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Ora et Labora, (nn. 1 e 2/2006)

 

Sr. Christine Bremer osb ap**
Madre Mectilde de Bar:
donna, madre (amma), sorella e maestra

"Quia plus amavit"...!

 

I. Premessa

Perché abbiamo scelto questo tema, dopo aver cercato di scoprire la concezione della donna nel primo monachesimo e nella vita di Benedetto? *

Sicuramente, ma non solo, per conoscere meglio M. Mectilde, la Fondatrice del nostro Istituto, quale davvero è questa donna, nostra Madre, sorella e maestra del nostro cammino. Tutto questo è anche molto necessario: la sua figura è stata spes­so tracciata malamente e deformata; più di tre cento anni tra lei e noi creano una grande distanza. M. Véronique Andral (1924-2001) ha aiutato me, come altri che conosco, ad uscire da questa difficoltà! E così fanno ancora molte altre! Ma prima di tutto una conoscenza ravvicinata della personalità della Fondatrice ci può aiutare a percepire meglio la nostra vocazione, personale ed unica, a farne esperienza, ad amarla e a viverla con gratitudine. Anche la preparazione per oggi mi è stata preziosa a questo riguardo !

Parleremo dunque di M. Mectilde come donna, madre, sorella e maestra: sono aspetti che non si possono scindere tra dì loro, essi scorrono insieme come le acque dì un fiume, solo che ci sono ogni tanto degli accenti diversi e gli uni o gli altri sembrano prendere il sopravvento. Forse però possiamo trovare nei testi, che leggeremo insieme, alcune caratteristiche qualificanti per ogni aspetto, che ci aiuteranno.

Prima di tutto, che cosa vuoi dire essere donna? II libro della Genesi è una fonte importante per la risposta. Dio ha fatto la creatura umana, uomo e donna, se­condo la propria immagine e a propria somiglianza (cfr. Gen 1,26). Ciò vuoi dire che la creatura umana è l'unica che Dio ha voluto per se stessa, l'unica creatura che solo attraverso il dono onesto di sé può realizzarsi completamente: lui/lei è chiamato/a ad essere "per" gli altri, a diventare un dono. La donna è perciò determinata, già come creatura, ad essere un aiuto per l'uomo: solo in questo rap­porto può veramente trovarsi e diventare se stessa.

La sua origine e valore come persona libera sono intimamente legate con la conoscenza e l'amore che riceve (cfr. Gen 2,23) e anche con l'amore che ella at­tinge e dona da questo amore ricevuto. Essere donna è nello stesso tempo essere sposa. Il carattere sponsale del rapporto tra le persone è già chiaro in Genesi. Non è a caso che nell'Antico Testamento Dio chiama il suo popolo sua sposa, sua moglie! (cfr. il Cantico dei cantici, i profeti Osea, Isaia e tantissimi testi che parlano dell'alleanza del popolo con lui). Dare l'amore vuoi dire dare la vita: così la don­na diventa madre (Èva = madre dei viventi), prima immagine e rappresentante di tutta l'umanità. Dio le affida gli uomini in modo speciale. Il peccato è una frattura nel rapporto, una ferita alla solidarietà e alla fidu­cia: "La donna che tu mi hai messo accanto mi ha dato (da mangiare) dall'albero. . .il serpente mi ha sedotta.,.": così il peccato offusca l'immagine di Dio e ne ruba lo splendore.

Ma il Signore Dio non pianta in asso i suoi uomini: in Gesù egli viene per condi­videre pienamente la loro condizione e per aprirli di nuovo al loro destino origi­nale. In questo ritorno egli assegna alla donna un posto del tutto speciale: "Porrò inimicizia tra te (il serpente) e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe. Questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno" (Gen 3,15): ella lotterà contro il maligno addirittura come madre, in Maria.

L'analogia tra Èva e Maria accenna al fatto che in Maria sarà pienamente manifesto tutto il contenuto della "donna" secondo l'accezione biblica del termine. Nella lettera apostolica del 15 agosto 1988, Mulieris dignitatem, n. 11, Giovanni Paolo II scriveva:

Occorre, in particolare, soffermarsi su quel significato (dell'analogia Èva-Maria) che vede in Maria la rivelazione piena di tutto ciò che è compreso nel­la parola biblica «donna»: una rivelazione commisurata al mistero della re­denzione. Maria significa, in un certo senso, oltrepassare quel limite di cui par­la il libro della Genesi (3,16) e riandare verso quel «principio», dove ci tro­viamo davanti la «donna», così come fu voluta nella creazione, quindi nell’eterno pensiero di Dio, nel seno della Santissima Trinità. Maria è «il nuovo principio» della dignità e vocazione della donna, di tutte le donne e di ciascuna. Chiave per la comprensione di ciò possono essere, in particolare, le parole poste dall'evangelista sulle labbra di Maria dopo l'annunciazione, durante la sua visita a Elisabetta: «Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente» (Le 1,49). Esse riguardano certamente il concepimento del Figlio, che è «Figlio del Al­tissimo» (Le 1,32), e il «santo» di Dio; insieme, però, esse possono significare anche la scoperta della propria umanità femminile... questa è la scoperta di tut­ta la ricchezza, di tutta la risorsa personale della femminilità, di tutta l'eterna originalità della «donna», così come Dio la volle, persona per se stessa, e che si ritrova contemporaneamente «mediante un dono sincero di sé».

Questa scoperta si collega con la chiara consapevolezza del dono, dell'elargizione da parte di Dio. Il peccato già al «principio» aveva offuscato questa consape­volezza, in un certo senso l'aveva soffocata, come indicano le parole della pri­ma tentazione ad opera del «padre della menzogna» (cfr. Gen 3,1-5). All’evento della "pienezza del tempo" (cfr. Gai 4,4), mentre comincia a compiersi nella storia dell'umanità il mistero della redenzione, della salvezza questa con­sapevolezza irrompe in tutta la sua forza nelle parole della biblica «donna» di Nazaret. In Maria, Èva riscopre quale è la vera dignità della donna, dell'uma­nità femminile. Questa scoperta deve continuamente giungere al cuore di cia­scuna donna e dare forma alla sua vocazione e alla sua vita.

Maria è "piena di grazia": la grazia è la perfezione della sua unicità femminile. In Maria, nella sua consapevolezza del dono che Dio le ha fatto, scopriamo noi la nostra vocazione di donna, quella vocazione che rende possibile a lei e a noi aver parte alla missione dì Gesù. A lei e a noi lo Spirito Santo, che l'ha adombrata, la­scia intuire il pieno significato del nostro essere donna e ci prepara così al dono totale di noi stesse: "Fiat mihi: si faccia di me secondo la tua parola." Come "ancilla Domini", Maria è immagine del Figlio, del Messia-Ebed (ser­vo) di Dio.

