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Deus absconditus, anno 96, n. 2, Aprile-Giugno 2005, pp. 33-36

 

Sr. Maria Cecilia La Mela osb ap*

Nella Regola di san Benedetto il sogno eucaristico di Mectilde de Bar

 

 

Diversi commenti e studi hanno messo in evidenza numerosi aspetti teologici, antropologici, pedagogici, oltre che pratici, all’interno della Regola di san Benedetto. La lettura in prospettiva eucaristica, tuttavia, è stata non soltanto evidenziata, ma addirittura vissuta dalla nostra Madre Fondatrice. Il nostro Istituto, innestato nell’antico tronco benedettino, osserva prima di tutto la Regola benedettina e da essa attinge quella pienezza di vita che diventa vita eucaristica. In san Benedetto morente che riceve il viatico, madre Mectilde trova l’ideale che guida la nostra vocazione di Benedettine dell’Adorazione perpetua del SS. Sacramento [1]. Dall’ultimo respiro del nostro Santo Padre nasce un desiderio consegnato, secoli dopo, a questa benedettina che ha fatto della Regola e dell’Eucaristia un binomio inscindibile. In madre Mectilde questa consegna è data a tutte noi chiamate ad essere, come la Vergine Maria, «donne eucaristiche».

Scrive la Madre: «Per stimolarci ad onorare San Benedetto ci basti sapere che è nostro padre e legislatore, che il mistero dell’Eucaristia, al quale abbiamo la felicità di essere consacrate, costituiva qui in terra tutto l’amore del suo santo cuore, a tal punto che è stato Gesù Cristo a rapirlo per portarlo in cielo. San Benedetto, spirando ai piedi dell’altare come una vittima immolata al Santissimo Sacramento, ha lasciato la sua anima ai piedi dell’altare e gli ha consacrato in pari tempo tutto il nostro Ordine» [2]. L’intuizione più bella sta proprio qui: madre Mectilde, come già san Gregorio Magno, ha capito che la Regola è stata la vita stessa di San Benedetto e c’è stata questa Regola proprio perché è stata vissuta quella vita. Anche se la Regola è apparentemente avara di riferimenti eucaristici, non per questo non ne è piena, anzi, non è azzardato affermare che la dimensione eucaristica fa da perno all’intero impianto cristologico della Regola stessa.

La convalida di quanto affermato, oltre che da una lettura attenta di certi passi espliciti, o a volte solamente sottintesi ma ugualmente significativi, è da rintracciare proprio nella vitalità del nostro carisma benedettino-metildiano. Se l’intero insegnamento della Madre Fondatrice, per ben 350 anni, ha trovato un terreno fertilissimo proprio in questa Regola, ciò vuol dire che la vita monastica, così come è strutturata da san Benedetto, è fortemente idonea ad un ideale di adorazione perpetua e riparazione del SS. Sacramento. Il centro di tutto è la celebrazione eucaristica: da essa scaturisce la vita stessa della comunità e di ogni singola monaca. Non c’è adorazione senza celebrazione, non c’è riparazione senza sentirsi vitalmente innestate al mistero redentore del Cristo. La dimensione pasquale, che ritma l’anno liturgico e che san Benedetto pone come cardine di tutta la vita monastica, si esprime in questa continua accoglienza del dono che Gesù fa continuamente di sé. Imitare il Cristo nella sua offerta al Padre per la salvezza degli uomini è fare memoriale della sua passione nella luminosa prospettiva della resurrezione. I voti emessi in qualità di vittima sono legittimati proprio da questa continua adesione al piano salvifico di Cristo, per essere noi stesse offerte scelte per la gloria di Dio e la condivisione con tanti fratelli lontani a causa del peccato. L’Opus Dei, la Lectio divina, l’opus manuum, l’accoglienza, la cura del monastero... tutto diventa una messa celebrata sull’altare della vita, di una comunione che fa della comunità monastica una piccola Chiesa inserita inscindibilmente nel corpo mistico di Cristo.

