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Deus absconditus, anno 87, n. 3, Luglio-Settembre 1996, pp. 19-30

 e n. 4, Ottobre-Dicembre 1996, pp. 23-28

 

 

Sr. Carlamaria Valli osb ap del monastero di Grandate (CO).

La comunità monastica in Mectilde de Bar

Premessa

In questi ultimi anni si è diffuso ed è cresciuto, nella Chiesa e nella vita consacrata, l’interesse per quanto riguarda la vita comune. Ciò ha sollecitato la scelta di tale tema anche per la presente ricerca.

Potrebbe sembrare una forzatura cercare negli scritti di una fondatrice del XVII secolo un argomento che risponde più alla sensibilità ecclesiale del post-Vaticano II che non agli ideali ascetici e mistici della spiritualità post-tridentina. La ricerca comunque ha portato frutti inattesi. Sebbene non siano riscontrabili veri e propri trattati espliciti sul tema, sono tuttavia frequentissimi gli accenni e le esortazioni riguardo la vita comune. Dalla raccolta, dall’accostamento e dal confronto tra di essi è possibile intravedere:

 

1. quali erano le linee teologiche sottostanti alla vita comune così come emerge dagli scritti della Madre e

 

2. qual era la realtà concreta delle comunità di Benedettine dell’Adorazione perpetua del SS. Sacramento ai tempi della fondazione dell’Istituto.

 

Questi due punti costituiscono le due parti principali in cui si articolerà la ricerca.

Bisogna fin d’ora rilevarne i limiti. Per una maggiore completezza il lavoro avrebbe dovuto essere svolto sull’intero corpus degli scritti di madre Mectilde de Bar, e sui testi originali francesi. La mancata conoscenza della lingua, la vastità delle fonti e il tempo limitato hanno condotto ad una prospettiva molto più ridotta. Tuttavia, per un saggio che fosse in qualche modo rappresentativo, sono stati scelti testi di vario contenuto, che permettono di avvicinare la figura e l’opera di madre Mectilde da diverse angolature.

 

Fonti:

 

1. M. MECTILDE DU SAINT-SACREMENT (Catherine de Bar), Costituzioni sulla Regola del Santo Padre Benedetto per le Monache Benedettine dell’Adorazione perpetua del SS.mo Sacramento. Traduzione del manoscritto francese P 103 a cura delle Benedettine dell’Adorazione perpetua del SS.mo Sacramento, Monastero SS.ma Annunziata, Alatri (FR), 1982. (sarà citato COST)

 

2. CATHERINE MECTILDE DE BAR, Non date tregua a Dio. Lettere alle monache 1641-1697, ed. Jaca Book, Milano 1979. (sarà citato con la sigla NDT)

 

3. CATHERINE MECTILDE DE BAR, Attesa di Dio. Riflessioni sulla Regola di San Benedetto, ed. Jaca Book, Milano 1982.

Raccolta di testi estratti da vari generi letterari (conferenze, lettere, conversazioni familiari, regolamenti, ecc.). (sarà citato con la sigla AdD)

 

Nelle citazioni dove sarà aggiunto, il numero tra parentesi (...) si riferisce alla numerazione generale con la quale sono stati catalogati tutti i manoscritti, sia quelli autografi della Madre che i testi raccolti e trascritti dalle sue figlie, nei vari monasteri.

Le notizie ricavate dalla prima fonte, data la sistematica organizzazione intorno al testo della Regola, permettono di avere un quadro d’insieme della comunità con i suoi ritmi di vita «regolare»; presentano però una certa rigidità di vedute, forse per la natura stessa dello scritto, di carattere giuridico. Le prime Costituzioni non furono propriamente redatte da madre Mectilde, ma dal priore di Saint-Germain-des-Prés al quale ella aveva affidato l’incarico, dato che i monaci di tale priorato si erano presi a cuore gli interessi del nuovo Istituto dell’Adorazione perpetua [1].

Dalle lettere emerge comunque un processo di revisione e definizione delle Costituzioni:

«Abbiamo cominciato a leggere le Costituzioni in comunità. Si trovano molte cose a ridire, ma non ho voluto che si operassero cambiamenti non adatti per le altre case. Vedremo di accomodare le cose senza guastare niente» (NDT, p. 223) (2779).

«Sto lavorando a perfezionare le Costituzioni, chiedo per questo le vostre preghiere» (NDT, p. 139) (1078).

Le lettere aggiungono all’immagine di comunità risultante dalle Costituzioni una vivacità di rapporti, un’intensità di sfaccettature umane che permettono di intravvedere la ricchezza delle prime comunità fondate dalla Madre.

Mectilde de Bar nel suo tempo

Vediamo brevemente alcune coordinate storiche entro le quali si inserisce l’opera di Madre Mectilde de Bar, che meglio possono aiutare a valutare le caratteristiche del suo pensiero.

In Francia, in campo benedettino, il movimento di rinascita post-tridentino si era espresso nella fondazione di Saint-Vanne. Tale fondazione aveva presto varcato le frontiere della sua terra d’origine, la Lorena. Questa espansione anche in altre regioni suscitò una nuova congregazione, quella di san Mauro, che deve la sua origine, nel 1621, all’opera di Dom Gregorio Tarrisse. La congregazione ebbe un rapido sviluppo. Era retta da una legislazione prudente ed equilibrata che associava all’impegno liturgico e spirituale, quello intellettuale. La vita ascetica era seria ed esigente, spinta fin ad un certo rigorismo. Dom Tarrisse godette in Francia di un grande prestigio, impresse uno sviluppo straordinario all’organizzazione degli studi ecclesiastici e monastici, con un programma preciso in fatto di corsi, biblioteche, lavori compiuti in Comune. Il quartier generale di questa immensa operosità era stabilito nell’Abbazia parigina di Saint-Germain-des-Prés [2].

Madre Mectilde de Bar, nata in Lorena nel 1614 e professa tra le Benedettine di Rambervillers nel 1639, per varie vicissitudini che la obbligarono a continui spostamenti, ebbe modo di entrare in contatto con entrambe le congregazioni di benedettini della Riforma: i Vannisti e i Maurini. In particolare fu aiutata nella fondazione dell’Istituto dai monaci di Saint-Germain-des-Prés che presero sotto la loro «giurisdizione spirituale» il primo monastero parigino di rue Cassette [3].

Accanto all’influsso di questa corrente di rinnovamento propriamente benedettina, va posto anche l’apporto di pensiero della Scuola Francese con i suoi grandi maestri: Bérulle, Condren, Olier.

