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Deus absconditus, anno 85, n. 1, Gennaio-Marzo 1994, pp. 24-41

 

Padre Giorgio Bertolini, o. cist.

Rapporto tra monastero e mondo alla luce degli scritti
di Madre Mectilde de Bar

 

Introduzione

Il tema che mi è stato proposto e che riguarda il «Rapporto tra monastero e mondo alla luce degli scritti di Madre Mectilde de Bar», potremmo leggermente modificarlo così: Catherine Mectilde de Bar e il suo tempo.

Questa seconda dicitura dello stesso tema può meglio aiutarci ad esaminare il pensiero e, nel nostro caso, ad approfondire il contenuto dottrinale biblico-spirituale-monastico di Madre Mectilde rapportato a quel mondo francese che gravitava attorno ai monasteri dei secoli XVI e XVII. Un particolare riferimento va subito fatto alle: Lettres de Mère Mectilde de Bar a Marie de Châteauvieux, le quali pongono in luce i grossi problemi e i fatti storici che travagliavano l’Europa in un ben preciso periodo storico, ma anche la vita interna della Chiesa della Controriforma e del post-Concilio Tridentino. Per essere fedele al tema, ritengo perciò utile introdurmi con alcune riflessioni di carattere teologico e antropologico.

Una caratteristica della natura della Chiesa, in quanto istituzione destinata alla salvezza dell’umanità, è quella di appartenere nello stesso tempo a due mondi diversi.

Essa appartiene al mondo terreno e visibile mediante gli uomini che la compongono e la personificano all’esterno e all’interno. Per questo essa agisce come fattore storico nel mondo, come l’umanità stessa e le sue istituzioni politiche, culturali, economiche e sociali che l’umanità ha prodotto nel corso dei tempi e continua a produrre.

Ma la Chiesa partecipa anche al mondo soprannaturale per mezzo dello Spirito e dell’assistenza divina che è in essa operante e viva.

In tal modo, tutta la storia dell’umanità si trasforma in storia della salvezza, e la Chiesa medesima diviene un segno levato fra le nazioni [1] che continua fino alla fine dei tempi e su cui si decide il destino finale degli uomini. La Chiesa costituisce una irruzione unica e irrepetibile dell’eterno e del soprannaturale nella nostra temporalità umana, e sta in rapporto intimo con l’incarnazione del Verbo.

Nella Chiesa il soprannaturale si avvicina all’umano e allo storico in due modi. Da una parte, il divino e il trascendente irradiano nell’umanità, il divino risplende nello storico.

Si ammira e si sente l’azione di Dio nella storia. D’altra parte, assai frequentemente ciò che nella storia è trascendente viene nascosto e oscurato da ciò che è umano, fin troppo umano. Cristo viene materializzato e sfigurato nella sua Chiesa. Il sovrastorico nella vita della Chiesa si rende riconoscibile nella sua origine divina, nella particolare direzione e guida e provvidenza divine nel corso dei tempi.

L’autorità e i poteri di Cristo, il suo Spirito e il suo amore, fanno della Chiesa, come si esprime Agostino nei riguardi dell’Eucaristia, il sacramento dell’unità ecclesiale, il signum unitatis e il vinculum caritatis, mentre la sicurezza del possesso della Parola di Dio nella rivelazione le assicura il charisma veritatis [2], l’azione e il sacrificio di Cristo, sperimentati come presenti nel sacramento della Chiesa, diventano per i discepoli di Cristo il pharmacon immortalitatis [3] e con le figure dei suoi santi, uomini e donne, il mondo viene nuovamente percorso dall’incanto e dal mistero della personalità di Cristo.

Ma nella vita della Chiesa diventa anche evidente quanto il soprannaturale sia appesantito e pregiudicato dall’umano e dallo storico.

L’agganciamento della Chiesa al terrestre ha diverse cause, che derivano dal terreno dell’uomo e dallo storico e che possono essere inquadrate storicamente: la struttura storica e giuridica dell’ambiente, i fattori e lo spirito del tempo, la lotta così frequente fra il potere spirituale e politico, soprattutto la parte svolta dalla personalità umana che, come fattore storico di grandissima efficacia, è della massima importanza anche negli avvenimenti ecclesiali.

Poiché la Chiesa possiede, per il suo carattere soprannaturale, la promessa della sopravvivenza fino alla fine del mondo, essa rimane sempre la stessa Chiesa che Cristo ha fondato e che ora continua a dirigere nel mondo. Essendo però diretta e rappresentata dagli uomini, con le loro imperfezioni, mancanze e difetti, è soggetta ad un vero e proprio sviluppo, collegato necessariamente ad ogni creazione e fatto umano.

Ambedue le componenti della Chiesa, la pienezza infinita della sua natura e la mutabilità della sua storia, producono certamente nel corso dei tempi un mutamento nella sua fenomenologia, non però nella sua essenza.

Il fenomeno della Chiesa è infinitamente ricco, molto vario e mutevole, pur nella completa continuità della sua figura fondamentale [4].

Mio compito in queste sedute di studio dovrebbe essere di cogliere una figura di spicco, quale quella di Catherine Mectilde de Bar, in un momento storico ben preciso della Storia della Chiesa, e precisamente sul tema: Rapporto tra monastero e mondo alla luce degli scritti di Madre Mectilde de Bar.

È possibile riconoscere in qualche modo e cogliere storicamente il soprannaturale che è nella Chiesa?

L’evoluzione storica della Chiesa conduce a mutamenti che mettono in pericolo e in dubbio la sua natura? Possiamo invece capovolgere il discorso?

In Catherine Mectilde de Bar, come del resto in ogni figura carismatica che nella storia ha fatto parlare di sé, forze soprannaturali e umane si compenetrano e si completano. Nell’inquadrare e armonizzare queste medesime forze che dall’alto e dal basso si incrociano in un essere umano, l’oggetto della nostra riflessione consiste nel vagliare attentamente, per quanto è possibile, tutto il materiale (vita, scritti, lettere, documenti, cronache, ecc.) che non sempre appare ordinato. Da una visione di insieme emergono nuovi punti di vista al personaggio oggetto del nostro studio e quindi della nostra attenzione.

Comprendiamo come questi problemi siano importanti per un colloquio sulla storia, sulla spiritualità, sulla vita monastica di Madre Mectilde de Bar anche in rapporto al mondo esterno, al mondo di quel periodo storico della Chiesa.

Il cristianesimo non è affatto un mito astorico, ossia avulso dalla realtà del tempo e degli avvenimenti umani, ma è situato nella storia ed in essa assume realmente carne [5].

La redenzione e la comunicazione della salvezza, che costituiscono le funzioni essenziali del cristianesimo, sono un fatto e perciò sono storia.

