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Deus absconditus, anno 83, n. 3, Luglio-Settembre 1992, pp. 18-28

 

 

Dom Adalbert de Vogüé osb*

Eucaristia e vita monastica

Accostando questo bell’argomento di cui mi avete chiesto di parlarvi, temo di deludere molti di voi. Vi aspetterete probabilmente da me una meditazione teologica e spirituale sulle due grandi realtà in causa, e delle visioni profonde sulla loro essenza e sulle loro relazioni. Come semplice storico, mi terrò ad un livello più modesto. Mi accontenterò di considerare i rapporti dell’eucaristia con la vita monastica a partire dalla Regola di san Benedetto, collocando quest’ultima tra i due documenti che ne sono inseparabili – la Regola del Maestro, sua fonte principale, e i Dialoghi di san Gregorio, che raccontano la vita del suo autore. Ognuno di questi tre testi, come sapete, si situa approssimativamente in uno dei tre terzi del VI secolo – il Maestro scrive nel primo, Benedetto nel secondo, Gregorio nel terzo.

La ragione per cui non ci si può limitare, in questa materia, alla Regola benedettina è ovvia: Benedetto non dice quasi nulla dell’eucaristia. La messa e la comunione sono da lui menzionate solo «di passaggio», a proposito della lettura in refettorio, dei sacerdoti del monastero o dell’ordine di anzianità [1]. Una tale laconicità non gli è certo propria: le altre regole cenobitiche e anche gli antichi scritti monastici nel loro insieme sono singolarmente poveri di idee sull’eucaristia. Sarebbe azzardato concludere che questo grande mistero contasse poco per gli antichi monaci. È assai risaputo che le cose più importanti sono sovente appena menzionate nei documenti, proprio perché sono scontate e non hanno bisogno di essere evidenziate. In questo caso tuttavia, il silenzio dei testi è attribuibile ad una causa parti-colare e profonda che scopriremo alla fine di questa esposizione.

La povertà della Regola benedettina in materia di eucaristia è felicemente compensata dalla relativa ricchezza dei due documenti che la incorniciano. Innanzitutto la Regola del Maestro: ci dice solo poche cose su la messa domenicale - essa sembra aver luogo nella ecclesia parrocchiale, fuori dalla clausura, essendo la comunità formata da laici e non disponendo perciò di un sacerdote che celebrasse nell’oratorio del monastero [2] -, ma evoca molto chiaramente, a proposito del servizio della cucina, il rito della comunione quotidiana [3]. Ogni giorno, dopo l’ufficio precedente il pasto, l’abate – che è un laico – distribuisce ai fratelli il corpo e il sangue del Signore. Più frequentemente a nona, talvolta a sesta o a vespro, i fratelli ricevono così l’alimento spirituale a digiuno, poco prima di nutrirsi dell’unico cibo corporale della giornata. I particolari del rito non ci sono noti, ma sappiamo che si svolge nell’oratorio e che la comunione è preceduta dal bacio di pace.

Questo rito quotidiano della comunione extra missam è una particolarità del Maestro, come molte altre cose, o possiamo pensare che si praticasse in altri monasteri, particolarmente in quello di Benedetto ? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto ricordare che la comunione a domicilio, con le specie ricevute durante la messa domenicale e conservate per i giorni successivi, fu una pratica largamente diffusa nella Chiesa dei primi secoli. Il laico poteva, infatti, sia consumare immediatamente tutto ciò che gli era stato dato dal sacerdote, sia tenerne una parte per altri giorni. Ben documentata a livello di singoli casi [4], questa pratica è ugualmente attestata da alcuni fatti collettivi. Ne citerò solo due, uno conosciutissimo, l’altro molto meno noto. Tutti sanno che Basilio, in una delle sue lettere, difende il diritto che i fedeli hanno di prendere la comunione con la mano. La cosa non solo è legittima in tempo di persecuzione, quando manca il sacerdote o il diacono, ma anche nel deserto, per i monaci che vivono lontani da un sacerdote. È anche consuetudine generale ad Alessandria e in Egitto, afferma Basilio, che i laici conservino sovente l’eucaristia a domicilio e si comunichino a loro piacimento [5].