"Diventare Gesù Cristo", il tema dell'ultimo incontro dei noviziati del novembre scorso, significa per noi allora: diventare donna secondo l'immagine di Maria, la donna che con il suo: "Ecce ancilla Domini" ha dato la risposta più completa alla parola creatrice di Dio e con tutta la sua vita l'ha realizzata. Gesù ha detto: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). Il Fiat dì Maria è la partecipazione del suo personale, libero "io" - perché Dio rispetta sempre il libero volere dell'uomo, creato secondo l'immagine divina - al disegno di Dio.

Entro questa profonda dedizione verso ciascuno e verso tutti, che scaturisce dal incontro personalissimo con Cristo, lo sposo, possiamo accostare la figura di M. Mectilde de Bar e dimostrare che lei è veramente donna, vergine, consacrata, madre, sorella, maestra - e in quale modo lo è. Nel nostro mondo moderno, che ha un bisogno così urgente di modelli che ispirano, Madre Mectilde è una com­pagna di viaggio certamente esigente, ma altresì saggia e sicura. I suoi sentimenti e le sue parole, che ci raggiungono a partire dalle sue lettere, rap­presentano una limpida restituzione della profondità della sua vita interiore, che da alla sua missione un significato particolare; e ce la fanno intravedere come madre in modo personale e suggestivo.

Madre Mectilde voleva far crescere in tutti i cuori la nuova vita di Cristo e si sentiva pervasa dalla sua propria maternità, come da una missione ricevuta da Dio: non può sottrarvisi e indica la via con l'autorità che Dio le ha dato, sicura e senza paura di sbagliare.

Per farla breve: essere donna significa semplicemente: creatura che risponde a Dio con umiltà, sensibilità, dipendenza incondizionata, amore, verginità e sponsalità, bellezza: "II vostro ornamento non sia quello esteriore - capelli intrecciati, collane d'oro, sfoggio di vestiti - cercate piuttosto di adornare l'interno del vostro cuore con un'anima incorruttibile piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso da­vanti a Dio" (1Pt 3,3-4). Significa anche: vulnerabilità, servizio, fede (Beata quae credidisti ! ), piccolezza (Péguy vede le tre virtù teologali come donne: la fede come una sposa, l'amore come una madre, la speranza come una bambina!). La donna è presente con tutta se stessa nei momenti fondamentali della vita e del­la salvezza: nella nascita, nella morte, nella risurrezione e nel compimento che spe­riamo. Cosa dice Gesù nel Vangelo, rivolgendosi in particolare alla donna? "Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri" (Mt 15,28). "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora"(Gv 2,4). "Credimi, donna, è giunto il momento... ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori" (Gv 4,21-23).

"Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Neanch'io ti condanno; va' e d'o­ra in poi non peccare più" (Gv 8,10.11). "Donna, ecco il tuo figlio! "(Gv 19,26).

"Donna, perché piangi? Chi cerchi?.. .Non mi trattenere.. .va' dai miei fratel­li e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro"(Gv 20,15-17).

Essere madre significa: dare la vita, custodire e curare con tenerezza e forza, proteggere e difendere, nutrire, assistere, lenire, confortare, venire in aiuto - come Dio "Padre" - con saggezza e pazienza, totalmente dimentica di se stessa, essere per gli altri. Significa anche: provare le doglie del parto, soffrire per il bambino, "una spada che trafigge l'anima" (Lc 2,35), eppure subito dopo provare ".. .gioia, che è venuto alla luce un uomo" (Gv 16,21).

Essere sorella significa, nello stesso tempo, essere sposa, proprio come dice spesso il Cantico dei cantici: "Sorella mia, sposa" (4,9.10.12,5,1), "amica mia!"(l, 9.15; 2, 10; 4, l;ecc). Come Gesù fu tutto pervaso dall'amore del Padre e da un amore condiviso con gli uomini, così la sposa di Gesù condivide questo suo amore per gli uomini, ed in questo senso è la sorella di lui e di loro. Essere sorella si­gnifica: essere solidale, intrepida, coraggiosa, concretamente dinamica, dimenti­ca di sé, con cuore aperto e libero; saper condividere e scambiare le proprie cose, essere intuitiva, essere un'amica che porta con l'altra i pesi, come fa Cristo nostro fratello, nemo tam frater. nessuno è fratello come lui.

Essere maestra vuoi dire: stimolare, promuovere, incoraggiare, rafforzare, svegliare il desiderio, entrare nel vivo delle possibilità e delle impossibilità dell'al­tro, conoscerlo nella sua propria realtà e così prenderlo sul serio, offrirgli un vero ideale e saperlo sviluppare; imitare in certo modo ciò che fa lo Spirito Santo, ed esserne portavoce. Così la maestra è, in fondo, profeta.

Detto questo, possiamo tuffarci nei testi di Madre Mectilde.

II. M. Mectilde. donna

Si tratta di testi di M. Mectilde stessa, di frammenti della storia della sua vita: pro­prio perché viveva ciò che scriveva (come san Benedetto!), si impara a conoscer­la anche dal suo modo di fare!

1. Prima, però, la guarderemo nel suo essere donna, e per questo ci inoltriamo in un "sogno" che ebbe quando era giovane monaca presso le Annunziate, quando aveva 17-24 anni; in esso balza davanti agli occhi la sua vita di donna, che vuole vivere solo per l'Amato. Narra M. Véronique Andral:

Durante la sua permanenza tra le Annunciate, madre Saint-Jean ebbe un «sogno misterioso»[1], che ella stessa ha raccontato (Berrant, pp. 228ss.). Esso vale come an­ticipazione simbolica di tutto il suo itinerario. I biografi lo citano all'inizio, a metà o alla fine del racconto della sua vita e ne fanno l'esegesi. Ci basti per il momento leggerne il testo secondo la versione del manoscritto P 101, p.33: «Mi sembrò di essere in una fiera ove c'era un gran numero di botteghe ricche di tutto quello che si può immaginare di più bello e di più prezioso; e che io ero ne­goziante e che avevo una bottega che sembrava ancor più splendida delle altre. Mentre ero tutta occupata a guardare le mie ricchezze, udii un gran rumore e ognuno correva dicendo: "Ecco il Signore." Io sentii subito un così grande ar­dore di vederlo che feci il possibile per scoprire dov'era; e avendolo visto che si fermava in tutte le botteghe, pensavo tra me che sarebbe venuto anche nel­la mia; questo mi obbligò a fermarmi all'entrata per riceverlo, non potendo de­cidermi ad abbandonare quella bottega per andare più lontano a incontrarlo. Infine il mio Signore arrivò, in mezzo a una gran folla di popolo; indossava un lungo abito con una cintura d'oro, Ì capelli sul biondo gli scendevano sulle spalle, il volto ovale e gli occhi così meravigliosi che rubavano tutti i cuori. Egli, in verità, non fece che passare davanti a me; ma passando mi gettò uno sguardo cosi penetrante che ne rimasi tutta trasportata e spinta vivamente ad abbandonare la bottega per seguirlo; e Io feci all'istante. Nondimeno presi nel grembiule quanto c'era di più bello e di più facile da portare, e lo seguii, an­che se la folla era così enorme che quasi non Io potevo intravedere. Non mi sentii soltanto spinta a seguirlo, ma anche obbligata a camminare sulle vestigia dei suoi piedi. Occorreva una grande attenzione per ri­conoscerle in mezzo a quelle di tutta la folla; questo fece sì che trascuras­si tutto il resto e che insensibilmente perdessi tutto quello che portavo. Quando tutta quella gente si fu a poco a poco dissipata, io mi trovai fuori della città, sola con Nostro Signore che cercai di seguire più da vicino che mi era possibile. Allora, caddi. Tutta la mia attenzione e la mia grande fret­ta fu dì rimettermi sulle sue vestigia.