Voi sapete che l’attualizzazione della grazia e della redenzione ad opera del sacrificio di Cristo è una funzione storica. Infatti, il valore salvifico trascorso si trasforma nell’azione sacramentale della Chiesa in salvezza presente, non nella rigida stabilità del fatto passato, ma nella dinamica dell’avvenimento e dell’esperienza attuale.

Catherine Mectilde de Bar rende dinamico l’avvenimento del valore salvifico della vita di Cristo nei suoi aspetti più profondi e significativi e ne fa una forte esperienza, esercitando allo stesso tempo una notevole influenza sugli avvenimenti del mondo.

Nella figura del Dio-uomo Gesù Cristo, il cristianesimo dà alla storia una personalità storica di primo piano. Tutta la storia del mondo viene incanalata nella storia della salvezza, e nell’attività salvifica di Cristo trova la propria spiegazione e il suo compimento.

Il cristianesimo spiega anche il demoniaco nel mondo, quel demoniaco che, provocando il deviamento dalle leggi della fede e la distruzione della moralità, ha provocato rovina e decadenza.

Ma il cristianesimo conosce anche il cammino ascendente verso un’elevazione e uno sviluppo dell’umanità, che facciano risplendere il divino nell’uomo e che restaurino i valori e le forme spirituali e culturali perenni, in un umile ordine e subordinazione alla sapienza e alla legge di Dio.

Noi, forse constatando l’apparente abbandono di Dio da parte del processo storico, non ci lasciamo trasportare dal pessimismo che dispera in un modo rassegnato del senso della storia, ma ci guardiamo dall’assolutizzare i fatti e le forme umane e impariamo a comprendere la storia stessa alla luce dei valori eterni e imperituri e a misurarla con il metro di Dio.

1. Il mondo come creazione e come Corpo di Cristo

Le riflessioni teologiche che qui propongo alla vostra riflessione costituiscono i presupposti della dottrina spirituale di Madre Mectilde de Bar. Mi limito qui a due aspetti:

a) La condizione creaturale e il senso di Dio.

b) Tutto il creato, che trova nell’essere razionale, l’uomo, di fronte al Creatore, si pone in atteggiamento di lode e di adorazione e, allo stesso tempo avverte il proprio nulla che, in linguaggio mectildiano, dedotto dall’insegnamento di san Paolo, chiamiamo annientamento.

Il peccato originale ha prodotto una grossa ferita mortale nell’ambito dell’universo, una vera e propria frattura la quale esige, a sua volta, un riparatore, un ricostruttore.

L’analisi della nostra condizione creaturale e di creatura decaduta, produce il desiderio mistico di una purificazione radicale ed essenziale.

Qui ci possiamo trovare nel vortice del mistero del bene e del male, del mondo buono e del mondo cattivo! Ed è precisamente nell’incontro-scontro tra mondo buono e mondo cattivo che troviamo Cristo nel mistero di redenzione e di salvezza.

Il concetto di mondo si muove sempre in un alone indeterminato tanto nell’uso della lingua sacra che in quello della lingua profana, e il fatto si spiega per l’ampiezza stessa dei campi che esso designa. Nel caso del nostro tema: Cristo e il mondo o anche: Chiesa e mondo, stanno ad indicare una realtà che si distingue da Dio o dalla Chiesa o anche ad essi si oppongono, ma che comunque a Dio e alla Chiesa è ordinato. Per mondo s’intende tutto ciò che Dio ha creato: uomini e cose. Più precisamente intendiamo quelle che oggi volentieri si chiamano realtà terrene, ossia le diverse organizzazioni comunitarie e sociali e, insieme i diversi campi della creazione materiale, come pure l’attività umana tanto nella comunità e nella società, come nell’elemento materiale, vale a dire il lavoro, la professione, l’economia, la tecnica, l’arte, la scienza, la cultura, ecc. Volendo poi di tutte queste realtà terrene averne una visione cristiana, dobbiamo sforzarci di inquadrarle in una dimensione che sia sotto la luce della Storia Sacra.

Nel Nuovo Testamento il mondo o cosmo sta ad indicare l’universo, in quanto implica creazione; ma poi significa anche la terra come luogo in cui abitano gli nomini e si svolge la loro storia, e infine indica anche semplicemente l’umanità. In questo senso la parola ricorre generalmente tanto nei sinottici che in san Paolo e in san Giovanni. Ma in san Paolo e in san Giovanni si incontra anche un altro concetto di cosmo. Il mondo creato da Dio appare in san Paolo come essenza ed espressione del male, come un mondo caduto nel peccato. In san Giovanni il cosmo assume quasi l’aspetto di una personificazione ed è l’avversario del Salvatore, una specie di «enorme persona collettiva», rappresentata dal «signore di tutto il cosmo». In realtà però anche qui non si tratta di un nuovo concetto, completamente diverso dai precedenti, ma soltanto di una precisazione, o, se si vuole, di una correzione molto importante nel senso della storia sacra, dei significati più sopra rilevati.

Nel Nuovo Testamento il cosmo è il mondo creato da Dio, ma che per il peccato è decaduto dall’ordine divino e sta ora sotto il giudizio di Dio. In questo mondo è entrato Cristo per poterlo riconciliare con Dio. Il mondo così riconciliato da Cristo non è più, per il Nuovo Testamento, il cosmo, perché – ripeto – questo è, secondo un’idea che deriva dalla filosofia pagana, il mondo creato da Dio, ma poi caduto nel peccato e nella morte. Il mondo invece, in quanto rinnovato da Cristo, viene designato con una terminologia che proviene dalla letteratura apocalittica dell’Antico Testamento, come «reggia del re, inizio del tempo».

Questo significato particolare dato al cosmo negli scritti paolini e giovannei (che conoscono però anche il senso corrente presso i sinottici), non rappresenta un’infiltrazione del pensiero ellenistico-gnostico.

Pur non potendo contestare concordanze verbali, mai nel Nuovo Testamento viene espresso o tacitamente presupposto un dualismo metafisico, e tanto san Paolo che san Giovanni volevano soltanto integrare, tenendo conto soprattutto del mistero del peccato, in senso soteriologico il concetto di cosmo, il cui contenuto rispecchiava già concetti della filosofia greca.

Ma siccome al seguito del nostro discorso non interessa tanto seguire il concetto di cosmo nel Nuovo Testamento, quanto piuttosto dare in sintesi la visione cristiana del mondo, è inevitabile che nella nostra considerazione entri anche il Mistero di Cristo. Cristo infatti non ha soltanto liberato il mondo dal disordine del peccato, ma è stato colui che finalmente gli ha dato la sua figura vera e propria, e quindi noi possiamo comprendere che cosa è il mondo, soltanto se partiamo dal suo compimento finale.