Un secolo e mezzo più tardi, in una Chiesa che appartiene politicamente all’Impero d’Oriente ma ecclesiasticamente alla circoscrizione di Roma, un avvenimento insolito dimostra che questi principi non sono caduti in disuso. Nell’ottobre 519, i legati romani inviati a Costantinopoli per porre fine allo scisma Acaciano, inviano a Papa Ormisda delle relazioni in cui emerge la preoccupazione su ciò che è appena successo a Tessalonica: il vescovo Doroteo e il suo clero, fortemente attaccati allo scisma, hanno distribuito grandi quantità di pane consacrato durante una domenica, affinché i fedeli potessero continuare per lungo tempo a comunicarsi se la persecuzione avesse interrotto il loro ministero [6].

Ecco dunque, ai tempi del Maestro e di Benedetto, un fatto certamente eccezionale, ma che suppone la coscienza generale e persistente del potere dei cristiani laici sul sacramento di cui possono liberamente disporre, dopo averlo ricevuto dalle mani del sacerdote.

In un contesto simile, il rito dei monasteri del Maestro è facilmente comprensibile. Non è altro che l’organizzazione comunitaria della comunione privata, a domicilio, permessa dalla Chiesa ai singoli. Quello che i cristiani possono fare, ognuno a casa propria, i monaci lo fanno tutti insieme nell’oratorio del monastero. La loro comunione sacramentale è collettiva, come il pasto che la segue.

L’uso di comunicarsi a casa, al di fuori della messa, non chiarisce soltanto la pratica dei monasteri del Maestro, ma spiega anche un’apparente contraddizione che ha sempre messo in imbarazzo i commentatori di Cassiano. Quest’ultimo infatti, nei suoi discorsi sui monaci dell’Egitto, parla sia di comunione quotidiana [7], che di comunione settimanale [8]. Queste due affermazioni non sono in contraddizione, e non è affatto necessario ravvisarvi, come si fa di solito, l’attestazione di diverse frequenze di comunioni tra i monaci. In realtà i testi sulla comunione quotidiana riguardano l’assunzione privata dell’eucaristia durante la settimana, mentre i testi sulla comunione settimanale si riferiscono alla liturgia della messa [9]. Come gli altri fedeli dell’Egitto, i monaci ricevono l’eucaristia dai sacerdoti solo il sabato e la domenica, ma niente proibisce loro – almeno agli eremiti _ di comunicarsi quotidianamente con le loro mani.

Per ritornare alla Regola del Maestro, è chiaro che il rito quotidiano dell’eucaristia extra missam si inserisce nella linea di una pratica largamente diffusa, se non addirittura generale. Localizzato nella regione dove viveva Benedetto, appena prima di lui, questo rito è stato con molte probabilità da lui praticato. La cosa è ancor più verosimile, in quanto appena dopo di lui, nella stessa regione romana, un altro documento attesta la stessa pratica. La Regola di Paolo e Stefano invita i fratelli di quel monastero a non mancare, senza un serio motivo, alla comunione che doveva essere quotidiana, staccata dalla messa e preceduta soltanto da un Pater [10]. Così «inquadrata» da due regole-sorelle, la Regola benedettina può assai presumibilmente supporre tacitamente un rito di comunione precedente il pasto, troppo breve per poter essere menzionato nell’orario, come sarebbe stato necessario fare per la liturgia della messa.

Non che la situazione sacramentale della comunità sia la stessa nel Maestro e in Benedetto: i sacerdoti, non ammessi nella comunità dal primo, sono presenti nel monastero del secondo, sia che siano entrati già ordinati, sia che abbiano ricevuto l’ordinazione dopo la loro entrata [11]. La messa nell’oratorio monastico di Benedetto è quindi assicurata. Ma nulla indica che essa sia celebrata durante i giorni feriali, in cui l’orario del lavoro e della lectio non sembrano lasciarle spazio. Riservata certamente alle domeniche e alle feste, può cedere il posto durante la settimana ad un semplice servizio di comunione, analogo a quelli di Paolo e Stefano, e del Maestro.

Senza essere troppo categorico – giacché nella vicina Provenza, nella stessa epoca, messa e comunione sono meno frequenti che in Italia [12] -, si può prendere perciò la Regola del Maestro a testimone di quanto si praticava probabilmente nell’ambiente di Benedetto. Benedetto d’altra parte doveva conoscere il rito, dalla descrizione fatta dal Maestro. Non si può far a meno, perciò, di interrogarsi circa il valore e l’opportunità di una simile pratica: è possibile riconoscerle un significato ?