 

Egli mi condusse per sentieri assai difficili, molto stretti, tutti sassosi e pieni di spine, che mi portavano via le scarpe, la cuffia e gli abiti; avevo le braccia, le mani, i piedi e tutto il corpo sanguinante. Infine, dopo pene così inconcepibili, e quando i rovi e le spine mi ebbero spogliata dei miei abiti, mi trovai rivestita di un abito bianco e una cintu­ra d'oro, come Nostro Signore, in un bel sentiero ove lo seguivo sempre da vicino, senza tuttavia che egli mi guardasse.

Pensavo tra me: "Almeno, se mi guardasse, sarei contenta!" In seguito, per consolarmi, mi dicevo: "Sa bene che io lo amo! ", sentendo una certa corrispondenza del suo cuore al mio, come una specie di comunicazione o condotto che andava dall'uno all'altra e li univa talmente che dei due non ne faceva che uno.

Dopo aver tanto camminato al seguito di Nostro Signore, mi trovai in una grande prateria ove l'erba sembrava d'oro (che significa la carità), tutta smaltata di fiori, ove c'erano delle grosse pecore con la testa levata verso l'alto, che si pascevano solo della rugiada del ciclo, perché, benché fos­sero in quelle pasture fino al collo, esse non ne mangiavano affatto. Mi fu mostrato che quelle pecore rappresentavano le anime contempla­tive che si nutrivano solo di Dio e non si saziavano che della sua divina pienezza. Fra le pecore ne notai una che era molto magra e si allontanava dal gregge, se ne allontanava tanto, che alla fine se ne ritiro del tutto. Avrei voluto godere della felicità di quelle anime rappresentate da quelle pecore, ma non mi fu permesso se non di guardarle, e così passai oltre, seguendo sempre la mia guida divina.

Egli mi condusse poi in una grande pianura, all'estremità della quale c'era un palazzo magnifico; ma la porta era così bassa e stretta che appena si vedeva, ciò che mi fece credere che mai avrei potuto passarvi. Ne fui immensamente afflitta. Allora Nostro Signore, che dopo quello sguardo che mi aveva gettato davanti alla bottega, aveva fatto come se non mi vedesse, si voltò e mi guardò. In quel momento compresi che per entrare in quel palazzo occorreva che io fossi tutta annientata: immediatamente Nostro Signore entrò, e io con lui; ma feci un tale sforzo per passare dietro a lui che, non soltanto mi fu strap­pata la tunica, ma vi lasciai la mia stessa pelle, perché fui tutta scorticata. Mi perdetti in lui, ma così perduta che non mi ritrovai più».[2]

Vediamo già in questo "sogno" il concetto del "perdere tutto per il suo amore" : ecco l'effetto che ha avuto su di lei lo sguardo di amore dell'Ama­to e il desiderio di lei della comunione con lui, nella kenosi totale che di­stingue la vita di M. Mectilde.

2. Ora vorrei proporvi un testo del 21 novembre 1696, memoria della Presen­tazione al Tempio della Santissima Vergine: siamo a meno di sei mesi prima della morte di M. Mectilde. Ella è fuori di sé per la gioia del compiacimento senza fine che Dio prova nei confronti di Maria, "cette petite colombe", la piccola colomba, "son chef d'oeuvre si bien réussi", il suo capolavoro così ben riuscito; una gioia per la donna perfetta, che lei stessa condivide con Dio ("La joie de Dieu a fait ma joie": La gioia di Dio è stata la mia gioia). E quando ella descrive la disposizione d'ani­mo di Maria, noi ritroviamo quella disposizione che raccomandava così spesso: un profondo "annientamento" nella sua piccolezza, una perfetta adorazione e una totale dedizione e sottomissione a Dio ("J'adore et je me soumets" sono state le sue ultime parole). Leggiamo dagli Entretiens familier:

Bisogna che vi renda partecipi di una piccola gioia di questa mattina, durata soltanto il tempo della comunione, fino al ritorno al posto. Per fortuna una sorel­la mi ha aiutata, altrimenti non credo che sarei riuscita a ritornarvi. È solo un'idea o un'immagine che ho avuto sulla festa del giorno.

Madre, disse una religiosa, anche se non è durata molto, probabilmente avete visto molto cose.

Sì, non ci vuole molto tempo per cose simili.

La gioia non è un sentimento ordinario per me. Eppure, nonostante ciò, non ho potuto fare a meno di provarne una molto sensibile riguardo alla presentazione al tempio della Santissima Madre di Dio: mi sembrava di vedere la Santissima Trinità quasi ammirata (se posso osare servirmi di questo termine che non è appropria­to) e come 'trasportata' nel vedere questa piccola colomba così bella e perfetta, perché fino a quel momento non si era visto niente di simile sulla terra. Non es­sendo ancora formata la Santa Umanità del Verbo, l'Eterno Padre non aveva an­cora visto fuori di lui nulla di così bello, di così perfetto come quella piccola crea­tura; ne fu incantato (secondo il nostro modo di capire e di parlare, giacché so che questo termine, come del resto i termini trasporto e ammirazione, indica una sor­presa a cui Dio non può essere soggetto). Mi sembrava dunque di vedere la San­tissima Trinità tutta intenta a considerare quell'incomparabile Vergine, traendone un'infinita compiacenza. Le si possono riferire a giusto titolo queste parole della Genesi: 'Dio, considerando ciò che aveva fatto, vide che era cosa buona. Ecco il capolavoro delle sue mani; per questo Egli non solo la trova 'buona', ma perfet­tissima, eccellentissima e degnissima di lui. Egli si compiace del suo lavoro, con­gratulandosi con se stesso di essere così ben riuscito in questo capolavoro di grazia e di natura, perché fino a quel momento non aveva riconosciuto le proprie per­fezioni divine in nessun'altra creatura. Ma le trova tutte ben rappresentare in mo­do mirabile nell'anima della Santissima Vergine, che la Santissima Trinità aveva arricchita di tutti Ì doni e tutte le grazie che una creatura finita è capace di rice­vere, eccetto solo la sua propria santità. E si può dire in un certo senso che egli non poteva fare nulla di più grande, ma non parlando in generale, perché la poten­za di Dio essendo infinita, non si deve delimitare.