Bisogna inoltre tener presente che il secolo in cui è vissuta madre Mectilde e il successivo, videro sorgere nella Chiesa una straordinaria varietà di nuove comunità religiose: quelle dei chierici che hanno vita comune, ma non i voti (come ad esempio gli Oratoriani) e altre forme di vita consacrata come le Suore della Carità di san Vincenzo. Tutte queste, nella ricchezza e diversità delle loro opere, mostrano la grande fecondità di vita che si sprigiona nella Chiesa all’indomani del Concilio di Trento. Tuttavia le congregazioni sembra non offrano apporti di notevole rilievo o di novità per quanto riguarda la dottrina e la spiritualità delle comunità. Le indicazioni offerte dal Magistero sulla vita comune tendono ad insistere sempre più sull’osservanza e sull’uniformità [4].

Alle sorgenti della Chiesa

Al nascere di ogni nuova comunità ritroviamo quasi una nostalgia delle origini della Chiesa, nell’aspirazione a ripetere L’esperienza singolare di unità e di comunione così come Gesù l’aveva insegnata ai suoi discepoli e con loro condivisa e come era stata immediatamente vissuta dai primi cristiani di Gerusalemme. Il richiamo alla comunità gerosolimitana, sempre presente nella coscienza cristiana, comincia a farsi particolarmente insistente a partire dal III secolo, soprattutto con Origene in Oriente e Cipriano in Occidente. Il riferimento esplicito alla comunità degli Apostoli e dei discepoli intorno a Gesù è più tardivo. Esso appare con il movimento di risveglio evangelico e di rinnovamento ecclesiale che pervade la Chiesa nel XII e XIII secolo [5].

Anche Mectilde de Bar pone all’attenzione delle sue monache questo modello ideale di comunità. Lo richiama nella prefazione delle Costituzioni rifacendosi alla dottrina di san Bernardo, e ne tratta più ampiamente nel 1° capitolo delle stesse:

«Questo spirito di comunità regnava tra gli Apostoli e i primi cristiani ne facevano professione; ed era loro gioia e loro delizia non possedere alcuna cosa. Proprio da queste prime piante del campo della Chiesa, dobbiamo apprendere la pratica di un santo distacco, avendo sul loro esempio un solo cuore, una sola volontà ed un medesimo spirito, recidendo ogni singolarità, per conformarci in tutto alla Regola comune del monastero» (COST, p. 7).

1. TEOLOGIA COMUNITARIA

Da sempre la Chiesa ha cercato di leggere la propria realtà come un’esperienza di comunione; come espressione della comunione trinitaria. Da sempre si è sentita chiamata a manifestare nella propria vita il rapporto d’amore tra il Padre e il Figlio (figliolanza) e lo scambio esistente tra le tre Persone divine (fraternità). Anche la teologia del Concilio Vaticano II ha lasciato l’immagine, un po’ statica, della Chiesa come società perfetta, per recuperare altre visuali, già care ai Padri e più consone con la realtà di comunione propria del Corpo di Cristo. Da questo deriva che ogni esperienza di comunità che si sviluppa nella Chiesa, va letta con gli stessi parametri, alla luce dello stesso mistero trinitario che la fonda.

Il significato profondo della comunità è fornito dalla somma dei due assi della koinonia ecclesiale, che devono realizzarsi in ogni chiamata cristiana. Nello stesso momento in cui Dio ci innesta in Cristo, ci fa entrare, per mezzo del Battesimo e dell’eucaristia nell’esperienza consapevole della FILIAZIONE e della FRATELLANZA. Questi, che sono i due assi della Koinonia ecclesiale, sono vissuti in ogni chiamata cristiana, seppure in modo differente. Perciò la comunità religiosa deve realizzare questi due aspetti: quello teologale-verticale della filiazione e quello fraterno-orizzontale [6].

Il primo di essi, l’asse verticale, quello della filiazione, della ricerca di Dio come ciò che è unicamente necessario, ci delinea alcune caratteristiche della comunità: la comunità non è frutto dello sforzo puramente umano ma è dono del Padre, dono che viene dall’alto e giunge a noi, si realizza attraverso la croce di Cristo. La sofferenza, la fatica interna ed esterna alla comunità, non sono realtà che la distruggono, ma il contrassegno di un’opera che è frutto della volontà di Dio. Nonostante avverta tutte le forze opposte che potrebbero distruggerla, la comunità vede con stupore che continua ad esistere e si rende conto che tutto questo avviene per grazia di Dio, per la forza dello Spirito che in essa è operante.

Se guardiamo all’asse orizzontale, vediamo che la comunità, ad imitazione della Trinità, è luogo di interscambio. Al di sopra delle possibili difficoltà si tende all’offerta e alla donazione reciproche, perché ciascuno possa crescere facendo crescere l’altro. Questo richiede una continua conversione, perciò la comunità è anche luogo di riconciliazione e diviene testimonianza della forza di coesione di Dio che è più forte di tutte le tendenze umane alla disgregazione e riesce a cementare in unità persone che avrebbero mille motivi per essere divise [7].

Da queste linee fondamentali sul significato di ogni vita comunitaria cristiana veniamo al rapporto esistente nelle comunità di madre Mectilde tra i due assi della koinonia. Le diverse fisionomie della famiglie religiose formatesi nei secoli sono date infatti dall’equilibrio differente tra la dimensione verticale e quella orizzontale.

Una comunità benedettina

Il carisma eucaristico mectildiano si è inserito pienamente sul fondamento monastico benedettino, quindi il modello di vita comunitario che Catherine Mectilde de Bar vuole nelle sue fondazioni è, essenzialmente, quello realizzato mediante la Regola di san Benedetto. In più, la vocazione ad unirsi in modo particolare a Cristo nel suo mistero pasquale, accentua l’impegno di rinuncia a se stessi, per formare, intorno all’Eucaristia, la comunità come corpo vivente del Cristo.

Abbiamo già visto come le Benedettine del SS. Sacramento furono validamente aiutate dai monaci di Saint-Germain-des-Prés. In particolare: Nel 1686, Madre Mectilde fa stampare per le sue figlie gli «Esercizi spirituali«, o pratica della Regola di san Benedetto ad uso delle Benedettine dell’Adorazione perpetua del SS. Sacramento. Ora, questo non è quasi altra cosa che l’opera di Dom Claude Martin intitolata: «La pratica della Regola di san Benedetto« (con le sole varianti proprie al carisma dell’adorazione e della riparazione). Questo libro, dichiara Madre Mectilde in una lettera pubblicata in capo al volume, ci potrebbe bastare per condurci alla perfezione del nostro stato. L’identità di interpretazione della Regola di San Benedetto presso i Maurini e le Benedettine del SS.mo Sacramento è dunque attestata dalla fondatrice stessa [8].

