sua misericordia nella purezza dello Spirito. Altrimenti, dareste dei limiti alla sua bontà e la misurereste secondo il bene o il male che sentite in voi. Ora, Dio non è buono perché noi siamo buoni o perché abbiamo buone disposizioni, ma è buono per essenza, è buono per se stesso...

Vi scongiuro di gettarvi a corpo perduto in quell’abisso di bontà e di perdervi in esso, senza mai riflettere volontariamente su voi stessa, né sulle miserie della vita passata. Dio ci dà secondo la nostra fede; che significa se non che ci esaudisce secondo la fiducia che abbiamo nella sua bontà?

... Vediamo nel vangelo che il Figlio di Dio, volendo guarire un lebbroso, un idropico o un cieco, non gli diceva altro che questo: «Ti sia fatto secondo la tua fede«, cioè secondo la tua fiducia. Madre carissima, abbiate quest’amorosa fiducia: è la sola cosa che manca alla vostra vita interiore e che vi darà un santo vigore di spirito...

Sono spinta interiormente a ripetervelo e sento che in voi non c’è nulla che contrari lo Spinto Santo se non questo; se cercherete di correggervi, vedrete la pienezza di benedizione che vi sarà data. Tutto quello che vedete in voi, che vi impressiona e vi dà un senso di colpevolezza, non è niente. Solamente quel punto si oppone all’amore di Dio» [7].

Nel 1686 Catherine Mectilde de Bar scrive alla Priora di Rouen:

«...poiché noi apparteniamo a Dio, dobbiamo volere che egli faccia di noi secondo la sua volontà. Tutto il nerbo della vita inferiore sta in questo puro abbandono, che non è né visto, né intuito, né sentito: è proprio uno stato di morte, in cui bisogna resistere malgrado la natura e le grida e le proteste dell’amor proprio. Restiamoci, mia carissima madre, abbandoniamo tutte le nostre piccole preoccupazioni di vergogna, di confusione, per perderci nella volontà di Dio» [8]

Già da questi testi emerge la qualità della fede di Catherine Mectilde de Bar. In essi il motivo dell’ «abbandono» è strettamente connesso con la fede. Abbandono è, infatti, fede e fiducia nella bontà del Signore. Tale abbandono esige l’uscire dalle paure e dai ripiegamenti interiori che sono un ostacolo all’incontro con Dio, un impedimento all’opera di Dio. Catherine Mectilde de Bar esorta all’abbandono totale senza altro appoggio che la pura fede. Si tratta di riporre interamente la propria sicurezza in Dio. Questo modo di pensare è in profonda sintonia con l’insegnamento di Is 7,9b: «Se non accettate la sicurezza (che viene dal Signore, che è il Signore stesso) non avrete nessuna sicurezza». Se manca l’abbandono fiducioso nella Parola del Signore l’uomo perde la propria sicurezza e diventa schiavo della sua paura [9]. Chi, invece, vive l’abbandono in Dio conosce la potenza della fede, il compimento dei prodigi di Dio, conosce l’amore di Dio Padre, la bontà del Signore, la cui tenerezza è su tutte le creature {Sal 145,9). Chi accoglie la sicurezza che viene dalla Parola del Signore, che è il Signore, ne conosce l’amore fedele e misericordioso (hesed), connesso alle promesse divine, all’alleanza, alla scelta di Israele come suo popolo-famiglia, all’impegno di realizzare la piena comunione di vita. Se lo hesed umano è come il fiore del campo che appassisce (cf. Is 40,6), quello del Signore è da sempre e per sempre, ed è ciò che ha prevalso su Israele {Sal 117,2). Chi nella sua vita conosce questo amore fedele e misericordioso del Signore giunge a rischiare tutto per esso, giunge a preferirlo alla sua stessa vita (cf. Sal 63,4).

3. «Annientamento»

Un altro motivo che spesso ricorre nelle lettere di Catherine Mectilde de Bar è quello dell’ «annientamento», che appare collegato all’esortazione all’abbandono in Dio. Così, per es., scrive a una religiosa di Rouen nel 1680:

«Vivete come chi non si appartiene più, ma è proprietà di Gesù Cristo senza riserva alcuna. Non vi lasciate andare allo scoraggiamento, che vi farebbe ammalare abbattendo il vostro fisico: sostenetelo per obbedire a Dio e servirlo per amor suo. Pazienza, pazienza, figliola cara; state sicura che Gesù compirà in voi la sua opera, che è la vostra morte e il vostro distacco: è là che vuol condurvi. Suvvia, non rifiutiamo l’onore che ci fa di essere tutte annientate, in modo che in noi non appaia più altri che lui...» [10].

Nello stesso anno Catherine Mectilde de Bar scrive pure alla madre Monique des Anges:

«Più sarete di Dio e più Dio benedirà la sua opera... Vi consiglio di ritirarvi nel nulla se volete esserne meno ferita. Non ho trovato in questa vita aiuto più sicuro, perché, dal momento in cui vi sprofondate in questo beato niente, vi trovate Dio, e là vi inabissate in lui, talvolta senza accorgervene. Io ho trovato sempre la pace e il riposo nel nulla, e niente disturberà più l’anima che ne fa la sua dimora. Vorrei che tutte le vittime abitassero in questo nulla: vi starebbero molto più tranquille. È un posto che nessuno vuole e dove tutti, spesso anche i più spirituali, non vogliono entrare, perché nessuno vuol perdere il proprio io. Prego il Signore che vi dia il coraggio, non solo di entrarvi ma di restarvi fino alla morte....Rimanete raccolta in Dio con un profondo annientamento di voi stessa» [11].