La prima essenziale caratteristica del mondo è il suo essere creato, per cui il mondo risulta creato da Dio e dipendente da Dio nel suo complesso e nel suo ordinamento, non solo al principio, ma in tutta la sua durata: il mondo è sempre «in statu nascendi». La dottrina della creazione mette il mondo ad immediato contatto con Dio e ce lo fa vedere come una diretta e sempre attuale espressione del suo amore creatore. Ogni creatura è infatti, in ogni istante della sua esistenza, portata e sostenuta da Dio. Poiché Dio sostiene e mantiene le creature in modo tale da dare ad esse la possibilità di esistere in una certa misura in se stesse, ne segue una specie di autonomia delle creature da Dio. Ed è stata appunto questa autonomia che sovente ha sviato l’uomo nella comprensione di se stesso e del mondo.

Ma la dottrina della creazione ci dice ancora che tutto quello che esce dalle mani di Dio, ossia anche il mondo e il corpo e non solo lo spirito, è buono, per la semplice ragione che tutto è stato fatto per mezzo della Parola, e quindi non può essere non buono, non spirituale, senza luce. La fede della creazione trova però il suo culmine nella dottrina del rapporto che lega tutto il creato a Cristo. La Parola della creazione ha, fin dal primo momento, come scopo, l’Incarnazione della Parola, fine vero e proprio del disegno creatore divino nel mondo. Dio dunque non ha incluso fin dal principio, nel suo mondo, tutte le forze e le leggi solo in tale maniera, che esse, in forza di un dinamismo evolutivo insito in loro e nello spirito umano, si potessero ulteriormente sviluppare; ma ha messo nella sua creazione una dinamica di tutt’altro genere, ossia una intenzionalità finalistica soteriologica. E cioè: creazione e salvezza non sono due ordini, semplicemente affiancati tra loro, e che solo posteriormente (vale a dire in seguito al fatto storico della liberazione dal peccato) dovessero essere ordinati l’uno all’altro. Al contrario ambedue gli ordini sono stati concepiti dalla mente creatrice allo stesso momento, ossia in un unico disegno creatore del mondo. Conseguentemente l’uomo non è soltanto uomo e le cose non sono soltanto cose, e ognuno che entri come uomo nel mondo, deve, lo sappia o meno, lo voglia o no, entrare a far parte di questo dinamismo che spinge la creazione verso Cristo, senza potersene tirare fuori. La stessa comunità, nella quale egli naturalmente vive, è già di per sé in «statu viae» alla comunione con Cristo nella Chiesa.

Creazione non significa affatto che la creatura, ontologicamente considerata, esista in se stessa; essa è fatta, fin dal principio, per trovare soteriologicamente il suo compimento nel Mistero di Cristo, anche se in quanto «creazione» non dice ancora reale partecipazione a questo Mistero. È  infatti solo ordinata ad esso.

Sappiamo però che l’ordine della creazione non è rimasto inviolato, ma che è stato profondamente corrotto dal peccato dell’uomo, peccato [6] che ha fatto sentire le sue conseguenze anche nel campo sociale e cosmico, ossia nel mondo. San Paolo caratterizza questo influsso del peccato come «stoltezza e vanità», due espressioni, che non si riferiscono soltanto ad una corruzione morale, causata dal cattivo uso che l’uomo può fare della creazione, una corruzione fisica, ossia ad un reale incattivimento che si fece sentire dopo la maledizione che Dio diede alle cose materiali e sotto il quale l’umanità si sente oppressa come da una schiavitù. La si spieghi come una parziale perdita di trasparenza della creatura, come una sua resistenza alla volontà di dominio dell’uomo, come una disponibilità ad essere abusata dal demonio: sta comunque il fatto che l’uomo sperimenta questa corruzione in maniere sempre nuove, dando così, con la stessa propria esperienza, un contenuto alle espressioni bibliche.

La Lettera agli Efesini descrive il mondo come un «fenomeno di potenze incombenti», per cui potenze spirituali cattive, riunite sotto un «dominio» personale [7], sono all’opera. Queste potenze del male trovano una loro rappresentanza nell’uomo per mezzo della carne [8]. Il cosmo quindi è cattivo in quanto è soggetto a queste influenze diaboliche.

Un aspetto ancora più oscuro ha il mondo presso san Giovanni, secondo il quale il mondo è nemico di Dio, corrotto dal peccato e destinato alla rovina. Il «principe di questo mondo» esercita una sovranità [9] sul mondo che è il suo dominio. Ma anche san Giovanni non dice mai che il mondo in se stesso, in quanto tale, sia cattivo. Esso è cattivo per quello che succede in esso, per le cattive tendenze degli uomini che in esso si esplicano numerosamente e che sono la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la concupiscenza del fasto sfrontato, causata dalla ricchezza [10]. Anche qui dunque non appare un dualismo metafisico, ma soltanto morale. Comunque da questo modo di considerare la realtà consegue che il cristiano non può aver nulla a che fare con «questo mondo», che egli al contrario deve fuggire [11], per non lasciarsi da esso inquinare [12].

Non c’è dunque da stupirsi se il cristiano sarà a sua volta perseguitato dall’odio di questo mondo [13], come del resto è accaduto al suo Signore [14].

In quanto dunque il cosmo è la concreta espressione del peccato e della inimicizia di Dio, la comunità dei redenti non fa parte di esso, non appartiene al mondo, ma è stata trasferita nella Basileia (Regno di Dio) [15], e ha il dovere di resistere allo «spirito di questo mondo», perché esso costituisce il grande impedimento per qualunque sviluppo della vita cristiana [16].

Pur essendo vero che la Bibbia insiste nel fatto che noi siamo tutti in generale dei peccatori e che il mondo è nel male, dice anche e in modo forte, che l’uomo e il mondo non sono in tutto e per tutto corrotti, che Dio anche dopo il peccato non ha abbandonato l’uomo, e che nel frattempo l’uomo e il mondo sono stati – a  dispetto di tutta la miseria umana – riportati «in maniera ancora più meravigliosa» alla comunione con Dio. E questo – e  non altro – è  il «principio basilare della rivelazione biblica».

Le espressioni bibliche che ci presentano il cosmo come mondo peccatore, risuonano di concordanze verbali con le dottrine stoiche e gnostiche, ma la storia della spiritualità cristiana, ci ricorda J. Daniélou nel suo studio: Il mistero della storia, sta lì a dimostrarci che non si è trattato sempre e solo di concordanze verbali. Si troverebbe certamente in contrasto con il messaggio biblico, ci ricorda ancora il Daniélou, chi credesse, con ingenuo ottimismo, che il male e il peccato nel mondo siano semplici disordini o una specie di naturali crisi di sviluppo, che si elimineranno poi da se stessi, ristabilendo l’ordine manomesso. È un ottimismo questo, che si ripresenta periodicamente sotto vecchie o nuove forme, e che in fondo misconosce la vera realtà del male e altro non è che il «peggiore nemico della vera speranza cristiana».