Ma, nella Regola, qual è il rapporto tra i due assi della koinonia? Secondo De Voguë, l’asse costitutivo del cenobitismo, e quindi anche della nostra Regola che è per cenobiti, è il rapporto verticale che unisce i discepoli al maestro [9].

La struttura comunitaria benedettina appare gerarchizzata. L’unità tra tutti è garantita dal rapporto verticale di obbedienza verso l’abate. È attorno alla sua persona, come attorno al Cristo, al Padre, al Maestro che tutti convergono e costituiscono comunità. L’importanza del ruolo dell’abate risiede nel fatto che è visto come la presenza stessa del Cristo in mezzo ai suoi discepoli, come dice espressamente la Regola: «per fede sappiamo che nel monastero tiene le veci del Cristo» (RB 2,2). La centralità dell’abate non esclude però i rapporti orizzontali tra i monaci, piuttosto li ordina [10].

Dunque, nella comunità benedettina, la dimensione verticale ha la precedenza su quella orizzontale, ed è prevalente. Essa diviene poi il fondamento della dimensione orizzontale.

Anche negli scritti di madre Mectilde si riscontrano le stesse caratteristiche: il ruolo primario di chi presiede la comunità e, contemporaneamente, la necessità che esistano veri e sinceri rapporti fraterni, mossi dalla stessa fede che fa riconoscere Cristo nell’Abate.

Per meglio comprendere i testi, bisogna precisare che Mectilde de Bar, nei monasteri da lei istituiti, riserva il titolo e il ruolo (in senso mistico) di abbadessa, alla Beata Vergine Maria. In questo, ella si rifà ad antiche consuetudini monastiche. Perciò, nelle comunità delle Benedettine del SS.mo Sacramento, il compito di Superiora Maggiore, così come lo definisce il Codice di Diritto Canonico, è svolto dalla madre priora. Essa è – da quanto emerge dagli scritti mectildiani – per le monache, mediazione della volontà di Dio. Già al momento dell’elezione, che viene fatta dalla comunità, le Costituzioni esortano a scegliere non secondo i criteri umani, ma considerando soltanto la pura gloria di Dio e il bene della Religione (cf. COST, cap 64, dell’elezione della priora, par 3).

Ogni vertenza ed ogni questione, in monastero, fanno capo alla persona della madre priora: (cf. COST cap. 1, la cost. sulla clausura, par. 8; 5a cost. sulla clausura par. 16; cap. 36, par. 16; cap. 37, par. 2; cap. 40, par. 10; cap 57, par. 12):

«Dio ci riunisce. Dico che Dio riunisce questo piccolo gruppo e che dobbiamo essere come gli Apostoli nel cenacolo in attesa dello Spirito Santo. E voi sorelle mie, siete nell’attesa della volontà di Dio su di voi, che vi sarà manifestata non da un angelo, ma dalle vostre superiore» (AdD, p. 110) (350).

Colei che è posta a guida delle comunità non è comunque un freddo trasmettitore dei voleri divini. Dalla corrispondenza di Mectilde de Bar con le sue figlie emerge tutta la tenerezza di una madre, con espressioni che a volte fanno sorridere, ma che rivelano una capacità di adattarsi ai diversi temperamenti, come san Benedetto chiede all’abate. In una lettera alla comunità di Rouen, madre Mectilde descrive quale deve essere il rapporto che deve stabilirsi con la madre priora:

«II nostro grande patriarca vuole che sia amata con tenerezza unita a reverenza. Molto a proposito egli raccomanda di amarla, perché senza affetto è raro che si possa gettare in un cuore la propria confidenza» (NDT, Let. 111) (640).

Ma anche la priora stessa cerca la presenza di Dio nella sua comunità:

«Faccio tanto caso ad un atto comunitario che, nonostante tutti gli affari che ho fin sopra i capelli, lascio tutto per venire a ricreazione, perché sono certa che vi troverò Dio, mentre non sono affatto certa di trovarlo altrove» (AdD, p. 148) (640).

Lo spirito di fede, che deve regolare sia i rapporti con la madre priora e le sorelle, come l’impegno nei propri incarichi, è una realtà presente ovunque, in tutti i generi di scritti. Sempre è richiesta una fede che, secondo quanto dice san Benedetto, sappia cercare Dio in tutto:

«Vi prego, abbiate un grande amore per la vita comune. Amiamo ciò che è comune e conformiamoci ad esso. Infatti, tutto ciò che ordinano la Regola e i superiori è Dio che lo vuole» (AdD, p. 105) (669).

«Tutto ciò che la Regola, le Costituzioni e i superiori vi ordinano è Dio che ve lo chiede e vuole che gli obbediate senza ragionare. Dite dunque quando suona la campana: «Mio Dio tu mi chiami ed io ti obbedisco«. Se siete in ricreazione è per ordine di Dio. Ricreatevi innocentemente, perché lui lo vuole. Se siete al forno o alla porta: Dio lo vuole, obbeditegli. Se siete in cucina, fate il beneplacito di Dio egli lo vuole; stateci con gioia, accogliendo con amore la sua santissima volontà» (NDT, Let. 48) (1261).

«Viviamo di fede, agiamo per fede e ci comporteremo bene verso il nostro prossimo, perché sempre vedremo in lui Dio che ci impedirà nelle occasioni, di condannarlo o censurarlo» (AdD, p. 87) (417).

Un solo cuore

Frequentemente ritorna negli scritti della Madre il tema dell’unità dei cuori o della «santa unione», come esortazione, come meta da raggiungere, ma anche come realtà già presente nelle comunità e che è per lei motivo di gioia.

«Non posso ringraziare abbastanza Nostro Signore dell’unione che opera nei vostri cuori» (NDT, Let. 45) (860); vedi anche NDT, Let. 80 (2680).

«L’unità tra i vari monasteri dell’Istituto deve essere intera e perfetta, conservando una santa uniformità, in modo da trovare in tutte le case un medesimo spirito, un medesimo cuore ed una medesima osservanza» (COST, cap. 61, par. 11).

«Apprendo con immensa consolazione le grazie che l’infinita bontà di Dio riversa nei vostri cuori. E come lo Spirito Santo faccia fra voi tutte una vera unione. Sono colma di gioia nell’apprendere la più dolce e preziosa notizia che avrei potuto desiderare. Ecco gli effetti della divina Eucaristia, per l’intercessione della vostra santissima e gloriosa Abbadessa, l’augusta Madre di Dio» (NDT, Let. 45) (860).