Personalmente, questo comportamento eucaristico del monachesimo antico mi sembra bello e sensato. Riservare la messa al giorno del Signore significa porre in evidenza sia la messa che la domenica. Quanto ai giorni ordinari, essi vengono santificati dall’assunzione del «pane quotidiano» la cui consacrazione – non bisogna mai dimenticarlo – è avvenuta durante la liturgia domenicale. Un legame organico viene così a stabilirsi fra giorni tra loro diversi, in cui l’eucaristia non è mai assente, ma si presenta in modalità differenti.

Questo regime così ragionevole ed equilibrato ha ceduto il posto, due secoli dopo san Benedetto, al sistema della messa conventuale quotidiana, con il suo «corteo» di celebrazioni secondarie: messa mattutina e messe private. Ancora in vigore ai nostri giorni, considerato il passaggio recente alla concelebrazione, questo sistema che risale all’epoca carolingia possiede anch’esso il suo significato e la sua bellezza che non è il caso di sminuire. Ciononostante, mi pare impossibile ravvisarvi un’esperienza definitiva o, come si è detto troppo spesso e troppo facilmente, un «progresso». In questo modo si supponeva che gli antichi possedessero una nozione ancora insufficiente del posto che l’eucaristia occupa nella vita del monaco, dal momento che la convenienza o addirittura la necessità della messa quotidiana, assieme ad altri elementi della dottrina e della pietà cattolica, era apparsa successivamente.

In realtà, la stima degli antichi per l’eucaristia non era inferiore alla nostra, anche se si manifestava in modo diverso. Certo, noi onoriamo grandemente la messa, dandole spazio nel nostro orario quotidiano: è così preziosa, che ci sembra di non poter trascorrere una giornata senza celebrarla. Ma i nostri Padri non onoravano meno di noi la messa riservandola alla domenica: è così preziosa, sembrano dire, che non si può banalizzarla rendendola quotidiana.

Per natura, l’ufficio divino santifica la giornata e deve essere celebrato quotidianamente. Il ritmo dell’eucaristia, al contrario, non è legato alla quotidianità. Introdurre la messa in questa quotidianità, mette in evidenza una scelta ambigua. La scelta differente degli antichi era legittima quanto la nostra.

Ho appena detto ciò che penso riguardo a uno dei due elementi del sistema antico: la messa settimanale. Aggiungerò ora una parola sull’ altro aspetto: la comunione quotidiana. Confesso che è per me una sorpresa vedere delle comunità monastiche dei nostri giorni che rinunciano, almeno per gran parte dei loro membri, a questo «pane quotidiano» [13] che chiediamo nella preghiera del Signore. Come capisco che non si consideri la messa quotidiana una necessità, così mi appare scandaloso che si trascorrano sei giorni su sette senza ricevere la comunione.

Questa pratica recentissima e che si spera non si diffonda, è fondata sul legame troppo stretto che viene stabilito oggi tra la messa e la comunione: non concependo l’una senza l’altra, si deve rinunciare a questa quando ci si dispensa dall’altra. Mostrandoci come i cristiani e i monaci, in una grande epoca della storia della Chiesa si comunicavano ogni giorno al di fuori dalla messa – ma mai, evidentemente, senza riferirsi alla messa –, i documenti dell’Antichità possono aiutarci ad uscire da questo vicolo cieco.

Ci sarebbe da accennare alle ragioni e alle modalità del grande cambiamento che ha portato, all’inizio dell’epoca carolingia, dalla pratica antica a quella che si è mantenuta fino ai nostri giorni. Sarà sufficiente che menzioni la spiegazione proposta di recente da Angelus Häussling, che attribuisce un’influenza decisiva al modello cultuale trovato dai monasteri franchi nella Chiesa di Roma [14]. Oltre a questa causa esemplare, altri fattori hanno potuto contribuire all’evoluzione. Uno dei più importanti è indubbiamente la propaganda fatta da Gregorio Magno in favore della messa quotidiana, in un’opera scritta alla fine del VI secolo, ma la cui diffusione si sviluppa straordinariamente intorno al 700: i Dialoghi [15].