Il motto «eucaristico» che compendia tutta la Regola lo troviamo al capitolo IV, 21: «Niente anteporre all’amore di Cristo». Se nulla si frappone tra le nostre azioni giornaliere e il servizio da rendere a Cristo, ciò vuol dire che l’Eucaristia, intesa come un tutto globale e non sezionata in momenti diversi, è perpetua, cioè ogni azione diventa celebrazione del Mistero, adorazione delle meraviglie che esso racchiude. Significativa per la nostra vita diventa allora la bellissima preghiera, attribuita alla Madre Fondatrice, che recitiamo ogni mattina: «Mio Dio, voglio passare questa giornata nello spirito della mia offerta, in un continuo sacrificio in tutte le occasioni che incontrerò oggi. O Maria, aiutami a vivere d’ora in poi nell’amore, nello spirito e nella grazia del sacrificio eucaristico» [3]. Tutto, allora, acquista un significato nuovo. Il Nostro Santo Padre Benedetto ci dice che «sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto» (RB 19,1), ecco perché ogni azione della nostra giornata, unita al sacrificio di Cristo, diventa forza erompente che trasforma anche la quotidianità in una festa di luce. L’adorazione perpetua, proprio perché scaturisce dalla celebrazione eucaristica, non è una pratica devozionale, non è un appuntamento ad orari, non è uno spazio da ritagliare, ma diventa uno stile di vita che ci mette in un continuo atteggiamento di preghiera adorante, anche quando facciamo i conti con la nostra fragilità, con i tanti impegni da rincorrere. «Adorare è aderire», ce lo insegna con la sua stessa vita madre Mectilde: aderire non soltanto quando siamo in chiesa, ma ogni momento, nell’oggi della volontà di Dio. Se l’adorazione come tempo privilegiato di incontro con Gesù Ostia non trasforma tutta la nostra giornata, allora non è più un tempo di pienezza, ma scava dentro di noi il vuoto della delusione e dell’amarezza. Questa vita eucaristica trova la sua maturità nell’incontro aperto con gli altri, perché l’amore a Dio non è veramente tale se non diventa amore al prossimo. L’altro, l’Abate, l’ospite, l’infermo, ci ricorda san Benedetto, è portatore di Cristo. Non c’è Eucaristia senza comunione. La vita cenobitica diventa, allora, canale privilegiato di questo amore che si espande. Il simbolo dell’Eucaristia, da molte spighe un solo pane e da molti acini d’uva un solo vino, è segno di unità e di carità stabile, permanente, perpetua così come deve esserlo l’adorazione.

Tante nostre comunità vivono il sofferto rammarico di non poter più mantenere la perpetuità dell’adorazione nei loro monasteri. Ebbene, tale perpetuità non cessa, sia perché è mantenuta dall’Istituto, in una sorta di legge dei vasi comunicanti, ma soprattutto perché se l’adorazione è vita eucaristica per ogni comunità, laddove c’è un gruppo di monache che vive la continua fedeltà agli impegni monastici sforzandosi di dare gloria a Dio in ogni azione, allora l’adorazione perpetua non cessa. Scrive la Madre: «La nostra adorazione deve essere perpetua, poiché il medesimo Dio che adoriamo nel Santissimo Sacramento ci è presente in ogni luogo. Dobbiamo adorarlo in spirito e verità. In spirito con un santo raccoglimento interiore; in verità facendo sì che tutte le nostre osservanze siano un’adorazione continua grazie alla nostra fedeltà nel darci a Dio in tutto ciò che domanda da noi. Poiché appena manchiamo di fedeltà cessiamo di adorare» [4].