Fino a quel momento non c'erano stati sacrifici né vittime gradite a Dio. Tutto era stato corrotto dal peccato, e anche se Adamo era stato creato in grazia, così non vi aveva perseverato. Il peccato aveva talmente sfigurato l'immagine di Dio che non si ritrovava più in nessuna creatura. Ecco perché il più grande diletto che Dio ha provato riguardo a questa creatura pura e innocente è stato il ritrovarsi in lei. Vi si è visto come in uno specchio, e la gioia che ha provato è stata così grande, che Egli la guarda ancora oggi con tanta compiacenza come se non l'avesse mai vista. La Santissima Trinità si è interamente riversata in lei con una tale pienezza dì grazia, da richiedere che Dio le desse una capacità tale da contenerla tutta. Il Padre la guardò e l'amò come sua figlia. II Figlio, che non si era ancora incarnato, essendo ugualmente grande e potente come il Padre, non dovendo nulla a lui, ve­dendo il piacere che Dio Padre prendeva in questa piccola creatura, disse tra sé: Se una creatura è capace di dargli tanto piacere, quale mia ne riceverà per mezzo della mia umanità? ! Mi farò uomo per dargli un piacere e una gioia infìnitanente più grande di quella che egli riceve oggi. E la guardò come colei che doveva essere sua Madre; lo Spirito Santo come la sua sposa; e secondo queste tre prerogative essa fu ricolmata dalle Tre Persone divine. La gioia di Dio in questo incontro è stata la mia gioia."[3]

Abbiamo compiuto un grande salto nello scorrere la biografia della Madre: dall’inizio alla fine; ma c'è una lunga strada che li congiunge, ed è questo percorso che vogliamo guardare adesso.

III. M. Mectilde. «madre»

Abbiamo guardato a M. Mectilde come donna; ora vediamo in che modo è madre. Maria era per lei la madre che Gesù le diede. Secondo l'immagine di Maria perciò Mectilde è per noi donna e madre (e, come vedremo poi in se­guito, sorella e maestra).

Incontriamo l'idea della "madre" all'inizio e alla fine della su vita. Quando era ancora piccola, chiese alla sua  mamma, gravemente malata: "Per favore, quando vai in Paradiso, salutami la Santissima Trinità chiedimi la grazia di poter diventare suora. Poi dovresti rivolgerti alla Santissima Vergine e chiederle di prendermi sotto la sua protezione ed essere mia madre". Simili saranno le stesse ultime parole di M. Mectilde alle sue "figlie": "Padre, di­ca loro (= alle «figlie», le monache che stavano piangendo attorno al suo letto) che io so che sono con me e che io saprò sempre che saranno con me; e che le lancio tra le braccia della Santissima Vergine".

 

Una selezione di testi raccolti da M. Véronique Andral sotto il titolo Le visage d'une mère [4] ce la descrive bene, e in modo vivace, quando è già madre per tutta la comunità, come lo dimostrano anche pp. 73-77 di Adorer et adhérer (Paris, Éditions du Cerf, 1994). Prima, però, vorrei considerare con voi anche una serie di lettere in cui possiamo seguire, passo dopo passo, come M. Mectilde stia mater­namente e fraternamente vicina a una sorella attraverso lunghi anni: in modo materno come madre/anima - vedi il titolo della nostra conversazione -, perché la maternità nella vita monastica ha una sfumatura tutto particolare.

Si tratta di uno scambio di lettere con Françoise Charbonnìer, poi sr. Marie de saìnt-Francois de Paule. La Madre conobbe questa ragazza prima che entrasse nel 1665 nel monastero di Toul; abbiamo ancora il registro in cui la Madre l'aveva iscritta come membro dell'Associazione dell'Adorazione perpetua il 30 gennaio 1665; la sua ora di adorazione era dalle tre alle quattro, tutti i giorni. Troviamo queste lettere (in cui ci possiamo sentire interpellate anche noi ! ) in Lettres inédttes, Rouen 1976. Qui ne leggiamo solo una. Tuttavia varrebbe proprio la pena di leg­gere personalmente tutta la serie![5]

La nostra Françoise nacque nel 1642 a Saint-Mihiel. Il 24 marzo 1665 entrò al monastero di Toul, dove il 6 aprile 1665, il lunedì di Pasqua, iniziò il suo novizia­to, che allora durava un anno soltanto. Il 15 maggio 1666 fece la sua professione. Nel marzo 1685 diventò Priora del secondo monastero di Parigi (a rue Saìnt-Louis), dove nel 1709 (o 1710?), dopo 24 anni di priorato, morì.

La prima lettera di M. Mectilde a lei indirizzata è del marzo 1665:

È giusto che io entri con Voi nel sacrificio, perché la Provvidenza mi ha dato per Voi le viscere di una madre e un cuore riempito di un affetto intimo. Per­ciò in un ceno modo è il mio dovere di immolarvi e di farlo nello spirito del­la madre dì Melitone, quando si portò il suo caro figlio nell'anfiteatro, per es­sere bruciato e tagliato a pezzi per amore di Gesù. [Melitone era O più giovane dei quaranta martiri di Sebaste, in Armenia - NdA],