Il quarto ed ultimo libro dei Dialoghi gregoriani termina infatti con alcune pagine vibranti che esaltano la messa come mezzo per liberare le anime dal peccato e dalle sue conseguenze, sia che si tratti di defunti o di persone vive. Cominciando dai defunti, il papa fornisce due esempi di anime liberate dal Purgatorio da un certo numero di messe consecutive. Il secondo esempio è quello di un monaco del suo monastero che egli trasse dal Purgatorio facendo celebrare la messa per lui durante trenta giorni consecutivi, inaugurando così le famose «messe gregoriane» [16]. Questo suggerimento è poi esteso ai vivi, a proposito dei quali Gregorio fornisce nuovamente due esempi di anime liberate dalla celebrazione eucaristica [17]. Tra queste due coppie di storie meravigliose, il caso del vescovo Cassie di Narni dimostra l’efficacia soprannaturale della celebrazione quotidiana: come ricompensa per la sua fedeltà a questa pratica, Cassie è gratificato da un elogio del Signore e da una morte palesemente benedetta [18].

Questi cinque miracoli eucaristici, che concludono la raccolta dei fatti meravigliosi che formano la trama dei Dialoghi, cedono il posto a una meditazione sulla messa. Questa pagina è troppo bella e troppo importante per non leggerla integralmente:

«Dobbiamo perciò disprezzare con tutto il cuore il secolo presente, almeno perché lo vediamo già trascorso, immolare a Dio sacrifici di lacrime ogni giorno, e ogni giorno immolare le ostie della sua carne e del suo sangue. In modo incomparabile infatti, questa vittima salva l’anima dalla morte eterna, rinnovando per noi nel mistero, la morte dell’unico Figlio. Anche se «risorto dai morti non muore più, la morte non ha più alcun potere su di lui», tuttavia, vivente in se stesso in modo immortale e incorruttibile, è immolato di nuovo per noi nel mistero della santa oblazione. Qui il suo corpo è consumato, la sua carne è divisa per la salvezza del popolo, il suo sangue è sparso non più sulle mani degli infedeli, ma nella bocca dei fedeli.

Da qui, pensiamo a che cosa sia per noi questo sacrificio che riproduce sempre la Passione del Figlio unico, per il nostro perdono. Chi dunque tra i fedeli potrebbe dubitare che nel momento preciso dell’immolazione i cieli si aprono alla voce del sacerdote, che a questo mistero di Gesù Cristo i cori degli angeli sono presenti, il sommo si unisce all’infimo, il terrestre e il celeste si ricongiungono, il visibile e l’invisibile si fondono in unità ?» [19]

Tuttavia, non è sufficiente compiere l’azione liturgica. Quest’ultima, per ottenere il suo effetto di grazia, deve essere accompagnata da un triplice sforzo. Innanzitutto, chi offre la vittima eucaristica, deve offrire se stesso in sacrificio, «imitando ciò che compie». Poi, si sforzerà di mantenere continuamente nel cuore, dopo la liturgia, la compunzione con la quale ha celebrato. Infine deve perdonare tutti coloro che l’hanno offeso, condizione sine qua non del perdono che desidera ottenere per se stesso [20].

La messa quotidiana appare così come il fulcro di un fascio di risoluzioni che abbracciano i doveri verso Dio, verso se stessi ed il prossimo. Lungi da ogni magia sacramentale, Gregorio fa del rito il supporto di un programma di vita spirituale. Non si può dubitare che una raccomandazione così pressante e autorevole della celebrazione quotidiana abbia avuto come primo e principale effetto quello di moltiplicare le messe, nei monasteri come nelle Chiese [21].

Ma queste pagine destinate ad esercitare tanta influenza, sono prima di tutto un grido del cuore di Gregorio. Bisogna considerarle da questa prospettiva se se ne vuole cogliere tutto il senso. Poste alla conclusione dei Dialoghi, esse rispondono alle prime pagine dell’opera [22]. Là, Gregorio si era presentato al lettore in un pietoso stato di tristezza e di scoraggiamento. Tre anni dopo il suo insediamento sulla cattedra di Pietro, riprende il lamento delle prime lettere del pontificato e che riecheggerà ancora, due anni più tardi nell’introduzione ai Moralia e altrove [23]: gli affari secolari, ai quali un vescovo è votato, lo opprimono; con una crudele nostalgia, si ricorda dei suoi anni di vita monastica:

«II mio infelice spirito, tormentato dalle mie occupazioni, ricorda la sua precedente situazione nel monastero, come tutte le cose caduche fossero al di sotto di lui, quanto dominasse dall’alto tutto ciò che è transitorio; non aveva nella mente che le cose celesti; pur racchiuso nel corpo, oltrepassava con la contemplazione le frontiere della carne; amava la morte come entrata nella vita e come ricompensa del lavoro, mentre essa è per quasi tutti un castigo» [24].