Alla stessa madre così scrive nel 1682:

«Mi sembra che non dobbiamo fare altro che abbandonarci tutte a lui [Dio]. Egli conosce il fondo più intimo di ogni cosa, ciò che è possibile e quello che non lo è. Giacché gli piace di tenerci in questo stato, adoriamo i suoi voleri: è una situazione che fa morire esteriormente. Il mondo biasima quel che non conosce; ma non tralasciamo di morire anche interiormente e di tendere ognora al puro e perfetto annientamento. Non voglio dir nulla di quanto vi riguarda: Dio opera in voi ciò che non potete fare voi stessa; abbandonatevi tutta all’azione divina, ma non vi scoraggiate; lasciatevi annientare e rimanete in pace: il vostro cammino è tracciato, non avete che da percorrerlo. È nostro Signore che ve l’ha tracciato, non vi rincresca quindi di essere riportata nel nulla» [12].

I curatori degli scritti notano, sul motivo dell’«annientamento», l’influsso in Catherine Mectilde de Bar del pensiero di S. Giovanni della Croce [13].

Nondimeno, l’invito a «perdere la vita» e a «rinnegare se stessi» per Cristo, si trova, innanzitutto, nell’insegnamento del Vangelo (cf. Mc 8,34-35; Mt 10,38-39; 16,24-25; Lc 9,23-24). Tuttavia, spesso tali parole sono interpretate in un senso negativo, come repressione e disprezzo delle creature e delle cose create. Per comprendere, diventa necessario osservare la questione da un altro punto di vista, quello della dinamica dell’amore. L’amore, infatti, esige il far posto nella propria vita all’altro; amare qualcuno comporta fargli spazio nella propria vita: così è degli amici, degli sposi, dei genitori con i figli. L’atto stesso della creazione del mondo da parte di Dio può essere inteso come contrazione divina. Entro tale interpretazione Dio avrebbe contratto se stesso per far spazio al mondo con le sue creature. Di nuovo, si tratta di un atto di amore.

Rileggendo le argomentazioni di Catherine Mectilde de Bar emerge che 1’«annientamento» di cui parla è teso a far posto a Dio, a trovarsi in Dio, a far vivere Cristo (cf. Rm 6,11; 2 Cor 5,15; Gal 2,20). Ancora una volta Catherine Mectilde de Bar si muove in piena sintonia con la Scrittura.

Col 3,1-17 insegna che la mortificazione di quella parte che appartiene alla terra, l’uomo vecchio (con i suoi atti contro Dio e contro la comunità umana) è tesa a far emergere l’uomo nuovo e la vita della risurrezione. Partecipi della risurrezione di Cristo i credenti sono chiamati a lasciar spazio al mondo della risurrezione in cui sono realizzate la promessa, l’alleanza, la comunione di vita, la fraternità, la pienezza di ogni salvezza e benedizione. Catherine Mectilde de Bar ha compreso tutto ciò e lo ha realizzato secondo la vocazione monastica.

Questo breve percorso indica che, superato il possibile disagio iniziale, il messaggio e la testimonianza di Catherine Mectilde de Bar esprimono una robustezza spirituale e uno straordinario insegnamento di fede, affidato in primo luogo alle comunità monastiche che più da vicino ne seguono l’esempio, ma che è certamente un dono inestimabile per tutti coloro che nella comunità ecclesiale giungono a conoscerlo.

 



* Docente di ebraico presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma. Conferenza tenuta presso il Monastero di Alatri (FR) il 9.11.1997, nel quadro delle celebrazioni di cui abbiamo dato notizia nell’ultimo numero di Deus absconditus.

[1] G. Capone, Quando la vita si fa dono, Catherine Mectilde de Bar una mistica del ‘600 fondatrice delle Benedettine dell’adorazione perpetua. Alatri, 1997, p. 7.

[2] Cf. G. Guerville, Catherine Mectilde de Bar, lI. Uno stile di «lectio divina» nel secolo XVII, Roma 1989.

[3] Cf. la raccolta in BAR C.M. de. Non date tregua a Dio. Lettere alle monache 1641-1697, Milano 1979.

[4] Guerville, Catherine..., cit., pp. 56-57

[5] Ivi, p. 57.

[6] Bar de, Non date tregua..., cit., p. 95.

[7] Ivi, pp. 96-97.

[8] Ivi, p. 214.

[9] Cf. più diffusamente il commento di Odasso G., «Isaia», in La Bibbia Piemme, Casale Monferrato 1995 pp. 1693-1694.

[10] Bar de, Non date tregua...cit., p. 186

[11] Ivi, p. 189.

[12] Ivi, p. 205

[13] Cf., per es. Ivi, p. 190, n. 262.