Con tutto il cuore entro in queste tenerezze di madre che Nostro Signore vuole che io sia per Voi. Vi ricevo non soltanto nella casa del Santissimo Sacramen­to, ma in me stessa: e con coraggio la immolo e la sacrifico al mio adorabile sal­vatore Gesù Cristo, che è l'unico motivo che Vi ha fatto lasciare ciò che amate di più in questo mondo, per renderVi sua vittima e consumare la Vostra vita per amore di lui. E qui allora che Voi avete bisogno di tutte le forze e la ge­nerosità del Vostro cuore, per renderVi a colui che si è dato e si da tutto a Voi incessantemente e senza riserve. Voi lo sperimentate ricevendo la santa Eu­caristia. E ben giusto che Voi gli diate amore per amore, vita per vita e morte per morte. Non c'è nulla più glorioso nel cristianesimo di essere tutto di Gesù e consumarsi per lui. È ciò che bisogna continuare a fare fino alla morte. È per quello che Voi siete entrata nella santa religione. Sì, certamente, garantisco che Voi non avete nessun altro motivo che piacere a Dio, seguire Gesù e di morire per il suo amore e del suo amore, appunto, immolandovi con lui. Voi avete in­cominciato proprio il giorno della entrata di lui nel grembo della sua glorio­sissima madre, quando egli fa il suo primo passo, uscendo dal seno del suo Padre per venire nel mondo. Egli entra in un abisso infinito di annientamento davanti alla maestà di suo Padre; egli si offre a lui per essere il garantore dei peccatori e per soddisfare alla giustizia divina. Entra in uno stato di umiliazione e di sofferenza perpetua; egli è vittima nel momento in cui è incarnato; è im­molato fin dall'origine del mondo e si sacrifica e muore in croce. Ecco, cara Mademoiselle Françoise, dove Voi dovete seguirlo (...) Non tornate indietro ! Mi rendo a Nostro Signore in garanzia per Voi e per es­sere sempre Vostra povera e molto indegna madre che ha per Voi tutto quel­lo che Voi potrete desiderare in questa qualità. Il desiderio, il timore, l'amore e la timidezza fanno guerra nel Vostro cuore; gettate Vi a corpo perduto tra le braccia di Nostro Signore; non volete nulla se non per lui. Egli prenderà ogni cura di Voi e di tutto il resto. Lo prego di essere la Vostra forza. Se Voi perseverate, avrò la gioia di presentarvi al Padre eterno con Gesù Cristo, suo Figlio, il giorno in cui l'amore lo sacrifica nel mistero eucaristico, quando egli lo fa vittima del mondo, spargendo misticamente il suo sangue sull’altare per ottenere misericordia e sui nostri cuori per consumarci nel suo amore. Sarei ben contenta in quel grande e ammirabile giorno, in cui l'amore divino spende tutta la sua potenza a favore degli uomini e della Vostra anima in particolare, che Voi gli rendeste in cambio, secondo la Vostra possibilità, amore per amore, vita per vita, e morte per morte. Coraggio, dunque, Made­moiselle Françoise: e con quel coraggio fate il Vostro sacrificio"[6].

La dolce maternità della nostra Madre non è mai sdolcinata, insipida; è spirituale e cerca di condurre sua figlia, di starle vicina, sorreggerla nelle difficoltà della vi­ta. Si adatta a sua figlia, tuttavia non si rassegna davanti all'ideale verso il quale deve lottare: perdersi in Dio.

La sua maternità spirituale e il suo modo di essere un'educatrice esigente e se­vera - con cui, nello stesso tempo, da tutta se stessa a queste sue figlie - con­tengono non soltanto un insegnamento di una dottrina, che crea intuizione nel soggetto; essa crea spazio libero per la grazia e scopre i segni segreti del trop­po amore di sé, che potrebbero mettere ostacolo alla rettitudine, all'apertura di cuore e alla docilità della sorella, che le si affida, per ricevere la sua parola e metterla in pratica nella propria vita.

M. Mectilde ha sempre la massima fiducia nelle sue figlie, e non perde mai la speranza, perché Dio è il Signore dell'impossibile: con lui nulla è mai perduto e non è mai troppo tardi.

Se essere madre è la dignità massima della donna - perché allora essa diventa col­laboratrice di Dio nel lavoro della creazione, dove Egli da la vita ad un nuovo es­sere, creato secondo la sua immagine -, allora M. Mectilde è veramente madre: desidera così ardentemente che le sue comunità siano trasformate, mediante un profondo amore fraterno, in dolci famiglie, dove ogni sorella può arrivare alla ma­turità della propria vocazione in un clima di pace e armonia.

IV. M. Mectilde come sorella e maestra

Come ho già detto, il nostro non è un discorso su aspetti singoli, isolati, ma su aspetti di una sola realtà, quella della donna come tale. M. Mectilde stessa dice:

Vi posso assicurare che se lavorate a seguire l'esempio della Santa Vergine parteciperete a quella grazia infinita della sua maternità divina. Macché! La Madre di Dio! Sì, sarete delle piccole madri di Dio! Mi direte che vi faccio una proposta ardita; questo è vero, però ho come garante Gesù Cristo stesso che tra l'altro diceva: «Tutti coloro che fanno la volontà del Padre mio sono i miei fratelli, le mie sorelle e la mia madre...» (Mt 12,50) Mettetevi nelle condizioni di partecipare a questa felicità e pregate perciò la Santa Vergine di presentarvi al suo Figlio e di unire ai propri sacrifici i vostri (n. 1050)[7].

1. Guardiamo a Maria come sorella, quando la vediamo andare da Elisabetta: per aiutarla, sì, ma anche per condividere con la cugina la propria felicità; le due si trovano così bene insieme, che possano dirsi tutto ciò che le ricolma: Maria perfi­no lo canta! E poi a Cana: Maria si accorge della mancanza di vino e cerca dì aiutare: "Non hanno più vino!" - e senza lasciarsi scoraggiare: "Fate quello che egli vi dirà! ". Maria, con sua sorella e le altre donne, sta sotto la Croce con Gio­vanni. Poi la troviamo anche prima della Pentecoste con i discepoli e le donne, con i parenti di Gesù, perseverando uniti nella preghiera.

Essere sorella è essere "in comunione". Non è un puro caso che i cristiani, fin dai primi tempi della Chiesa, si chiamino fratelli e sorelle. Come Maria, anche M. Mectilde è sorella, prima di tutto, verso il suo Signore e Sposo. Perciò i dolori di lui, la sua solitudine, la sua derisione, il suo annientamento vengono alla luce in modo così forte nella vita e nella dottrina di M. Mectilde: ella vuole condividere con lui la stessa sorte.

Nei molti testi in cui parla della sofferenza, dell'abbandono, dell'umiliazione, del­la prova, della povertà, delle tenebre, della calunnia, del rinnegamento di sé, delle contrarietà, della penitenza, della tentazione, dell' essere vittima, della morte, dob­biamo sempre leggere, nello stesso tempo, il suo desiderio di unione con Gesù, le esperienze dello svuotamento di sé, il suo essere profondamente sorella e sposa. Certamente è anche sorella nei rapporti con le sue consorelle e con tutte le per­sone che incontra. Essere sorella vuoi dire: umiltà. Insieme agli altri si è figli dello stesso Padre, dal quale si aspetta tutto con una speranza sempre nuova. Perciò l'amore fraterno si esprime particolarmente nel perdono reciproco, che offre uno spazio sempre nuovo agli altri e vuole condividere tutto con loro (cfr. 1Gv 2,10: "Chi ama il suo fratello [la sua sorella] rimane nella luce!") Così M. Mectilde condivide la sorte materiale e spirituale delle sue sorelle e fa tutto il possibile per sollevarle nelle loro necessità. La vediamo, appena ventenne, superiora delle Annunciate, mentre cura e sostiene le sorelle che soffrono la peste e la fame; e più tardi dovrà rifugiarsi a Montmartre ma vorrebbe restare con loro - là si trova così "a casa"da desiderare di avere con sé anche M. Bernardine - e piange per la povertà delle sue sorelle, rimaste lontano. A Barbery sì mette ad istruire nella fede un gruppo di donne e ragazze povere. Ci sarà poi per lei una dura lotta: stare a Caen o rimanere a Parigi, mentre le sorelle di Rambervillers vogliono che torni da loro? M. Mectilde non le può accontentare per quanto sta in lei, perché ha chiaro un altro volere di Dio.