Da questi splendori della vita contemplativa egli è allontanato dolorosamente, «macchiato» com’è dalla «polvere dell’attività terrena». La sua capacità di ricercare i beni interiori è irrimediabilmente diminuita dalla dispersione nelle cose esteriori alle quali si vede condannato [25]. Peggio ancora: perde, poco a poco, il senso della sua decadenza, le gioie del paradiso perduto si cancellano gradualmente dalla memoria, come la vista della costa sparisce allo sguardo di un navigatore trascinato dalla tempesta [26].

Queste confessioni preliminari del primo Libro sono da confrontare, lo vedremo, con le risoluzioni finali del Libro IV. Ma tra queste due estremità dell’opera è necessario citare almeno un passaggio-chiave che le collega. All’inizio del Libro IV infatti, un nuovo preambolo ricorda l’esordio dei Dialoghi e annuncia la loro conclusione. Gregorio evoca in esso la caduta dell’umanità in Adamo e il suo riscatto in Cristo. Espulso dal paradiso, il primogenitore del genere umano ne conservava almeno il ricordo. Dopo di lui, gli uomini non seppero più nulla delle gioie che non avevano conosciuto. Esistenza degli angeli, beatitudine dei giusti, visione di Dio non sono per loro che parole senza un contenuto sperimentale, un mondo invisibile di cui cominciano a dubitare [27]. Questo dramma collettivo e cosmico ricor-da l’infelicità particolare di Gregorio. In modo impersonale, è la stessa storia di esilio e di improvvisa degradazione, ulteriormente aggravata dall’oblio.

Questa umanità decaduta è tuttavia capace di risollevarsi, grazie a Dio. Dopo averla descritta, alla maniera di Platone, come un bimbo nato e allevato nelle tenebre di una prigione [28], Gregorio canta l’opera redentrice del Figlio e dello Spirito Santo, mediante la quale viene data agli uomini la possibilità di recuperare la conoscenza del mondo invisibile e la gioia spirituale. Per arrivare a questo, basta credere alla parola divina e ascoltare gli uomini che hanno ricevuto dallo Spirito una fede solida, se non addirittura una certa esperienza di queste cose nascoste [29].

Questo messaggio di speranza annuncia la conclusione del Libro IV. Come la caduta di Adamo ricordava quella di Gregorio, allo stesso modo la speranza della salvezza portata da Cristo si concretizzerà nelle risoluzioni che l’autore dei Dialoghi prenderà alla fine. Queste risoluzioni finali rispondono al grido di sconforto risuonato all’inizio dell’opera. Passato dal monastero al mondo, Gregorio decide di rimettersi in cammino verso il suo paradiso perduto. Nel mondo egli non può certamente ritrovare l’ambito claustrale che gli assicurava la tranquillità, ma una certa misura di contemplazione e di interiorità è recuperabile. È ciò che predica a se stesso quando parla del « sacrificio quotidiano delle lacrime » che accompagna quello della messa, e della « compunzione » che deve prolungare all’infinito gli effetti benefici della messa stessa.

Nel cuore di questa speranza di una ripresa spirituale, si trova evidentemente lo stesso atto della celebrazione eucaristica. Qui Gregorio ha la sensazione di recuperare in un istante i beni più preziosi del suo paradiso contemplativo. Nel momento dell’immolazione, le «cose celesti» che occupavano i suoi pensieri quando era in monastero discendono sull’altare e si uniscono a quelle terrestri [30]. Gli angeli, con cui Adamo conversava, sono presenti. «L’invisibile», scomparso al momento della caduta, diventa una cosa sola con il visibile... In una parola: tutto ciò di cui godeva un tempo la sua contemplazione, gli viene reso in quel momento, nella fede [31].