La carità reciproca è strettamente legata all’Eucaristia tanto che, in una lettera ad una monaca inviata nel monastero di Caen per preparare l’aggregazione di quella comunità, la Madre scrive:

«Vi prego di insinuare bene lo spirito dell’Istituto, le cui pratiche si trovano nelle Costituzioni. È importante fargliele ben comprendere, sia riguardo al culto del SS.mo Sacramento, sia per la carità vicendevole, conservando una santa cordialità, senza mai contese, né nulla che possa far deviare dalla fedeltà di una vittima» (NDT, Let. 123) (2457).

Naturalmente, l’archetipo e il fondamento dell’amore che unisce i membri della comunità è la comunione trinitaria.

«Dobbiamo rinunciare a noi stesse e all’amore del nostro spirito proprio, per amare soltanto con la carità di Gesù. Agendo così, vi prometto che diventerete dei Gesù Cristo e sarete in comunione tra voi e con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo» [11] (217).

«Che siano una sola cosa come siamo noi: il Padre è nel Figlio, il Figlio è nel Padre e lo Spirito Santo è in entrambi, e queste tre persone divine costituiscono un’unica essenza (...) Gesù con questa preghiera chiede al Padre che gli siamo unite e che attraverso lui, entriamo nell’unione del Padre e delle tre Persone divine!» [12] (3157).

In particolare, il Cuore di Cristo, dove la pienezza dell’amore divino si manifesta in un amore che è anche pienamente umano, diviene il modello e insieme il punto di convergenza per ogni membro della comunità.

La devozione al Sacro Cuore è caratteristica della pietà religiosa di quest’epoca storica. La Madre la fa propria, nella forma tipica che si rivolge solo al Cuore di Cristo, e anche in quell’espressione particolare che onora il Cuore di Cristo unito al Cuore di Maria.

«Siate una cosa sola come Lui lo è col Padre. Ecco il desiderio del suo cuore» (NDT Let. 45) (860).

«Pregate istantemente la sua bontà perché noi tutte non siamo che un sol cuore nel suo amore, o piuttosto che non abbiamo altro cuore che il Sacro Cuore di Gesù e di Maria che l’amore di Dio ha fuso in uno» (NDT, Let. 45) (860).

L’unità d’amore tra Gesù e Maria non è solo esempio per il rapporto tra la singola anima e il Cristo, ma diviene modello di unione tra i membri della comunità. Questa, dei Sacri Cuori, è una devozione che ha le sue origini in Giovanni Eudes, il quale, secondo le parole di Pio XI è stato il padre, il dottore e l’apostolo del culto liturgico ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria; egli insisteva sull’unità del Cuore di Gesù e del Cuore di Maria [13].

G. Eudes scrisse una preghiera (Ave Cor) al Cuore di Gesù e Maria, che madre Mectilde introdusse nei suoi monasteri e che ancora oggi si recita in gran parte delle comunità delle Benedettine del SS.mo Sacramento durante la preghiera comune.

Comunità aperta

L’avere un sol cuore, l’amarsi l’un l’altro, non fa però della comunità un ghetto o un circolo chiuso. Anche se è una comunità che vive nella clausura.

Le Costituzioni, al cap. 41, par. 9, trattando della ricreazione ammoniscono le monache:

«Non si intrattengano mai a parlare delle vanità del mondo né delle sue massime».

E al cap. 1, descrivendo le norme della clausura per lo stabile del monastero:

«Le nostre sorelle lo stimeranno come il prezioso monumento che dovrà seppellirle con Lui (il Figlio di Dio) separandole dal mondo in un totale oblio delle sue massime» (COST, cap. 1, 2a Cost sulla clausura, par. 1).

Una tomba dunque... come prospettiva è piuttosto terrificante! Da una lettura più ampia, però, gli scritti mostrano che questa vita di morte è solo per separarsi dal modo di pensare, dalle «massime» appunto, del mondo. In realtà da una simile tomba, come dal sepolcro di Cristo, deve uscire il dono della vita per il mondo. In più passi è ribadita la duplice finalità della vocazione delle Benedettine del SS.mo Sacramento: come il Figlio di Dio, anch’esse non devono avere altro di mira che la gloria del Padre e la salvezza dei peccatori (cf. COST, cap. 49, par. 1 e cap. 72 par. 2; NDT Let. 30 (968)).

Questo offrire la vita con Cristo per la salvezza dei fratelli, inizia proprio nella concreta palestra della vita comunitaria:

«Guardate alle vostre sorelle come vostre cauzioni e garanzie che riparano incessantemente per voi davanti a Dio. Questo non è forse un forte motivo che vi obbliga ad amarle appassionatamente? (...) Dare la vita per i propri amici è la prova estrema dell’amore (...) Cosa sapete di quanto le vostre sorelle soffrono per i vostri peccati? E non vorreste sopportare da parte loro una parola, un’antipatia, un’azione che urta i vostri sentimenti?»  [14] (196).

Quest’apertura non si rivela solo a livello spirituale, ma anche concreto. Nelle Costituzioni si esortano i monasteri, affinché siano disponibili a mandare sorelle in aiuto ad altre comunità dell’Istituto (Cf. COST, cap. 61, par. 11).

Inoltre, la corrispondenza di Mectilde de Bar rivela una cerchia molto ampia di conoscenze. Madre Mectilde era in relazione coi personaggi e gli ambienti più ferventi della Francia del suo tempo: Benedettini – Mauristi, Vannisti e altri – Benedettine delle grandi Abbazie riformate, religiose Annunciate, Carmelitane, Orsoline, Religiosi Domenicani, Cappuccini, Minimi, Certosini, Oratoriani, la Madre de Blémur, il Padre de Condren, il Padre Jean Chrysostôme, S. Jean Eudes e tanti altri. Pur conservando la sua identità, la fondatrice seppe trarre profitto da ogni risorsa presente in quel grande movimento spirituale che fu chiamato Scuola Francese  [15].