Nella corrispondenza vediamo come M. Mectilde partecipa alle gioie e alle sof­ferenze delle sue consorelle (per es., le tantissime lettere alle comunità di Toul, di Polonia e di Rouen). Ma si tratta infatti di uno scambio spirituale vicendevole: el­la si sente solidale con loro nella stessa chiamata, sulla stessa via della vita. Non so se conoscete il bel pezzo di teatro di Claudel, l'Annonce faite à Marie. Le due sorelle, Mara e Violarne, mediante il loro sacrificio, la loro dedizione, mediante la grazia, in ultima analisi, diventano ancora più profondamente sorelle. (Tra parentesi: sarebbe un'esperienza bellissima leggere insieme questo testo, per es., durante la ricreazione, parlarne e poi sceneggiarlo insieme! )

Essere sorella è essere persona umana: lo dobbiamo diventare durante il corso del­la nostra vita. La nostra nascita è come una creazione: è una realtà in divenire. Né lo stesso Figlio di Dio, né i figli e le figlie rinati per la grazia, possono evitare quel momento in cui il Padre li genera nello spirito. Come dice Tertulliano in De Baptismate: "I cristiani (sono) dei pesciolini che non escono mai dall'acqua (del fonte battesimale!) dove sono nati." Ma la loro crescita - meglio, la crescita di Cristo in essi - avviene nella comunità, e perciò è necessaria una madre, una sorella, una maestra che, con amore, mediante il suo servizio alla vita di Cristo che cresce nelle sue figlie spirituali, le accompagna fino all'altezza della vita religiosa, dice Gertrud von le Fort in Die ewige Frau  (p. 159)[8]. (Un altro libro che vale ben la pena di leg­gere!). Nello stesso libro troviamo a p. 149 un brano dove il rapporto tra madre-sorella-maestra è ben chiarito:

Come la donna, nell'ora del concepimento non prende ma riceve il bambino, così non può formare questo bambino così concepito secondo il proprio desiderio e la propria volontà; può soltanto penare quella creatura che le viene affidato. La donna mette a disposizione del bambino le sue forze, le sue energie e lascia che queste stesse energie vengano utilizzate. Ciò che vale per Io sviluppo fisico del bambino vale anche per il suo sviluppo spirituale: l'atteggiamento della mamma cristiana è quello della speranza che è in lei; anche nell'educare il bambino non lo può formare secondo i propri desideri, può soltanto curare e proteggere il bam­bino a lei affidato. Nella lettura religiosa di questo paragone, il bambino affidato è l'immagine divina nell'uomo in divenire, è il figlio del Creatore: Egli opera; lei, invece, coopera soltanto, con riverenza. Guardando perciò la madre cristiana, si può riconoscere nel carattere della natura il primo grado della grazia come coo­perazione della creatura all'opera divina[9].

Leggiamo una lettera che M. Mectilde scrive le 2 giugno 1666 alla comunità di Toul:

Vigilia dell'Ascensione, verso mezzanotte

Mie carissime figliole in Gesù, pensando che il parroco de Saint-Jean [10] torni do­mani, vi scrivo questo biglietto per ripetervi le sincere affettuosità del mio cuore, assicurandovi che è restato in mezzo a voi tutte, o per meglio dire, nelle care pia­ghe del mio adorabile Gesù, con voi. È in questo centro unicamente amabile dove bisogna fare la nostra cara solitudine, e non uscirne mai se non per ordine della divina sapienza, quando vuole farcene uscire per compiere le opere che ci comanda di fare. Dio mio, mie carissime tutte e più che care al mio cuore, quan­ta tenerezza sento per tutte voi, e quanto ardore per la vostra santificazione! Fin dalla ricreazione di domenica, ho una quantità di pensieri da comunicarvi e preziose verità da esprimervi; ma le rimando là donde sgorgano, perché Gesù le imprima lui stesso nell'intimo dei vostri cuori dal momento che non vi posso più dire nulla, e la distanza dei luoghi mi priva della dolce consolazione di intratte­nervi su questo mistero di amore, di Gesù elevato fino al trono della sua gloria. Pregatelo, figlie mie, che elevi se stesso e noi e che ci innalzi fino a sé; che possiamo una buona volta abbandonare le cose della terra, ossia noi stesse e le creature, per aderire completamente a lui. Ricordatevi che «ha con­dotto con sé prigionieri» (cfr. Sai 67, 19), Questo vi riguarda, carissime: voi siete sue vittime, e per conseguenza sue schiave, le prigioniere del suo divino amore. Bisogna che egli vi conduca con sé e che da ora in poi non vi si trovi più sulla ter­ra: Non quae super terram (Col 3,2), ma tutte nascoste in Gesù nel seno del Padre nell'augusto Sacramento. Là vi cercherò sempre e non voglio mai trovarvi altrove; vi scongiuro di fare là la vostra dimora, vivendo separate con l'affetto e la sensi­bilità da tutto il resto, per non avere né possedere niente al di fuori di lui.

Per la mia salute che vi tiene in pena, vi assicuro che è buona contro ogni speranza. Nel­la prima giornata (dopo il ritorno) mi sentivo la testa molto confusa, ma questo è pas­sato e secondo me sto benissimo. [...].

Vi dico ancora una volta buonasera, mie amatissime figlie, nell'attesa che la divina provvidenza mi rimandi per dirvi un piccolo buongiorno, fino a quello dell’eternità, dove non vi sarà più notte (Ap 22, 5), più eclissi, più separazione. Il giorno e la notte gioiosa saranno senza fine, e noi saremo al colmo di ogni beati­tudine e allora saremo efficacemente uno in Gesù come Gesù è uno col Padre (cfr. Gv 17,21-23). È a questa amabile unione che noi tutte aspiriamo. (303).[11]

E chi parla qui non è nello stesso tempo madre, sorella, maestra?