Se Gregorio da un lato ha «perso» la vita contemplativa, dall’altro ha trovato una sorta di «sostituto» nel «mistero di Gesù Cristo», che celebra come vescovo. Evidentemente queste pagine ferventi sulla messa scaturiscono dalla sua esperienza sacerdotale. Togliendogli completamente ciò che aveva di più caro, l’episcopato gli ha procurato una specie di riscoperta del mistero eucaristico, quella che si fa quando si comincia a celebrarlo personalmente. Questa valutazione dell’atto sacro è in lui tanto più viva, quanto più egli si vede privato di tutto il resto. La messa gli appare come l’unica àncora di salvezza che gli rimane, la sua sola speranza di sopravvivere nella «tempesta» degli affari del mondo. Inoltre il sacrificio di Cristo è particolarmente significativo per quest’uomo che ha dovuto sacrificare il suo personale bene spirituale per il servizio della Chiesa. In ogni caso è chiaro che il momento della celebrazione, nella sua desolata esistenza, è quello in cui egli ritrova qualcosa delle gioie mistiche della sua vita passata.

Del resto, Gregorio non parla solo per sé in questa conclusione dei Dialoghi. Tutto il brano è in prima persona plurale. Chiamato in causa in prima persona, Gregorio non si separa dai suoi lettori: con tutto il suo popolo, questo monaco diventato pastore, riparte alla conquista del paradiso. Insieme prenderanno la messa come fondamento per uno sforzo di ripresa. A partire da questa esperienza sacramentale dell’invisibile, cercheranno di coltivare la compunzione, prolungando il più possibile i sentimenti che essa avrà suscitato o ravvivato.

 

Da questa analisi dei Dialoghi, possiamo ora trarre una conclusione. In una parola, possiamo dire che la messa appare, nella storia di Gregorio, come un sostituto della contemplazione, un mezzo per recuperare, nella vita del mondo, qualcosa delle ricchezze spirituali del chiostro. La pietà eucaristica che irradia alla fine dei Dialoghi è legata all’esilio del monaco ripiombato nel mondo, alle sofferenze che patisce come ministro della Chiesa secolare.

Per questo l’esperienza del vescovo-monaco permette forse di spiegare in qualche modo ciò che abbiamo constatato all’inizio di questa conferenza: l’assenza o la presenza piuttosto rara della messa nella Regola di san Benedetto e negli altri testi monastici antichi. Questa carenza non dipende, almeno in parte, dalla natura stessa della vita monastica ? Il monaco, per riprendere una mirabile analisi di Gregorio stesso [32], è vir unus, «uomo» e «uno», fatto di rinuncia «virile» a tutto il creato e di aspirazione «unica» a Dio solo. Come diceva Cassiano [33], «il suo unico fine è di tendere alla preghiera incessante». In una tale vita, la coscienza della presenza di Dio è continua [34], ed è pure continuo il colloquio con lui, in un raccoglimento che mira ad assicurare un contatto permanente tra l’uomo e il suo Signore. Nulla è profano in questa vita, ogni cosa e ogni istante sono sacri.

In un contesto simile, è chiaro che il bisogno di un modo e di un tempo particolari per il contatto con Dio si fa sentire molto meno che altrove.

La presenza sacramentale e il momento della messa non sono perciò destinati, per questo motivo, ad assumere assai minore importanza di quanto non avvenga nella vita secolare? Ciò che il cristiano nel mondo prova così intensamente al momento della celebrazione eucaristica, il monaco può sperimentarlo in modo quasi costante. Per lui, Cristo è incessantemente presente, ascoltato nella sua parola non soltanto nelle tre ore quotidiane di lectio, ma durante tutta la giornata, in cui il lavoro stesso si accompagna alla «meditazione», cioè alla recitazione della Scrittura che richiama, come risposta, una preghiera tanto frequente quanto possibile [35].