Una lettera dell’ 11 aprile 1665 di madre Mectilde alla priora di Toul, offre un quadro, quasi un plastico della spontaneità con cui si stabilivano rapporti anche tra comunità di diverso carisma:

«Oggi mia cara madre, vi scrivo solo una parola, avendo dovuto occupare la mattina in un atto di riparazione in seguito ad un funesto avvenimento, accaduto ieri notte nella Chiesa delle Religiose della Congregazione di Notre-Dame di Chasse-Midy, dove all’una o le due dopo mezzanotte hanno rubato il santo ciborio e provvidenzialmente, hanno gettato le sante ostie sull’altare, ciò che ha causato una immensa afflizione a quelle povere religiose e anche a noi. Ora, poiché qualche giorno fa era crollato il muro tra loro e noi, e ci siamo credute in dovere di andare a rendere omaggio al SS.mo Sacramento nella loro casa; perciò vi siamo andate stamattina in processione, dopo la Messa letta (...) Le buone madri di Chasse-Midy, vedendo uscire la nostra processione, hanno cominciato a suonare la loro campana e contemporaneamente si sono messe anche loro in processione e ci sono venute incontro per riceverci. Arrivate vicino, si sono ritirate da una parte e dall’altra facendoci ala per lasciarci passare, e dopo si sono unite alla nostra processione» (NDT, Let. 25) (1265).

E continua la descrizione della cerimonia di riparazione. Per comprendere la portata di questa iniziativa bisogna pensare alle norme sulla clausura che erano state emanate dal Concilio di Trento, secondo le quali non era consentito alle singole monache di lasciare il monastero senza il permesso dell’Ordinario, tanto più ad una comunità intera...

Per completare il discorso sui fondamenti teologici della comunità secondo Mectilde de Bar, possiamo qui riportare alcuni esempi di come ella fa uso della simbologia del Corpo Mistico e del gregge, immagini che ritroviamo anche nell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II (LG n. 6).

La comunità è un corpo: il Corpo di Cristo

Quello del corpo, formato da molte membra, è un tema caro alla Madre (Solo nelle Costituzioni appare 7 volte: cap. 22, par. 1; cap. 31, par. 8; cap. 41, par. 11 ; cap. 53, par. 2...). L’avrà certo attinto dalla sua frequentazione degli scritti paolini. È comunque un argomento che i maestri della Scuola Francese trattavano. Esso figura tra i temi contenuti nei discorsi di controversia di Bérulle, composti nel 1609 contro i Calvinisti [16].

Anche Condren parla del Cristo totale e Olier dice che l’intera Chiesa non è che un solo Cristo [17]. Madre Mectilde applica questa immagine del Corpo sia all’intera Chiesa che all’ambito della sua comunità.

«Vorrei essere in grado di introdurre bene la vera carità che parte dal cuore di Gesù e che noi dobbiamo avere come membra di questo Capo adorabile, ma il nostro guaio è che non ci guardiamo come sue membra, ci sottraiamo a questa unione per vivere da noi e per noi stesse, come persone particolari. Questo «tuo« e questo «mio« sono causa di ogni disordine. Non vediamo di buon grado che vengano favorite le altre, che siano consolate: ciò denota che non siamo unite al nostro Capo. Vi chiedo se la mano si lamenta di ciò con cui è calzato comodamente il piede. Assolutamente no! Abbandoniamo perciò quello che ci è proprio, per tenerci unite al cuore di Gesù nostro Capo» [18](1552).

La comunità: gregge del Signore...

«La madre priora sarà la prima a tutte le osservanze, all’orazione, all’ufficio, al lavoro, per stimolare le altre con la sua presenza. Un buon pastore non è sempre alla testa del suo gregge? Ora, la madre priora è il pastore del monastero» (AdD, p. 70 -Direttorio).

«Mi spingono, come fate voi, a venire presto a consolare il gregge del Signore» (NDT, Let. 82) (2770).

... Un gregge di vittime

La spiritualità oblativa-vittimale, propria delle Benedettine del SS.mo Sacramento e legata al carisma della riparazione, conferisce alla simbologia del gregge una impronta tutta particolare.

Tale aspetto vittimale si ritrova in molti passi delle Costituzioni e anche in altri scritti.

«(La madre maestra) in tutto seguirà i consigli della madre priora per condurre santamente il gregge delle vittime affidate dall’obbedienza alle sue cure, per consegnarle fedelmente a Gesù Cristo» (COST, cap. 58, par. 7).

«Siate agnelli di dolcezza e di semplicità, è un vostro obbligo, non solo come pecore dell’ovile di Gesù Cristo, ma di più: come agnelli destinati al sacrificio in omaggio all’Agnello senza macchia, immolato nella legge antica ed ora nel nostro adorabile Sacramento» [19] (196).

La comunità: il campo di Dio

Tra le immagini, che la Costituzione Lumen Gentium usa per rappresentare la Chiesa, vi è anche quella, forse meno nota, del campo. Anche di questa la Madre fa uso con una certa frequenza. Più che di campo, ella parla di giardino o di frutteto. Forse c’è, in questa terminologia, un tentativo di considerare la vita comune condotta in armonia, come il luogo in cui Dio può ritrovare quel giardino che aveva piantato in Eden (cf. Gen 2,8-9).

«Dove c’è la carità là c’è Dio; questo mi dà la certezza che Dio è con voi e in voi prende la sua compiacenza: che siete per Lui un giardino di delizie» (NDT, Let. 45) (860).

«Se avessi tempo, vi mostrerei come la santa Religione è un bel frutteto ove le anime sono poste come belle piante, per essere oggetto di compiacenza delle tre divine Persone» (AdD, p. 65) (1776).

Un giardino da coltivare

Fu il peccato a trasformare quel luogo in suolo che produce spine e cardi (cf. Gen 3,17-18) ed è la fatica del lavoro su se stessi che può ritrasformare in giardino la convivenza umana.

«Portiamo sempre con noi un falcetto per tagliare quella parola, stroncare quello sguardo, vincere quello scatto e, a poco a poco, senza tanta fatica, cresceremo. È molto più facile rompere e strappare all’inizio un piccolo arboscello, anziché attendere che abbia forti radici e un grosso tronco. Non vi dico grandi parole che vi sconcerterebbero, come: morte continua e grande mortificazione. Mi direste: come è possibile morire e rinnegarsi continuamente? Ma è più dolce dirvi: «Togliete, scalzate, tagliate« e in seguito vedrete che Dio benedirà la vostra piccola fatica» (AdD, p. 203) (2602).

2. VITA COMUNITARIA

Al di là delle immagini, quale volto concreto presentavano le comunità monastiche fondate da Mectilde de Bar? Quale era lo stile dei rapporti umani che si intessevano in esse?

L’intera panoramica degli scritti analizzati presenta un quadro vivace ed interessante che qui, per motivi di spazio, non è possibile mostrare con completezza.

Cogliamo solo alcune linee emergenti.