2. "Sorella" presuppone una comunità; per noi, la comunità monastica. Nel 1992, per le nostre consorelle italiane, M. Véronique Andral ha compilato e commen­tato dei testi tratti dalle conferenze di M. Mectilde sotto il titolo: Vita comune e crescila spirituale.[12] Stralcio un'affermazione di M. Mectilde:

Non stupitevi perciò se insisto così spesso che vi amiate reciprocamente... Mi direte: «Oh! Ma la mia sorella ha qualcosa che mi urta. L'amo, ma non pos­so sopportare i suoi modi di fare.» Questa non è carità. Se Nostro Signore ci amasse in questo modo, saremmo ben miserabili, dato che facciamo un'infinità di cose intollerabili ai suoi occhi divini. Egli odia infinitamente il peccato, ma ama il peccatore. Lo accoglie alla sua mensa, invita al banchetto i poveri, gli storpi, i ciechi. In questo modo dobbiamo amare le nostre sorelle. Non fermia­moci ai loro difetti e alle loro miserie. Le più deboli sono quelle perle quali dob­biamo più tenerezza, ad esempio del nostro divino modello Gesù Cristo, nel Santissimo Sacramento, dove esercita una carità infinita verso di noi. (1552).[13]

E la Madre si conforma a san Paolo che utilizza il paragone del corpo:

Vorrei essere in grado di introdurre bene la vera carità che parte dal cuore di Gesù e che noi dobbiamo avere come membra di questo Capo adorabile, ma il nostro guaio è che non ci guardiamo come sue membra, ci sottraiamo a que­sta unione per vivere da noi e per noi stesse come persone particolari. Questo «tuo» C «mio» sono causa di ogni disordine. Non vediamo dì buon grado che vengono favorite le altre, che siano consolate: ciò denota che non siamo unite al nostro Capo. Vi chiedo se la mano si lamenta di ciò con cui è calzato comodamente il piede. Assolutamente no! Abbandoniamo perciò quello che ci è proprio per tenerci unite al cuore di Gesù, nostro Capo. (1552)[14]

Se ci ferisce un piede, il corpo si curva subito, la mano lo tocca, tutte le mem­bra vanno a soccorrerlo e a dare la loro assistenza. Così se una delle nostre sorelle è malata, ognuna da parte sua, la assista: una per scusarla, l'altra per pre­gare, per compatirla, per sopportare le sue debolezze. È ciò che dovete fare. Parlo della malattia più importante, quella spirituale. (1240)[15]

Ancora M. Mectilde spiegava:

Se pensassimo che il prossimo di cui parliamo è caro a Dio come la pupilla dell’occhio, che è il prezzo del sangue di Gesù, saremmo maggiormente attente a non dire nulla che gli possa dare dispiacere, perché Dio stesso se ne ritiene offeso.

A questo punto commentava M. Véronique: Ovviamente c'è tutto un cammino da fare. All'inizio crediamo di amare in modo puro, mentre il nostro amore è ancora molto mescolato all'egoismo, all'amor pro­prio, direbbe M. Mectilde. Le difficoltà di rapporto ci rivelano quanto il nostro amore sia imperfetto: «l'amo, ma...» e ci aiutano in una progressiva e sempre mag­giore purificazione. Si giunge a constatare di essere incapaci di amare veramente, e allora si è pronti a lasciarsi invadere dalla carità divina che può prendere pos­sesso dei nostri cuori.[16]

Continua M. Mectilde:

Sorelle mie. Gesù passa e ci invita a seguirlo al martirio, ma un martirio nascos­to che ci fa morire a noi stesse, alle nostre passioni, ai nostri cattivi umori, a mille piccole gelosie e spregi, martirio che ci rende senza misericordia verso di noi, e ci obbliga ad usarla nei riguardi del prossimo. (1552)[17]...portiamo (Gesù) ovunque con noi: in cucina, a ricreazione, nelle conver­sazioni, in una parola dappertutto, e vediamo come Egli si è comportato in simili occasioni. Ci darà la grazia per imitarlo. (2887)[18]

Come la Madre parlava, cosi doveva pure avere agito, così doveva essere stata: M. Mectilde ci ricorda di frequente che siamo chiamate a una sofferenza vicaria.

Ecco quindi la nostra vocazione riparatrice.[19]

La viviamo anzitutto l'una per l'altra. La Madre dice:

Non so come sia per le altre, ma io porto il fardello dell'ultimo delle mie sorelle, lo vedo più chiaramente del giorno che risplende: le debolezze degli spiriti, le infedeltà, tutto questo mi carica davanti a Dio... Dio mi ha dato una tenerez­za e un non so che per le anime addolorate e afflitte, in modo tale che le ho sempre presenti allo spirito e non saprei abbandonarle fintante che durano le loro sofferenze. Sembra che Dio mi abbai fatta per queste anime! Se conoscessero la loro fortuna! (2018)[20]

E si potrebbe fare infinite citazioni in proposito.

«Ma...- era M. Mectilde! direte voi - Prima di riparare per gli altri, bisognerebbe forse riparare per sé!». È la reazione di una novizia...:

Essendosi la novizia raccomandata alle sue preghiere, la Madre le rispose: «Pregherò la Santissima Vergine di rompere le catene del vostro amor proprio». Avendo poi detta alla novizia di pregare per lei, questa le rispose: «Sono così mi­serabile e peccatrice, che non posso riparare per i peccatori, sono già abbastanza indaffarata a chiedere perdono a Dio per me. Bisogna innanzitutto che Egli ripari la sua gloria in me e mi renda degna di riparare per gli altri». M. Mectilde le rispose: «Non è necessario che ripariate per gli altri, ma fate al plurale quello che fate per voi stesse, e tutto sarà compreso in questo».(217)[21]

Ciò che dice M. Mectilde di Maria: «II suo titolo santo è Madre di Dio, ella è refugium peccatorum e la forza dì tutte le anime che cercano di acquisire le virtù», è anche vero di M. Mectilde stessa.

Vediamo in tutti questi testi quanto l'amore sia davvero la più grande legge in quei piccoli regni di Dio che sono i monasteri; l'amore, lo Spirito di Gesù Cristo stes­so che grida nei nostri cuori: "Abba! Padre!" , ci conduce così nella vera vita co­mune, nell'unica vera comunità di fratelli e di sorelle.

V. M. Mectilde. maestra

Se vogliamo ora parlare in particolare di M. Mectilde come maestra, è bene sot­tolineare ancora una volta che questa qualità segue giustamente quelle di madre e di sorella, come una conseguenza di esse. Bisogna essere sorella, prima di essere maestra delle sorelle, e con ciò si rimane sempre contemporaneamente donna, madre e sorella.