È quello che ci dice lo stesso san Benedetto: «perché in tutto sia glorificato Dio» (RB 57,9). La Messa è la massima celebrazione della gloria di Dio perché Cristo, l’agnello immolato, offre la sua vita per la gloria del Padre e la salvezza dei fratelli. Anche noi, proprio perché «ci associamo con la sofferenza ai patimenti di Cristo» (RB, Prol. 50), possiamo partecipare all’Eucaristia traendo da essa la grazia per fare di tutta la nostra esistenza la gloria di Dio. L’annientamento tanto caro alla Madre Fondatrice prende significato a partire da ciò, e non da una disumana indifferenza o disprezzo verso la personalità umana. Annientarsi significa abbandonarsi all’amore di Dio e lasciargli operare la distruzione, in noi, di quanto gli è contrario, perché tutto quello che siamo e tutto quello che abbiamo diventi un’offerta vivente alla sua potenza.

Il capitolo diciottesimo de Il Vero spirito, I rapporti dell’anima con Gesù Ostia (pp. 143-154), può essere letto come sinossi in prospettiva eucaristica di tutta la Regola sezionata nelle sue parti principali. Prendendo a prestito il titolo del bellissimo libro del Beato Columba Marmion, possiamo dire veramente che «Cristo ideale del monaco» ci insegna a vivere la nostra vocazione in un continuo desiderio che si fa imitazione, sequela Christi. Gesù nel tabernacolo è il modello perfetto di obbedienza, (RB c. 4 / VS n. 24) di umiltà (RB c. 7 / VS n. 17), di silenzio (RB c. 6 / VS n. 4), di servizio (RB c. 35 / VS n. 143,2), di chi accetta gli «obbrobri» (RB c. 51 / VS n. 5), le contraddizioni, le umiliazioni (RB c. 58 / VS n. 7); chi vive un continuo stato di morte (RB c. 4 / VS n. 10); è il penitente (RB c. 49 / VS n. 11), il povero (RB c. 33 / VS n. 15); è colui che celebra con la sua vita l’Opus Dei (RB c. 46 / VS n. l8)... e altro ancora!

Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Mane nobiscum Domine, ha suggerito a tutta la cristianità l’icona dei discepoli di Emmaus (Lc. 24, 13-35) come spunto di riflessione e di confronto per questo speciale anno 2005 dell’Eucaristia. In questo brano evangelico troviamo tracciate le tappe del nostro carisma. C’è un cammino, da Gerusalemme ad Emmaus: all’inizio è duro (Prol. 8), sembra irto di difficoltà e la sera scende nel cuore. Poi c’è l’incontro inconsapevole con il Cristo Risorto. Le orecchie dei due discepoli si fanno attente (Prol. 1) e il divino pellegrino insegna loro come interpretare la Scrittura (Lectio divina). La via inizia ad essere più larga, e l’ascolto diventa preghiera (Opus Dei): «Resta con noi, Signore!». I due accolgono il forestiero nella loro casa (RB 53) e Gesù spezza il pane (Celebrazione eucaristica). «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (adorazione). «Ma lui sparì dalla loro vista» (annientamento). Ecco che dall’Eucaristia scaturisce una scelta: i due «senza indugio» («sine mora» [RB 4,2] direbbe san Benedetto) fecero ritorno a Gerusalemme (conversione dei costumi) per annunciare agli Undici che il Signore è risorto (attualizzazione del mistero celebrato). Certamente il loro cammino è diventato una corsa perché il loro cuore ardeva, era cioè «dilatato» (Prol. 49).

L’episodio termina con una puntualizzazione: «Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come lo avevano riconosciuto nello spezzare il pane». Tutto ha inizio e tutto trova il suo compimento proprio in questo spezzare il pane. «Non c’è amore più grande!».

 



* Monaca del Monastero «San Benedetto« di Catania.

[1] Cfr. Catherine Mectilde de Bar, Il vero spirito, cap. 19°.

[2] Catherine Mectilde de Bar, Attesa di Dio. Riflessioni sulla Regola di San Benedetto, Jaka Book, Milano 1982, p. 47.

[3] Testo attualizzato secondo la più corretta traduzione dal punto di vista teologico, proposto dal Monastero di Ghiffa.

[4] C. M. De Bar, L’anno liturgico, p. 13.