Dalle Costituzioni appare molto marcata la strutturazione gerarchica della comunità (COST, cap. 25, par. 3). Ci sono: la madre priora, la vice-priora, le discrete, le varie ufficiali, ciascuna delle quali ha una o più aiutanti che sono invitate a prestare il proprio servizio con sottomissione e senso di collaborazione, in una santa unione, senza mostrare dissensi (COST, cap. 36, par. 8; cap. 58, par. 31; cap. 65, della carica di vice-priora par. 4; cap. 31, par. 6).

I rapporti «orizzontali» sembrano limitati alle poche necessità di lavoro; gli scambi di vedute sono possibili solo nell’ambito del Capitolo di comunità (dove è un dovere esprimere il proprio parere; cf. COST, cap. 58, par. 11) oppure con la madre priora.

«Non si scambino mai le loro opinioni sulla condotta dei superiori né su chiunque altra, nemmeno per osteggiare o favorire qualche affare, ma si accontentino di esporre il loro parere nelle riunioni capitolari, oppure in privato alla madre priora» (COST, cap. 69, par. 3).

«All’infuori del tempo in cui è permesso di parlare e conferire insieme nelle ricreazioni ed in altri tempi permessi, le sorelle non terranno discorsi tra loro, senza il permesso della madre priora che lo concederà raramente secondo lo spirito della Regola» (COST, cap. 6, par. 3).

«Incontrandosi, le sorelle nel monastero si salutino a vicenda con un inchino, senza rompere il silenzio con manifestazioni di affetto o di altri discorsi inutili» (COST, cap. 63, par. 8).

Nei tempi consentiti invece:

«Dopo il refettorio, le sorelle si rechino nel luogo stabilito per ricrearsi con semplicità  ed innocenza. La conversazione sia franca, senza tristezza, accompagnata da umiltà, dolcezza, affabilità, evitando di offendersi vicendevolmente, di contestare o manifestare qualche ripugnanza, avversione oppure amicizia particolare che ostenta di preferire intrattenersi più con una che con un’altra» (COST, cap. 69, par. 7-8).

Le amicizie particolari sembrano non essere ben viste:

«L’esperienza ci fa vedere che le amicizie particolari, ordinariamente, sono vivai di vizi, che distruggono la carità comune, portano al disprezzo dell’obbedienza e diventano spesso scandalo della Religione. Per preservare le nostre sorelle da un male così notevole, proibiamo in modo assoluto simili amicizie» (COST, cap. 69, par. 1-2).

Ma probabilmente questo non intende abolire l’amicizia in sé, forse si riferisce a quelle amicizie che non aiutano veramente le persone a crescere, ma le isolano dall’ambito vitale della comunità.

Nelle lettere infatti la Madre non si pone problemi nell’usare la parola «amica»:

«Ho ricevuto ieri sera la lieta notizia della felicità toccata alla più intima amica che mi restava in questo mondo» (NDT, Let. 88; vedi anche NDT, Let. 87 e Let. 110) (1365;1078; 3018).

Anche scrivendo alle sue figlie abbonda nelle espressioni di tenerezza e di affetto, non prive di un certo humour:

«Sento carissima figliola che il vostro povero cuoricino è un po’ malcontento della vostra povera madre. È vero, ne avete motivo per il ritardo delle risposte che vi devo» (NDT, Let. 32) (1421).

«Non so perché, carissime, dubitate del cuore della vostra povera madre. Volete che ve ne faccia una promessa davanti al notaio? Io sono prontissima a firmarla davanti all’altare del Signore e questo come testimonianza irrevocabile della mia sincera fedeltà. No, no, non è il cuore che manca, ma il tempo che io non posso fermare» (NDT, Let. 117) (1168).

«Ho ricevuto con gioia le testimonianze del vostro affetto verso la mia grande patrona Santa Caterina e l’espressione del vostro ricordo con il dono di tanti mazzolini e altre belle cose. Vi assicuro che aprendo il vostro pacco alle 10 di sera per essere più tranquilla, ho ripetuto almeno 100 volte: «Care figliole! Son troppo buone, si sono disturbate per mandarmi il loro regalo!« Dunque mie carissime, li ricevo con lo stesso cuore con il quale so che me li mandate» (NDT, Let. 22) (742).

Per alimentare questi fraterni rapporti madre Mectilde compì molti viaggi nelle comunità fondate, nonostante le già citate leggi restrittive sulla clausura. I Decreti del Concilio di Trento dicono: Né sarà permesso ai religiosi di uscire dai loro conventi, a meno che fossero mandati o chiamati dagli stessi superiori. E chi sarà trovato senza quest’ ordine scritto, sarà punito dagli Ordinari locali come disertore del suo istituto. Quanto alle monache nessuna, dopo la professione, potrà uscire dal monastero anche per breve tempo, con un qualsiasi pretesto, salvo che per un legittimo motivo approvato dal vescovo, e ciò nonostante qualsiasi indulto [20].

A volte il desiderio di rivedere le sorelle di Rambervillers (monastero in cui la Madre ha emesso la sua professione) è tanto grande che le fa escogitare qualche stratagemma. Scrivendo alla vice-priora di quel monastero dice:

«Spesso la nostra madre vice-priora ed io cerchiamo il modo di fare un breve viaggio e avere la consolazione di intrattenerci con voi ancora una volta prima di morire. Non vedo un’occasione più prossima e migliore di questa: andare a Plombières invece che a Bourbon, per curare un braccio che, un giorno, penso possa infermarsi. Ho degli attacchi molto forti e non voglio prendere rimedi, affinché i medici mi ordinino, come unica risorsa, le acque termali, e Dio sa come correrei diritta a Rambervillers. La mia cura la farei proprio lì e, se piacesse a Dio, anche la tomba, senza preoccuparmi di tornare. Ecco una piccola arguzia delle mie: ma purtroppo dura poco, perché abbiamo tanto poco tempo per respirare che a malapena ne troviamo per distrarci» (NDT Let. 13) (1594).

Dunque i rapporti fraterni erano ben vivaci e le comunità unite, e quando un gruppo di monache doveva partire per una fondazione, come avvenne per la fondazione a Varsavia (Polonia), tutta la comunità era in un fermento tale da trapelare anche al di là delle rigide norme sul silenzio:

«In nome di Dio, non trascurate nessuna occasione di farci sapere qualche cosa e il timore delle spese non vi serva affatto di scusa, poiché non pagheranno mai abbastanza la consolazione che aspettiamo dalle vostre lettere. Due o tre giorni fa ce ne portarono una che avevate scritta a Honfleurs: ci furono tali grida di gioia in tutta la casa che sembrava fossimo diventate tutte pazze; consolateci dunque in tutti i nostri timori e dispiaceri della vostra lontananza» [21].