Ma esiste anche un pessimismo poco illuminato e comunque non cristiano, il quale sembra che voglia dedicare solo al mistero del peccato tutta la sua capacità di fede, senza che di questa gliene rimanga un briciolo per i misteri della creazione e della redenzione. Ed è un pessimismo che è tanto più pericoloso, in quanto gli può riuscir fatto di presentarsi nelle vesti di un intenso spiritualismo, in nome del quale imporre all’uomo, che cerca Dio, esigenze di un ascetismo radicale che induce a rifiutare ogni forma concreta e reale della vita umana e sociale. Basta scorrere la letteratura sul tema «De conceptu mundi», che partendo da sant’Ambrogio si allarga, come un grande fiume, su tutto il medioevo e arriva fino all’umanesimo, per rendersi conto come questi motivi abbiano fortemente influito sui diversi campi della vita cristiana. In proposito le parole di 1Gv 2, 15-17, tolte fuori dal contesto di un concetto di «mondo» molto più vasto, quale risulta da san Giovanni stesso e da tutto il Nuovo Testamento, hanno fruito purtroppo di un’autorità quasi canonica per dare con esse, abusandone, una presentazione unilaterale dell’aspetto negativo della storia della salvezza, aspetto portato avanti con un procedimento teologico non giustificato e a tutto danno dell’azione redentrice divina. E anche quando nel far questo si è tenuto ancora conto in qualche modo della creazione, il Mistero di Cristo, con tutta l’importanza che esso ha per la comprensione del mondo, è rimasto completamente in ombra. E cosi, proprio la nota più caratteristica del messaggio biblico, quella cioè che ci dice come il mondo, anche decaduto, resta sempre opera di Dio, e che il suo amore si è reso visibile e operante nella realtà di una persona divina, il Verbo, in questo abisso di perdizione, non ha avuto quasi alcun riconoscimento e di conseguenza non è stato abbastanza valorizzato spiritualmente. Anzi, in questo modo neppure l’universale bisogno di salvezza, che anche nelle situazioni migliori dell’esistenza umana viene dolorosamente avvertito, è stato sufficientemente rilevato in funzione di un fruttuoso richiamo a quella redenzione della quale siamo in attesa, ma che in germe già ci è stata data. Per mezzo dell’Incarnazione tutta l’umanità e il cosmo intero sono stati uniti a Cristo, come Corpo al Capo, cosicché l’Uomo-Dio porta in se stesso tutto il creato, ossia tutto il mondo, liberato per suo mezzo dal dominio delle potenze maligne e messo a parte della gloria dell’amore divino.

Tutto questo concetto è condensato ed espresso nell’idea del «restaurare tutte le cose in Cristo», che implica: la sottomissione delle potenze, la restaurazione della  primitiva unità universale condotta a Dio nell’unità del regno di Cristo.

Il mondo non è più dunque «natura pura» (e del resto mai lo fu in senso pieno, perché  fin dal principio ordinato a Cristo), né  sta più sotto il segno dell’ira divina, ma al contrario è entrato nella pace e nell’amore di Dio.

Il  mondo ha ricevuto un nuovo centro, o per dir meglio, quel centro che possedeva fin dal principio, ma che va nascosto, ora si è manifestato e si è reso visibile. Cosicché il mondo non ha perduto ma aumentato di valore, trasformandosi sulla base di quella dimensione nuova, creata dall’Ascensione del Signore e dall’avvento dello Spirito.

Sappiamo come il Mistero di Cristo sia presente nella Chiesa e come questo lo faccia avanzare e crescere attraverso il tempo. La Chiesa è pertanto già la «nuova comunità», «rifugio e insieme seno materno del nuovo mondo», poiché quello che in Cristo si è realizzato come nel principio e nel prototipo, si va ora realizzando nella Chiesa. È nella Chiesa che il cosmo si sviluppa in Cristo, ed essa è il modo con il quale Cristo lo attira a sé. È  nella Chiesa che appare chiaramente l’unitarietà e la gradualità di realizzazione del piano creatore divino. L’attuazione massima della creazione consiste nell’essere Dio stesso, personalmente, entrato in essa.

Senza, dunque, il Mistero di Cristo, a noi sfugge il senso del mondo; se dovessimo astrarre da quello, non potremmo mai sapere quello che Dio veramente abbia inteso creando il mondo. E di qui si deduce nuovamente che la creazione è essenzialmente ordinata alla redenzione e che in essa deve essere unita una intenzionalità dinamica verso l’Incarnazione della Parola, del Verbo. Se così non fosse, l’unione dei due ordini sarebbe soltanto esterna e sarebbe per l’uomo inconcepibile il loro reale reciproco compimento nella parusia. Se invece nell’ordine della creazione noi vediamo «il corpo potenziale della redenzione», allora è evidente che anche la creazione raggiunge la sua piena attuazione soltanto con la pienezza della redenzione. Del resto soltanto nel presupposto di una simile visione di universale unità nel piano creatore divino, sono pensabili la Chiesa e i Sacramenti, perché solo allora si comprende come il simbolismo naturale della società umana può trasformarsi nel Sacramento-Chiesa, e come le cose materiali di questo mondo, quali: l’acqua, il vino, l’olio, il pane, oppure la fraternità di una cena o la vita comunitaria o l’unione di un amore umano possono acquistare la dignità di segni nel mondo sacramentale.

Ma nonostante tutto questo, il mondo resta, finché dura la storia, in quella luce ambigua, della quale fin dal tempo di Paolo (1 Cor 7, 29-31; 2 Cor 6,4-10), la Chiesa non può parlare che in forma di dialettica. Quello stesso mondo, nel quale noi riconosciamo la creazione buona di Dio e il potenziale «Corpo del Signore», è e rimane, finché dura la storia, ancora sotto la potenza del male, e si ha perfino l’impressione che il primo dei due aspetti corra sempre il rischio di essere sopraffatto dal secondo.

In realtà nella pietà cristiana 1’eresia ottimista, che tanto si adatta a persone ingenuamente armoniche e prive di problemi, ha esercitato minore influenza dell’eresia dualistico-pessimista, e non sono coloro i quali, sentendosi introversi, chiusi nel proprio io, in posizione di negatività e di incapacità di fronte al mondo, credono di potersi richiamare a più di un passo della Sacra Scrittura, ma soprattutto tornano con insistenza su tutte quelle esperienze umane nelle quali il corpo e la materia si presentano come un incubo, minaccioso e demoniaco. Costoro sono sempre d’accordo, quando, pur non ponendo le realtà terrene nella categoria di un dualismo metafisico, esse vengono, per motivi pedagogici e ascetici, fortemente svalorizzate; quando sentono dichiarare come principio di ogni comportamento cristiano la «notte oscura» di san Giovanni della Croce, mentre si nega che l’«omne ens est bonum» della Sacra Scrittura e di san Tommaso d’Aquino possa costituire un principio di spiritualità cristiana.