È perciò lecito chiedersi se lo scarso rilievo dell’eucaristia nella letteratura monastica antica non sia legato alla natura stessa del monachesimo, così com’era concepito e vissuto in questi primi secoli. Correlativamente, è probabile che il posto assunto successivamente dall’eucaristia nella vita monastica sia legato alla degradazione di alcuni elementi essenziali di questa vita. Detto in altri termini, non può essere che i monaci, come Gregorio, abbiano cercato nelle loro messe quotidiane una compensazione alla perdita o all’affievolirsi di valori quali il silenzio e il raccoglimento, la «meditazione» e la preghiera, senza parlare delle osservanze che ne sono il supporto: digiuni, veglie, solitudine, povertà e via di seguito? Al di là delle possibili cause, liturgiche o di altro tipo, del «sistema delle messe», la sua perma-nenza tenace lungo più di un millennio potrebbe essere in relazione profonda con l’esigenza di un contatto mistico insufficientemente assicurato dalla vita monastica stessa.

È questo ciò che sembra suggerirci la lettura dei Dialoghi che abbiamo appena compiuto. Ma per finire, non vorrei rimanere su questa nota negativa. Sarebbe del tutto errato considerare il mistero eucaristico come concorrente o succedaneo dei valori propri del monachesimo. Qualunque sia la frequenza – quotidiana o settimanale – della sua celebrazione nei monasteri, rimane assolutamente vero che l’eucaristia è stata e sarà sempre la fonte della vita spirituale dei monaci. Trattandosi di monaci cristiani – e questo nome non designa un tratto accidentale, ma il cuore stesso della loro vocazione [36] –, tutto il loro sforzo ascetico e mistico sgorga continuamente dal mistero di Cristo e dai sacramenti della Chiesa.

Se i monaci antichi parlano poco della messa, essi lasciano talvolta trapelare la loro coscienza di questa sorgente sacramentale della loro vita. Ne darò una sola dimostrazione, che mi pare eloquente: il bell’apoftegma dell’abate Pastor, che san Benedetto aveva certamente letto nelle Vitae Patrum che tanto amava. Rifacendosi all’antica leggenda secondo la quale i cervi mangiano i serpenti [37], il grande abate egiziano così commenta il primo versetto del salmo 41: «È scritto: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio«. Infatti, i cervi, nel deserto, inghiottono molti serpenti, e, bruciati dal loro veleno, desiderano andare verso l’acqua per spegnere, bevendo, l’arsura del veleno dei serpenti. Allo stesso modo, i monaci che abitano il deserto sono bruciati dal veleno dei demoni cattivi. Così anelano al sabato e alla domenica, in cui potranno andare alle sorgenti dell’acqua viva, cioè al corpo e al sangue del Signore, per purificarsi dall’amaro dei demoni» [38].

 



* Ns. traduzione dell’articolo pubblicato in «Collectanea Cisterciensia», 48 (1986), 120-130.

[1] RB 38, 2 e 10; 62, 6 (cfr. 60, 4)

[2] Cfr. Scholies sur la Règle du Maître, in RAM 44 (1968), p. 122-127, The Rule of the Master, Kalamazoo 1977(CSS 6), p.31-34.

[3] RM 21-22; cfr. 80.

[4] Citerò soltanto due testi notevoli: Cipriano, De lapsis 26; Ambrogio, De Excessu Satyri I, 43-46. Altri riferimenti in Daniel Callam, «The Frequency of Mass in the Latin Church CA 400», in Theological Studies 45(1984), p. 613-650.

[5] Basilio, Ep. 93.

[6] Collectio Avellana, ed. O. Guenther, Vienna 1895-1898 (CSEL 35), n. 186, 4 e 225, 7. Il capo della delegazione era precisamente il vescovo Germano di Capua, amico di san Benedetto (Gregorio, Dial. II, 35).

[7] Cassiano, Inst. 6, 8: Conl. 9, 21 e 14, 8, 5 (cfr. 7, 30, 2).

[8] Cassiano, Inst. 3, 2 (sabato e domenica) e 11 (domenica), entrambi in ambiente cenobitico; Conl. 18, 15, 6 (sabato e domenica) e 23, 21, 2 (domenica). Questi due ultimi testi riguardano gli eremiti.

[9] Da Concl. 18, 15, 6 ove si tratta della liturgia di Scete, si può confrontare Vitae Patrum 5, 18, 17, che citerò alla fine. Quanto a 23, 21, 2, questo testo risponde a Conl. 22, 4-8, in cui il vocabolario mostra che Cassiano si riferiva alla messa: vedere soprattutto 22, 5, 1 (assistere... altaribus); cfr. 22, 4 (accedi ad sacra mysteria) e 22, 5, 2 (ad gratiam salutaris cibi... accedere). In queste Conferenze 22 e 23, l’argomento prescinde dalla comunione privata e considera soltanto la comunione liturgica.