Alcune norme sembrano sacrificare la singola persona in nome della lotta all’individualismo e alla singolarità, come: l’uso della presenza di uditrici durante i colloqui in parlatorio, l’obbligo di tenere sempre la porta aperta quando due monache parlano insieme (eccetto nei colloqui con la madre priora e, per le novizie, con la madre maestra), la prescrizione di essere sempre in due quando si apre qualsiasi porta che comunichi con l’esterno o quando si accompagnano medici o sacerdoti che debbano entrare in clausura, ecc. (COST, cap. 22, par. 12, cap. 36, par. 23).

Leggendo queste disposizioni disciplinari bisogna però tener conto del fatto che l’organizzazione della vita religiosa, a quell’epoca, non conosceva tutti gli apporti della psicologia e dell’antropologia, venuti solo in seguito. Nella mentalità di quel tempo la promessa solenne, fatta dai religiosi, era considerata un valore assoluto, perché fatta a Dio. Le norme sopra elencate divenivano quindi una forma di difesa della persona, un aiuto per preservarla dal pericolo di venir meno ai suoi voti.

Il prevalere di ciò che è comune rispetto al singolo rientrava comunque nel clima della vita religiosa dell’epoca. Pensiamo, come esempio parallelo, alla già citata Congregazione dei Maurini dove i grandi lavori di ricerca e di pubblicazione di testi antichi, che hanno contraddistinto questi eruditi monaci, erano svolti in comune. Non compariva il nome del singolo monaco ricercatore, ma tutto era sottomesso ad un comune progetto redazionale e stampato come opera della congregazione.

Altre norme e precisazioni rivelano, invece, una delicata attenzione alla persona: le postulanti prima della vestizione e le novizie prima della professione possono parlare con i loro congiunti senza che sia presente l’uditrice (COST, cap. 58, par. 24); le monache non osino mai entrare nelle celle delle sorelle senza esplicito permesso e, se per qualche motivo ne fossero autorizzate non ardiscano fermarsi a leggere qualsiasi scritto vi si possa trovare, sotto pena di peccato (COST, cap. 22, par. 11); anche le sorelle incaricate di portare ogni settimana il pacco di biancheria pulita, non entrino nelle celle, ma lo depositino all’ingresso delle stesse (COST, cap. 22, par. 11); le monache hanno il permesso di scrivere al superiore generale senza l’obbligo di far leggere tali lettere alla madre priora (COST, cap. 24, par. 3); si vieta inoltre al confessore, di ordinare alle monache penitenze pubbliche e si guarderà dall’imporre loro delle macerazioni corporali che possano essere di pregiudizio alla loro salute (COST, cap. 62, par. 6).

Le norme riguardanti i tempi di ricreazione denotano una particolare attenzione alle esigenze della natura umana:

«(nella settimana che precede l’Avvento e nelle due settimane prima della Quaresima) la madre priora darà anche qualche supplemento di ricreazione più che negli altri tempi, per intrattenersi gioiosamente recandosi tutte insieme, per quanto è possibile, al luogo destinato, per unire santamente i cuori; se la madre priora lo riterrà opportuno, potrà concedere la stessa libertà un giorno alla settimana durante l’anno» (COST cap. 41, par. 15).

«Diamo il permesso di parlare dopo compieta i giovedì e gli altri giorni di esposizione del SS.mo Sacramento (...) essendo ragionevole permettere alle sorelle di ricrearsi un po’, dopo aver trascorso tutta la giornata in adorazione davanti al SS mo Sacramento» (COST, cap. 42, par. 4).

È interessante anche notare l’importanza che viene attribuita al parere della comunità (COST, cap. 3, par. 7; cap. 64, par. 2, 24 e 26).

Nelle Costituzioni è previsto che il superiore religioso sia eletto dalla comunità, scegliendolo tra 3 candidati proposti.

«Essendo i monasteri del nostro istituto sotto la giurisdizione dei Signori Vescovi, essi ha diritto di farvi la visita e tutte le altre funzioni di Superiore. Non potendo però, ordinariamente, occuparsi di ciò personalmente, ogni monastero eleggerà ogni tre anni una persona cui ricorrere al bisogno, sotto l’autorità del Vescovo del luogo» (COST, cap. 64, par. 1).

Tale norma non si trova più nelle Costituzioni successive dove è previsto che il superiore sia nominato direttamente dal Vescovo (cf. Costituzioni approvate da Papa Clemente XI, 1705, corrette secondo il Diritto Canonico ed approvate dalla S.C. dei Religiosi nel 1928; cap. 64, par. 1-2).

La vocazione ad essere vittime, ribadita dalla Madre in tutti gli scritti, potrebbe far pensare alle comunità delle Benedettine del SS.mo Sacramento come ad ambienti tetri dove si respira un clima di pessimismo, invece questo carisma non autorizza ad assumere atteggiamenti di vittimismo e di tristezza che divengono un peso per le sorelle che vivono accanto:

«Vi esorto ad essere molto libera e disinvolta, non siate troppo seria con le vostre sorelle, in modo che il vostro umore troppo concentrato sia loro di peso. Fate apparire la gioia della vostra santa prigionia di Dio per incoraggiare i piccoli all’amore di Nostro Signore» (NDT, Let. 41) (3074).

«Voi sapete che quello sciagurato nemico (il diavolo) fa di tutto per farci cadere in qualche eccesso. Ora, la tristezza è il suo nido, ove egli gioca il suo gioco per farci perire, poiché la tristezza ci rende incapaci della vera luce dato che ci immerge in orribili tenebre» (NDT, Let. 67) (2257).

Naturalmente, come in ogni realtà umana, anche nelle comunità fondate da Mectilde de Bar non tutto scorre per il meglio; ogni convivenza conosce le sue difficoltà.

Il fatto che madre Mectilde ne prenda atto, ci dice che in lei non manca un sano realismo.

«Cerchiamo di sopportarci il più possibile, perché non siamo nell’eremo, ma nel cenobio. Dunque bisogna vivere nella purezza e santità di tale stato e questo potete farlo senza uscire dal vostro deserto, abituandovi a vedere Gesù nelle vostre sorelle e ad amarle e servirle come Cristo» [22].

Dalle prescrizioni e dai divieti presenti nelle Costituzioni, si intravedono i casi di conflitto e le difficoltà che possono sorgere nelle comunità.

Può capitare che «per eccesso di zelo» qualcuna eserciti indebite ingerenze in uffici che non sono di sua competenza, portando così disordine (cf. COST, cap. 37, par. 2 e cap. 65, par. 8).