Il realismo cattolico invece vede ambedue gli aspetti del mondo: lo vede come creazione di Dio e come potenziale Corpo del Signore e lo vede anche come campo in cui si esercita il potere del male. Naturalmente il realismo cattolico non si nasconde le tendenze demoniache che sono nel mondo, e le scopre anche nei vitelli d’oro del giorno d’oggi, nella scienza, nel progresso, nella tecnica, nella razza, nel partito, nella classe, nel benessere, ecc.; ma d’altra parte non può non vedere che vi sono uomini che veramente servono al Regno di Dio, come pure che ve ne sono altri – anche quando non conoscono o non accettano, senza colpa, Cristo – i quali cercano la giustizia e in questo modo danno gloria e testimoniano la sovranità di Cristo.

Comunque anche queste tendenze, in se stesse positive, si muovono in una luce incerta, tra il bene e il male, ma nel loro complesso si agitano profondamente in una ricerca di salvezza e di integrità, di universale unione e pace, e in questo modo servono il Regno di Dio.

2. Cristologia e Soteriologia in Mectilde de Bar e i problemi del mondo

 

Al centro di tutta la spiritualità di Madre Mectilde del SS. Sacramento noi troviamo una cristologia nella quale ha la prevalenza la dimensione soteriologica. Le sue componenti essenziali appartengono a tutta la tradizione [17]. Non viene comunque trascurato l’aspetto glorioso del Mistero di Cristo, della vita del Verbo Incarnato, come ad esempio, alcune considerazioni sull’Ascensione, e tutto questo fa pensare a ciò che scrive al riguardo un san Bernardo o un dom Marmion.

Tuttavia, come ancora ci ricorda Padre Jean Leclercq, vi sono aspetti di questa spiritualità che appaiono più difficili da accettare, soprattutto tutto quello che è avvenuto con il Concilio Vaticano II, e, peggio ancora, quello che è accaduto dopo, nel laborioso ma anche travagliato periodo postconciliare.

Si tratta in particolare del valore della sofferenza, dell’idea di riparazione, della condizione di vittima.

Cerchiamo di approfondire alcuni di questi concetti che strutturano e arricchiscono la cristologia nell’ottica della spiritualità monastica di M. Mectilde nel contesto del suo periodo storico, ma che rispondono anche alle esigenze della vita cristiana del nostro tempo.

a) Il paradosso della sofferenza

La sofferenza di Cristo fonda il senso della sofferenza cristiana e comporta quindi tutta una teologia e una spiritualità. Argomento grave, su cui preferiremmo lasciare la parola a coloro che ne hanno maggiore esperienza. C’è un grosso rischio al quale dobbiamo prestare attenzione, è un rischio doppio: o nella sofferenza vediamo solo un male definitivamente opaco, oppure sacralizzarla.

L’atteggiamento cristiano al riguardo della sofferenza è paradossale: esso non la nega con aria di superiorità alla maniera dello stoicismo pagano, non vi si rassegna né la desidera con un masochismo malsano, però l’accoglie in quello che essa ha di ineluttabile, pur combattendola, e cerca di darle un senso positivo, alla luce della croce di Cristo. La investe con la forza dell’amore e la converte in «combustibile» della carità, al fine di conferirle un valore salvifico, come ci ricorda Papa Giovanni Paolo II nella Salvifici doloris: Lettera apostolica sul senso cristiano della sofferenza (11.2.1984).

La sofferenza in quanto sofferenza è e rimane un male, in sé non ha alcun valore positivo. Essa è uno scandalo capace di provocare la rivolta, uno scandalo a proposito del quale qualsiasi tentativo di spiegazione non metterà mai fine all’incessante emergenza dei perché. L’uomo è posto di fronte alle innumerevoli sofferenze che gli vengono dal suo rapporto con la natura: sofferenza fisica e morale, prove e disgrazie, angoscia della morte. Sofferenza proveniente dagli uomini, da se stesso o dagli altri, depressioni, violenze subite, guerre, persecuzioni, torture, campi di concentramento, di sterminio.

Si domanda lo Scheler perché la civiltà crea necessariamente un maggior numero di sofferenze e sofferenze più profonde di quante non ne attenui con la sua lotta sempre più estesa e sempre più vittoriosa contro le cause della sofferenza? [18] Inoltre, perché questa massa incomprensibile di sofferenze, in cui la responsabilità dell’uomo non ha alcuna parte? Perché la sofferenza colpisce alla cieca innocenti e colpevoli? È l’antica questione di Giobbe, che rifiutava la spiegazione troppo facile della sofferenza come punizione dei peccati personali.

Sembra che non sia possibile sfuggire all’affermazione biblica secondo la quale, con l’intervento della libertà originaria dell’uomo, qualche cosa si è rotto nell’uomo e fra l’uomo e la natura, l’affermazione cioè che il nostro rapporto con il mondo non è più quello stabilito in origine da Dio nell’ordine di una creazione ove tutto era buono. Ma una tale risposta, oltre che apparire misteriosa, sarebbe scoraggiante, se non fosse il rovescio di un annuncio di salvezza. Checché ne sia, il problema si riaffaccia. Di fronte ad una simile situazione gravida di sofferenze si cerca sempre un colpevole: la tradizione voleva in primo luogo giustificare Dio; l’atteggiamento contemporaneo cerca di giustificare l’uomo.

Comunque stiano le cose, l’uomo deve combattere la sofferenza con tutti i mezzi di cui dispone. Tale è l’insegnamento più comune che il Vangelo ci dà con la regola d’oro, il comandamento dell’amore del prossimo, la parabola del buon samaritano [19] e la scena del giudizio [20], che esalta la sollecitudine di fronte a qualsiasi sofferenza, fisica o morale, dei più piccoli. Tale è l’atteggiamento di Gesù, che guarisce i malati e restituisce figli morti ai loro genitori.

Nel medesimo spirito la Chiesa ha sempre lottato contro la sofferenza causata dalle malattie. Oggi essa approva i progressi della medicina, che possono sollevare sia le sofferenze legate alla nascita, sia quelle legate alla morte [21].

La stessa cosa si dica delle sofferenze legate ad una penuria estrema, al sottosviluppo culturale, alle ingiustizie e alla violenza.

Ma qui vorrei aggiungere un’altra riflessione, e cioè: la sofferenza è una questione che si pone alla nostra libertà, ossia: di fronte alla sofferenza la nostra libertà è chiamata a prendere posizione, ed essa lo farà bene o male. Tocca a noi in definitiva dare un senso o un non senso alla sofferenza che ci è imposta. E quanto ho detto dimostra che qui non vi è alcunché di automatico.

Innumerevoli sono del resto i modi di soffrire, che fanno parte integrante della stessa sofferenza. A questo proposito ci dice molto bene lo Scheler nel libro sopracitato: Possiamo arrenderci ad una sofferenza o opporle resistenza; possiamo sopportarla, tollerarla o molto semplicemente soffrirla; possiamo addirittura goderne.