[10] Reg. Pauli et Stephani 13. Questo Pater è probabilmente seguito dal bacio di pace di cui parla il Maestro e questo, da parte sua, includeva probabilmente il Pater nel rito precedente il bacio di pace.

[11] RB 60 e 62.

[12] Come mostrano le Regole di Cesario e di Aureliano di Arles.

[13] Così inteso da Cassiano, Conl. 9, 21, come da molti altri.

[14] A. Haüssling, Mönchskonvent und Eucharistiefeier, Münster Westfalen 1973 (LQF 58). Cfr. la mia relazione in RHE 70 (1975), p. 490-495. Riassunto da G. Lafont, «L’eucaristia nella vita monastica», in Coll Cist. 44 (1982), p. 3-25; Cist. Stud. 19 (1984), p. 296-318.

[15] II moltiplicarsi dei riferimenti ai Dialoghi a partire dalla fine del VII secolo è un fenomeno ben descritto da F. Clark in un’opera di prossima pubblicazione. Evidentemente non consegue che i Dialoghi siano stati scritti in quest’epoca, come l’autore ritiene.

[16] Gregorio, Dial. IV, 57.

[17] Dial. IV, 59.

[18] Dial. IV, 58.

[19] Dial. IV, 60, 1-3.

[20] Dial. IV, 61-62.

[21] Vedi specialmente Beda, Hist. Eccl. 4, 22: una storia chiaramente presa da Dial. IV, 59, 1 (o su Hom. Eu. 37, 8) causò il moltiplicarsi delle messe per i defunti.

[22] Come appare nel mio articolo «De la crise aux résolutions: les Dialogues comme histoire d’une âme», negli Atti del Convegno internazionale su Gregorio Magno (Chantilly, settembre 1982).

[23] Nell’agosto 599, sei anni dopo i Dialoghi, Gregorio si lamenta ancora, in modo particolarmente prolungato e amaro, in una lettera a Leandro (Reg. Ep. 9, 228).

[24] Dial. I, Prol. 3.

[25] Dial. I, Prol. 4.

[26] Dial. I, Prol. 5.

[27] Dial.IV, 1, 1-2.

[28] Dial. IV, 1, 3.

[29] Dial. IV, 1, 4-5.

[30] Confrontare Dial. I, Prol. 3 (nulla nisi caelestia cogitare consuerat) e IV, 60, 3 (terram caelestibus iungi).

[31] Notiamo ancora, nonostante l’accostamento risulti meno evidente, «l’amore della morte» (Dial. I, Prol. 3) e la «morte del Figlio unico» (IV, 60, 2).

[32] In I Reg. 1, 61, CC 144, p. 87. Cfr. il mio articolo «Les vues de Grégoire le Grand sur la vie religieuse dans son Commentaire des Rois», in Stud. Mon. 20 (1978), p. 17-63 (vedi pag. 24-27), Cist. Stud. 17 (1982), p. 40-64 e 212-232 (vedi pag. 47-50).

[33] Conl. 9, 2, 1.

[34] Cfr. RB 7, 10-30 e 19, 1.

[35] Vedere l’articolo «Preghiera», in DIP 7 (1983), col. 597-603, Word and Spirit 3 (1982), p. 106-120.

[36] Cfr. La Règle de saint Benoît, t. VII. Commentaire doctrinal et spirituel, Paris 1977, p. 71-73 e 434-435, The Rule of Saint Benedict. A Doctrinal and Spiritual Commentary, Kalamozoo 1983 (CSS 54), p. 36-37 (ripristinare i tagli del testo originale, spostati o omessi qui per sbaglio) e 316.

[37] Attestata, tra gli altri, da Cassiano, Conl. 10, 11, 4. Cfr. Plinio, Hist. Nat. 8, 32; Ambrogio, Hex. 3, 9; Giovanni Climaco, Scala par. 25, 10.

[38] Vitae Patrum 5, 18, 17, PL 73, 983 D. Traduzione dal greco (Poimen 30, PG 65, 329 BC). Qui, come talvolta in Cassiano (vedi note 8-9), è prevista solo la comunione liturgica settimanale.