Anche le riunioni comunitarie possono presentare situazioni di «surriscaldamento» degli animi:

«La madre priora concederà una giusta libertà di poter esporre il loro parere, e anche di appoggiarlo con argomenti, ma essa imporrà il silenzio ed anche penitenza, se sarà necessario, alle contestatrici ed a quelle che mormoreranno o mostreranno qualche segno di malcontento» (COST, cap. 3, par. 3; vedi anche cap. 71, par. 4).

In ogni capitolo delle Costituzioni viene sempre, innanzitutto, proposto l’ideale in tutta la sua grandezza:

«Il profeta Isaia ci presenta Gesù Cristo sotto la figura di un agnello che si lascia condurre al macello e soffre senza lamentarsi che gli sia tolta la vita. Le nostre sorelle che per il loro stato hanno l’onore di partecipare alla sua qualità di vittima, devono comportarsi allo stesso modo verso coloro che le perseguitano e che danno loro occasione di soffrire. E poiché non è loro permesso di nutrire dell’avversione o risentimenti nel cuore non devono mai avere parole aspre o pungenti alla bocca; ma in simili occasioni considerino coloro che fanno loro esercitare la pazienza come dei sacrificatori che le immolano a Dio e di cui egli si serve per operare la loro distruzione. È espressamente proibito che qualche sorella presuma di correggerne un’altra: questo è riservato alla madre priora e, in sua assenza alla madre vice-priora. Dove tutti si prendono la libertà di rimproverare, le liti sono continue» (COST, cap. 70, par. 1-2).

Realisticamente si prevede però anche il caso in cui la virtù non riesca ad avere la meglio:

«... ma se quelle che hanno ricevuto da un’altra qualche offesa non hanno tanto coraggio da farne la materia di un generoso sacrificio, ne faranno le loro lagnanze alla madre priora e in sua presenza, si chiuderà la controversia, senza pretendere altre soddisfazioni, sottomettendosi alla sua decisione e non parlandone più» (COST, cap. 70, par. 2).

Secondo quanto dice il cap. 72 della Regola benedettina, non ci sono solo infermità morali da sopportare a vicenda, con instancabile pazienza, ma anche quelle fisiche. A giudicare da quanto affiora dalle lettere, le indisposizioni e le malattie non erano rare, ma insieme a tanta umanità, madre Mectilde sa mettere un pizzico di umorismo anche in questo campo.

«Poiché entriamo nel periodo del digiuno, non vedo proprio nessuna tra voi abbastanza forte per digiunare. La cara madre vice-priora ha meno salute di quanto dice, ma è portata dal fervore. La cara Sainte-Agnès non può, essendo troppo debole: mangerà carne fino all’avvento. La cara Soeur des Anges non digiunerà affatto. La madre vice-priora vedrà se non ha bisogno di mangiar di grasso per qualche settimana. La cara madre maestra continuerà a mangiare carne per tutto il mese prossimo. La cara Soeur du Saint-Esprit, essendo malata, non può digiunare né fare il magro finché non starà meglio» (NDT, Let. 85) (1251).

«Intanto mi sto preparando cautamente (al prossimo viaggio), la comunità fa fulmini e saette, perché non mi credono ancora in grado di mettermi in viaggio, dato che il medico mi ha ordinato di mangiare carne e uova e quindi di non digiunare. Sono molto contrariate perché non gli obbedisco. Checché egli ne dica, io mi sento abbastanza bene, devo pure abbandonarmi alla divina volontà» (NDT, Let. 105) (38).

Chiudiamo questa esposizione sulla comunità in madre Mectilde con il tratto finale di una sua lettera che ci apre alla dimensione ultima della vita comunitaria: la realizzazione piena della comunione si raggiungerà solo nell’eternità.

«2 giugno 1666, vigilia dell’Ascensione, verso mezzanotte. (...) Vi dico ancora una volta buona sera, mie amatissime figlie, nell’attesa che la divina Provvidenza mi rimandi per dirvi un piccolo buongiorno fino a quello dell’eternità, dove non vi sarà più notte, più eclissi, più separazione. Poiché il giorno e la notte gaudiosa nel pieno possesso saranno senza fine, noi saremo al colmo di ogni beatitudine e allora saremo efficacemente uno in Gesù, come Gesù è uno col Padre. È a questa amabile unione che noi tutte aspiriamo e nella quale prego Gesù di compiere la nostra consumazione. Amen» (NDT, Let. 39) (303).



[1] Cf. J. Leclercq osb, Una scuola di spiritualità benedettina del XVII secolo: le Benedettine dell’Adorazione Perpetua, in Ora et Labora XXXII, n. 2 (1977), p. 58.

[2] dagli appunti raccolti da una lezione di padre Gregorio PENCO osb.

[3] Cf. J. Leclercq osb a.c., pp. 56-58.

[4] F. ciardi, Koinonia.Itinerario teologico-spirituale della comunità religiosa. Collana di Teologia 23, ed. Città Nuova, Roma 1992, p. 148.

[5] Ibidem, pp. 19-22.

[6] M.A. Asiain Garcia, Comunità in Dizionario teologico della vita consacrata, ed. Ancora Milano 1994 p.345.

[7] Cf. Ibidem, pp. 346-351.

[8] J. Leclercq, a.c., p. 60.

[9] Cf. A. De Vogüé, La Communauté et l’Abbé dans la Règle de Saint Benoît, Desclée de Brouwer, Paris 1961, p.127.

[10] F CIARDI, o.c., pp. 114-115.

[11] citato da Véronique Andral osb ap, Vita comune e crescita spirituale, in Deus absconditus n. 1 (1993), p. 26.

[12] Ivi.

[13] Cf. R. Deville, La Scuola francese di spiritualità, ed. Paoline 1990, p. 99.

[14] citato da V. Andral, a.c.

[15] J. Leclercq osb, Luci nuove su Catherine de Bar, in Ora et Labora XXXIV, nn. 2-3 (1979), p. 97.

[16] Cf. M. Marcocchi, La spiritualità tra Giansenismo e Quietismo nella Francia del Seicento, Collana La spiritualità Cristiana storia e testi, ed. Studium, Roma 1983, p. 35.

[17] Cf. R. Deville, o.c., pp. 132-133.

[18] citato da V. Andral, a.c.

[19] Ivi.

[20] Decreti del Concilio di Trento, Sess. XXV, cap. IV e V.

[21] Lettera alle monache di Varsavia, riportata da J .Leclercq osb in Una scuola di spiritualità benedettina ... cit., p. 70.

[22]  Testo tratto dal Calendario Spirituale allegato a Deus Absconditus n. 1 (1991), alla data del 25 febbraio.