Triste pure tutta una gerarchia di reazioni che vanno dalla sensibilità fisica elementare all’atteggiamento umano e spirituale dalle sfumature infinite. E come diceva felicemente M. Blondel nel suo libro «L’Action» (1893), la sofferenza non può operare in noi effetti felici senza il nostro concorso attivo. Dipende da noi cambiare lo scandalo della sofferenza in mistero, conferirle un valore educativo ed anche salvifico. Una cosa è infatti certa: chi ha saputo attraversare la sofferenza non è più se stesso.

Ma chi darà alla nostra libertà la forza di questa conversione?

La croce di Cristo è in realtà la sola risposta definitiva alla sofferenza. La sofferenza non è né un discorso, né una teoria, e meno ancora una giustificazione o un’apologia. Essa è un evento: l’incontro di Dio stesso, del Verbo fatto carne, con la sofferenza. È un atto di libertà divina che tiene insieme i due volti della sofferenza: il suo orrore e la sua bellezza. Il suo orrore, perchè si tratta della sofferenza del giusto e dell’innocente; ma anche la sua bellezza, perché il modo di soffrire di Gesù è già una trasfigurazione e una vittoria. Gesù ama soffrendo e soffre amando. Vive così la sofferenza secondo i due movimenti della sua mediazione. Il suo amore filiale per il Padre e fraterno per gli uomini l’ha condotto alla kenosi (all’annientamento) dell’incarnazione e della croce e gli ha fatto assumere liberamente la nostra condizione sofferente. Ha voluto rendersi solidale con ogni sofferenza umana, innocente o conseguenza del peccato, nonché condividere l’esperienza dello sconforto e dell’oscurità, del non senso e dello scandalo della sofferenza. Infatti per quanto egli ha sofferto, essendo egli stesso provato, è capace di soccorrere quelli che sono provati [22]. Tale è la sua risposta, racchiusa in un atto di dono di sé che è una parola esistenziale.

Dall’arco teso fra l’amore e la kenosi (annientamento) sgorga la rivelazione della sua gloria, cioè dell’ordine della bellezza che è specifico di Dio. In Gesù la sofferente è diventata la faccenda di Dio [23].

Ora, se l’amore conduce Gesù nel cuore della sofferenza umana, il suo modo di soffrire converte a sua volta la sofferenza in amore e in alimento dell’amore. Attraverso la sofferenza il suo amore si spinge fino al limite di sé.

Non è però la sua sofferenza in quanto tale a salvarci, bensì l’amore con cui egli l’accetta, la vive e la supera. La sofferenza di Gesù non giustifica né sacralizza la sofferenza, così come non ne fa un bene, ma ne elimina la perversità per trarne un bene.

In Gesù la sofferenza non è né desiderio malsano né prodezza trionfante, ma un’accettazione umile e obbediente, senza lamenti né recriminazioni; è preghiera in mezzo all’abbandono più profondo, è perdono per i carnefici, è intercessione e propiziazione. Perciò, dopo la croce, il termine stesso di sofferenza cambia di senso nel linguaggio cristiano. Per una metonimia, di cui bisogna rimanere consapevoli, essa indica ora l’amore sofferente, l’amore manifestato da Cristo sofferente e l’amore che vuole essere col Cristo sofferente. Tale è il pathos della croce inaugurato da Paolo, che desidera entrare in comunione con le sofferenze di Cristo e divenirgli simile nella morte [24].

I Vangeli mettono sulle labbra di Gesù l’invito a seguirlo anche nella sofferenza [25]. Questo appello non è incentrato sulla sofferenza, ma sulla sequela di Gesù. Però in questo mondo nessuno può seguire Gesù veramente, senza partecipare alle sue sofferenze. Paolo fa suo il desiderio di essere con Cristo, di partecipare a quelle che furono le sue sofferenze [26]. Paolo rivive in effetti ciò che Cristo ha vissuto: il compimento del suo mistero e la giustizia della sua esistenza provocano la contraddizione e lo conducono, attraverso una vita di sofferenze e di debolezze, ad una morte simile a quella di Cristo.

Naturalmente l’ingresso nell’amore di Cristo e la partecipazione amante alle sue sofferenze, sono doni della grazia, che ci permettono di cambiare il senso di tutti gli aspetti della nostra condizione umana.

Una cosa tuttavia ci separa dalla sofferenza di Cristo. Egli era senza peccato e noi siamo peccatori. La sua sofferenza proveniva dal peccato degli altri, mentre la nostra ci colpisce anche a motivo del nostro peccato. La sofferenza non aveva alcuna cosa da purificare in lui, mentre in noi opera la purificazione del nostro amore. La lotta contro il peccato passa anche attraverso la sofferenza. Qui trovano il loro posto l’ascesi e certe mortificazioni o addirittura macerazioni attestate dalla tradizione spirituale. L’asceta mortifica le sue membra un tempo peccatrici e cerca di mantenere l’equilibrio sempre minacciato del suo essere totale e di conservare il primato della libertà spirituale sulle pulsioni o forze istintive inferiori.

Dobbiamo però ripetere che il grado o la quantità delle sofferenze o delle privazioni non sono la cosa importante. Per questo ci vuole la massima discrezione in questa materia. Gli asceti del tempo passato (basterebbe rileggere i Detti dei Padri del deserto), conoscevano la tentazione dell’orgoglio spirituale che accompagnava una penitenza vissuta come un record sportivo: gli asceti dei tempi moderni sono piuttosto insidiati dalla tentazione del masochismo. In definitiva solo l’amore conta, l’amore che insegna a discernere le cose senza illusioni, l’amore il cui segno è la pace e anche la gioia.

Nelle sofferenze di Gesù la nostra epoca non considera tanto il suo aspetto riparatore ed espiatorio che va dall’uomo a Dio, quanto piuttosto la compassione con cui Dio viene verso l’uomo, per assumere su di sé tutto il peso della sua sofferenza.

Scrive W. Kasper: La ricerca di un Dio per coloro che soffrono è, nel vero senso dell’espressione, la ricerca della «com-passione divina», della identificazione di Dio con la sofferenza e l’agonia dell’uomo... La questione di Dio, quando è posta in modo concreto di fronte al male e alla sofferenza, può quindi trovare solo una risposta cristologica... nella theologia crucis [27].

Già Bonhoeffer scriveva: Se per il secolo XIX la sofferenza è stata il “baluardo dell’ateismo”, nel nostro secolo nulla attira di più la nostra attenzione su Dio delle sue disfatte nel mondo. Il fatto che Dio nel mondo sia stato offeso e suppliziato, espulso e gassato, ecco la roccia della fede cristiana... Quanto i cristiani hanno in comune è la “partecipazione alla sofferenza di Dio in Gesù Cristo” [28].

Certamente Dio non ha bisogno della nostra espiazione, ma noi abbiamo bisogno di riparare se abbiamo per lui un amore autentico. Direi che in tutto il processo dell’espiazione non si tratta dei rapporti di Dio con noi, cioè del suo amore sempre immutabile, ma dei nostri rapporti con Dio.

Sul discorso della espiazione ricordiamo ciò che ci dice sant’Ireneo a proposito del sacrificio: Dio non ne ha bisogno; egli non esige alcuna compensazione del peso del peccato con un peso di sofferenza; l’espiazione non è al servizio di una giustizia commutativa o vendicativa. E tuttavia essa, nel suo senso convertito, è necessaria: essa non è per Dio, ma per l’uomo. Non è un preliminare al perdono di Dio; al contrario, è fondata sulla sua volontà di perdonare. Cerca di rispondergli e corrispondergli, affinché il perdono sia effettivamente possibile. È quindi rivolta verso Dio e ordinata alla riconciliazione. Si tratta in modo concreto ed esistenziale della conversione. È intercessione e distacco sofferente da tutta quella parte del peccato che ci è inerente. Non è un castigo arbitrariamente voluto da Dio, ma la conseguenza del male che le nostre mancanze hanno fatto a noi stessi. È volontà di riparazione. Ma su questo sfondo, che nessun peccatore può dimenticare, può infine e soprattutto diventare partecipazione all’espiazione amorosa di Cristo per la salvezza del mondo.

L’espiazione personale di Cristo è paradossale, poiché è l’espiazione dell’Innocente che trasforma in intercessione, propiziazione ed espiazione penitenziale il peccato degli altri che si abbatte su di lui. In Gesù l’uomo si volge verso il Padre e dona ad ogni uomo la possibilità di operare questa svolta, cioè questa conversione. Ognuno riceve la possibilità d’intercedere e di pregare, ma anche di mettere tutta la sofferenza al servizio dell’amore e di conferirle una fecondità riparatrice.

L’espiazione ci dice che la riconciliazione richiede da parte nostra un lavoro, una fatica sofferente sopportata faccia a faccia con noi stessi in virtù di Cristo. E ci rende capaci di associarci, attraverso tutto quello che viviamo, alla intercessione esistenziale di Cristo per la nostra salvezza. Inseriti in questa mediazione, attraverso un graduale processo di conversione, di sofferenza e di espiazione, noi arriviamo all’annientamento, il quale non è altro che una morte mistica; si tratta di un’operazione che distrugge l’uomo corrotto dal peccato che è in noi e fa prendere una nuova vita in Cristo Gesù, come dice san Paolo [29].

Per ben comprendere ciò che Madre Mectilde intende per annientamento, bisogna, anche se brevemente, conoscere la dottrina di Bérulle in proposito [30]. Questa dottrina è abitualmente sottintesa in tutta l’opera mectildiana. Affiora di frequente e serve come di base a tutto il pensiero di Condren, san Giovanni Eudes e Bernières, di cui Madre Mectilde farà una sintesi del tutto personale.

Prima di tutto abbiamo la «condizione creaturale e il senso di Dio». La creatura, uscita da Dio, ricevendo tutto da lui, e tornando a lui come al suo fine, si può definire come una viva relazione di dipendenza e di referenza al suo Creatore. Riconoscere questa dipendenza è riconoscere il nulla del proprio essere. Siamo alla radice dell’umiltà, il contrario del peccato che volle riposare nel proprio essere senza riferirsi a Dio. Siamo alla base dell’adorazione. Accettare questa dipendenza e compiacenza per la fede nella paternità di Dio, è trasformare l’insicurezza della nostra indigenza nell’incrollabile pienezza del rendimento di grazie. Occorre dunque ratificare la nostra condizione di creatura, consacrarci a Dio, ma liberamente e per amore. Tutto il senso della nostra creazione sta nel rimetterci su questo ritorno personale in lui. Di conseguenza noi non abbiamo altra ragione di esistere se non per lasciarci portare dal moto personale con cui la sua mano onnipotente ci attira a sé. Tutta la nostra vita dovrebbe coincidere con questo movimento di referenza a Dio inscritto nel più profondo del nostro essere. Allora tutta la nostra adorazione, il nostro amore, la nostra libertà non saranno più una sequela di atti, ma diverranno una durata, uno stato. Perciò il nostro compito è quello di tendere a trasformare i nostri atti in una disposizione permanente, per divenire, seppur gradualmente, puro sguardo di Dio, atto puro di adorazione e d’amore. Siamo nella graduale consumazione soprannaturale della nostra vocazione essenziale.

Madre Mectilde ci parla di annientamento. Ma perché parliamo di annientamento? Perché in precedenza c’è stato il peccato. È successo che invece di voler dipendere da Dio, abbiamo voluto far consistere in noi stessi il nostro essere creato. Invece di aprirci come d’istinto al richiamo della grazia, ci siamo trovati appesantiti dal nostro io, ci siamo ripiegati su noi stessi. Si tratta di una vera e propria deformazione del nostro essere personale, di un modo falsato della nostra vera persona.

Il male però è profondo, e, nonostante i nostri sforzi e i nostri propositi, l’ostacolo rinasce continuamente sul cammino del nostro ritorno a Dio. Occorre che Lui stesso adoperi la sua onnipotenza per riferirci. Ci troviamo qui nelle purificazioni mistiche. Ed è qui che Madre Mectilde si ispira a san Giovanni della Croce e alla sua via del nulla, dove si ritrova il puro abbandono, la fede pura, l’amore puro. È la via dell’ubbidienza e dell’umiltà secondo san Benedetto, sempre alla luce di Filippesi 2, 6 ss, la via in cui tutto è annientato, cioè perfettamente sottomesso.

In fondo, come leggiamo nel «Vero Spirito» al capitolo 12, si tratta della nostra morte mistica descritta sotto l’immagine del chicco di grano del Vangelo [31]. In fondo a questa morte c’è un germe di vita, il quale non è altro che Gesù Cristo stesso... come vita e centro di vita [32].

L’analisi della nostra condizione creaturale e di creatura decaduta produce il desiderio mistico di una purificazione essenziale, e questa purificazione è stata realizzata da Dio stesso nel mistero dell’Incarnazione in un modo tanto meraviglioso che la creatura peccatrice non solo è stata riparata, ma edificata al di là di tutto quello che poteva sperare. La sostanza stessa del mistero dell’Incarnazione, del resto, è come un annientamento della potenza e della grandezza divina, poiché il Verbo, senza cessare di essere Dio, si è fatto creatura, e la creatura è come un niente davanti a Dio [33].

L’Incarnazione è il mistero di un ineffabile bacio mistico tra la divinità e l’umanità del Figlio unico di Dio [34].

La natura che il Verbo assume nel seno della Vergine Maria, senza cessare di essere umana, è tratta fuori di sé per sussistere unicamente nella sua persona. E il Bérulle ci dice che questa estasi ipostatica eleva tale umanità fino al trono stesso della divinità e la stabilisce in eterno in uno stato di filiazione non adottiva ma propria e naturale.

Ora, dal fatto che la creatura si definisce per la sua relazione nei riguardi del Creatore, si intuisce che il peccato, negazione di questa relazione essenziale, disgrega fin nelle sue ultime profondità il nostro essere creato. Dopo il peccato, ecco la nostra drammatica situazione: abbiamo perduto la nostra unità interna e la consistenza ontologica del nostro essere creato. Riacquistiamo il nostro essere creato, scompaginato dal peccato, solo se è incorporato a Cristo, come parte di lui.

Principio della nostra nascita o vocazione, è il mistero dell’Incarnazione, come il seno del Padre e la sua fecondità è il luogo donde procedono le tre Persone divine. Entriamo qui sulla soglia della dottrina del Corpo Mistico, in quanto Cristo, il Figlio di Dio, Verbo incarnato, ha su di noi una continua influenza di essere, di vita e di grazia.

Nella grazia che deriva da questa adorabile Incarnazione come viva sorgente, noi dovremmo avvertire una specie di annientamento in noi stessi e uno stabilirci in Gesù. Questo trapianto teologico ci incorpora all’Umanità deificata e ci eleva alla filiazione adottiva [35].

Questa grazia di incorporazione è un annientamento soprannaturale che raggiunge il fondo del nostro essere, e quindi è operato da Dio stesso nel battesimo. A noi resta di ratificarlo e di chiederne la consumazione.

Abbiamo detto che la nostra incorporazione a Cristo ci fa sussistere nell’Umanità deificata di Gesù e quindi, precisamente, in quell’adorazione e in quell’amore infinito, che diventano il dinamismo essenziale al nostro essere cristiano. Gesù è lui stesso la religione della sua Chiesa. E noi non possiamo trovare l’unità mistica del suo essere se non coincidendo con lo sguardo stesso del Verbo incarnato rivolto al Padre. In questa comunione a Gesù, più nostro di noi stessi, consiste la vita annientata che ci insegna Madre Mectilde. E quando questa comunione diviene uno stato, tanto più partecipiamo alla sua adorazione e al suo amore infinito. Madre Mectilde aggiungerà: entriamo nel suo sacrificio, nella sua vita eucaristica. Ci uniamo cioè allo stato permanente di Cristo Sacerdote e Vittima, del perfetto Adoratore del Padre, di Colui che ha detto: Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo [36]. Il che significa totalizzare il mistero di Cristo nella sua dimensione umana e divina, con l’espressione più volte usata da Bérulle: il dono di Dio agli uomini.

Al Padre è piaciuto dare a questo preciso pianeta che è la terra e ai suoi abitanti, il suo Figlio che è il suo Verbo e la sua Parola, che è pure il colloquio suo proprio e la sua occupazione eterna. E noi parliamo a Dio il suo proprio linguaggio e idioma, e ci intratteniamo con lui della sua stessa occupazione e del colloquio che gli è proprio.

Molte cose sarebbero ancora da dire, ma noi ci limitiamo ad elevare a Dio il nostro grazie, ad adorarlo, a lodarlo, a benedirlo.

Ci aiuti e ci incoraggi la nostra carissima Madre Mectilde.

Conclusione

La Scuola francese di Spiritualità del secolo XVII ci ha regalato senza dubbio insigni maestri che possiamo considerare veri mistici. Tra questi gioielli, preziosi per santità, scienza teologica e spirituale, va inserita Madre Mectilde de Bar.

Noi siamo lontani dalla loro esperienza radicale di Dio e del nostro niente. Ma è importante ascoltare la loro testimonianza.

C’è un messaggio di fondo che scaturisce da Madre Mectilde e che nel suo lungo itinerario incrocia le strade del mondo, ed è forse il messaggio centrale della scuola francese: è solo in Gesù che il mondo viene riconciliato e ricreato. Il fine è la comunione totale con Gesù, ma la via è l’annientamento di se stessi.

Vale proprio la pena andare alla riscoperta di questi gioielli e di questi valori, non solo per autenticarne la veridicità storica e spirituale, ma anche per riconoscere in spirito di umiltà e di verità che cosa veramente siamo noi di fronte a Dio, di fronte alla Chiesa e di fronte ai carismi dei nostri Istituti monastici, e ai doni che il Signore ha fatto a ciascuno di noi.

 



[1] Concilio Vaticano II, sess. 3, c. 3.

[2] Sant’Ireneo.

[3] Sant’Ignazio di Antiochia.

[4] Cf. P. Lippert, Die Kirche Christi, 2a ediz., Friburgo, senza data.

[5] Cf. Daniélou, Il mistero della storia, Morcelliana, Brescia.

[6] Cf. Rm 8, 20s.

[7] Cf. Ef 2, 2.

[8] Cf. Ef 6, 12.

[9] Cf. Gv 12, 31; 14, 30; 16, 11.

[10] Cf. 1Gv 2, 16.

[11] Cf. 2Pt 2, 20; 1, 4.

[12] Cf. Gc 1, 27.

[13] Cf. Gv 15, 18-19; 17, 14; 1Gv 3, 13.

[14] Cf. Gv 7, 7; 15, 18.

[15] Cf. Col 1, 13; Gal 1, 4; Gv 15, 19; 17, 14-16.

[16] Cf. Gal 6, 14; Rm 12, 2; 1Cor 7, 31; Gc 1, 27.

[17] Cf. Jean Leclercq, Estratto da: Studia monastica, vol. 20, 1978, 2.

[18] Scheler, Il senso della sofferenza, Aubier, Paris.

[19] Cf. Lc 10, 29-37.

[20] Cf. Mt 25, 31-46.

[21] L’analgesia e la morale cattolica, 24.2.1954, Atti e discorsi di Pio XII, Ed. Paoline, 1957.

[22] Eb 2, 18.

[23] J. Moltmann, Il Dio crocifisso. La Croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana. Queriniana, Brescia, 1975.

[24] Cf. Fil 3, 10.

[25] Cf. Mc 8, 34.

[26] Cf. Col 1, 24.

[27] W. Kasper, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia, 1985.

[28] Bonhoeffer, Résistance et soumission. Lettres et notes de captivité, Ed. Paoline, 1988.

[29] Cf. Rm 6, 4-11; Col 3, 3.

[30] P. Cochois, Bérulle et l’École française, Coll. Maîtres Spirituels, 31, Ed. du Seuil, Paris, 1963.

[31] Cf. Gv 12, 24.

[32] M. Mectilde del SS. Sacramento, Il Vero Spirito, Ronco-Ghiffa, 1980.

[33] Cf. Fil 2, 6-7.

[34] San Bernardo, Cantico dei Cantici, commento.

[35] Cf. 1Cor 6,19; 3,23.

[36] Mt 28,20.