1. Come Maria. Di lei si dice: "...ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto...e disse: "Com'è possibile? Non conosco uomo"(Lc 1,29.34). (Anche M. Mectilde si vede così lontana da tutte quelle qualità che una maestra di scuola, una maestra delle novizie deve avere, da essere presa da un san­to tremore! Però, forte nell'obbedienza, e con l'aiuto di Dio, si affida a Maria e le chiede di svolgere ella stessa in lei questo compito.) E più tardi della Madonna sì dice: "Maria serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore..." {Lc 2,19). E dopo che Maria e Giuseppe ebbero cercato con dolore Gesù e l'ebbero ritrovato nel tempio, leggiamo: "Ma essi non compresero le sue pa­role" (Lc 2,50). Tuttavia non si lasciarono scoraggiare; la vicenda serve piuttosto come premessa di ciò che di nuovo è ribadito: "Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore" (Lc 2,51), in quel cuore che era stato adombrato dallo Spirito Santo, il quale - a lei e a noi tutti - ricorda tutto quello che Gesù ha detto (cfr. Gv 14,26). Lo stesso Spirito Santo forma il legame di amore tra Padre e Figlio: in Dio, ma an­che tra noi uomini e donne. È sempre tra due polì che egli forma il suo legame, tra due o più persone. Per poter cogliere l'insegnamento dello Spirito, bisogna che egli stesso sia già in noi. Così anche per M. Mectilde maestra e le sue sorelle. Per capirlo meglio, leggiamo anzitutto un frammento di una lettera in cui la Madre parla espressamente dello Spirito Santo, in una lettera alla comunità di Toul:

 

Vigilia di Pentecoste, 12 giugno 1666

"(...) Che significa la festa dello Spirito Santo, se non la festa del suo trionfo nel­la Chiesa e in tutti i cuori dei fedeli? Bisogna che egli celebri la sua festa in voi. Questo vuoi dire che deve trionfare di voi, che in voi deve stabilire il suo impero e la sua sovranità (...) voi abbiate un'intera sottomissione ai suoi moti, ai suoi toc­chi e alle sue ispirazioni...Pregate questo Dio di amore che ci prepari a ricevere in noi il sacro mistero dell'amore e consumi in noi quello che gli è contrario. Lo Spirito Santo porta con sé due effetti: il primo di luce; il secondo di fuoco. Egli rischiara l'anima e le insegna, come dice il nostro Signore, ogni verità; egli la infiamma e le comunica il desiderio ardente di abbracciarla e conformarsi ad essa. L'opera specifica dello Spirito Santo è quella di manifestare Gesù, di farci amare le sue parole divine e metterle in pratica. Ma chi sarà tra voi tutte quella che riceverà lo Spirito Santo? Il profeta Isaìa dice che sarà l'umile. Ahimé, mie care figliole, se lo Spirito Santo non è dato che agli umili, pochissi­mi Io riceveranno. Non dobbiamo tuttavia scoraggiarci; le operazioni dello Spirito Santo avvengono su tutte le anime, anche su quelle dei peccatori, sen­za di che non potrebbero convenirsi. Ma se mi chiedete presso chi Io Spirito Santo stabilisce la sua dimora pacifica e tranquilla e chi Io possiede con pienez­za, rispondo col profeta che è il cuore umile e tutto annientato, per il fatto che Dio resiste al superbo e non può trovare riposo in lui. E una verità: egli gode nell'umile la sua pace eterna. La ragione è che nell'umile nulla resiste a questo divino e adorabile Spirito, perché in lui tutto è annientato, vale a dire: perfet­tamente sottomesso. Siamo umili, mie care figlie, perché senza umiltà non pos­siamo conservare lo Spirito Santo; e a che serve riceverlo se non lo con­serviamo in noi? Senza di lui, siamo infatti privi della vita di grazia."[22]

 Il Dio dell'umiltà può essere ricevuto solo da chi è umile. Egli stesso ci deve rendere recettive verso di lui. L'amore (e Dio è amore) è sempre pieno di rispetto, di dimenticanza di sé, umile. (Conoscete quel piccolo libro meraviglioso del p. gesui­ta F Varillon, Umiltà di Dio?)

2. Possiamo vedere M. Mectilde come maestra in un ritratto che lei stessa traccia della maestra delle novizie nel Réglement des offices [Regolamento degli Uffici]. Fiducia e amore reciproco sono fondamentali: "Le novizie devono essere convinte che (la maestra conduca) tutta la loro formazione per il loro bene e per la loro crescita nello Spirito". Al primo posto (vale anche per la Madre stessa!} sta la preghiera: "(La maestra) non parlerà mai a loro, insieme o in particolare, senza avere pregato di ricevere nel proprio cuore il progetto di Dio su di loro e di aver­gli chiesto la luce necessaria per aiutare a riconoscere il santo volere di Dio, per ri­nunciare al proprio spirito e giudizio, per conformarlo a quello del nostro Signore e per essere guidata dallo Spirito di lui in tutto ciò che essa faccia". Ossia: preghiera prima, durante e dopo ogni intervento presso le novizie. Instancabile (in omni patientia, dice la Regola: RE 58,11}, essa farà vedere me­diante il suo comportamento e il suo esempio ciò che vuole. Sarà molto attenta a tutto ciò di cui hanno bisogno per il corpo e per lo spirito, in un costante equi­librio tra fermezza e moderazione paziente, agendo con prudenza, senza però nascondere le difficoltà che ci sono nella sequela Christi, nell'osservanza fedele della Regola e delle Costituzioni: dura et aspera! M. Mectilde ripete spesso: "Avec douceur", con dolcezza. È forse questo un accenno che ricorda la troppo severa M. Angélique, la sua propria maestra che ebbe presso le Annunciate? O piuttosto l'immagine riflessa di Gesù, umile e mite, come egli si è manifestato a lei, quando doveva instaurare la riforma nel monastero di Caen?

Sarebbe troppo per questa lezione prendere in visione tutto il suo Regolamento dei compiti della maestra delle novizie: sull'introduzione alla preghiera, sul silen­zio e sulla riservatezza, sull'istruzione e sulle conferenze, sulla lode e sulla vita co­mune, ed altro ancora. Ella però da alcuni punti fermi, che qui ricordo:

Lasciati a noi stessi non siamo capaci a fare nulla, neanche un pensiero; per grazia di Dio, siamo quello che siamo, senza di lui, non siamo nulla. La virtù non dipende dal tempo né al luogo, ma dalla nostra sottomissione e conformazione al volere di Dio, per piacergli in tutto nella rettitudine d'in­tenzione e con il desiderio. La vera sapienza è temere Dio; il nostro spirito riceve la luce, per vedere come si possa compiere il suo volere, se abbiamo cura di non offenderlo.

Dobbiamo umiliarci sempre sotto la potente mano di Dio e affidare tutte le nostre preoccupazioni con piena abnegazione nella Sua mano patema, nella consapevolezza che Egli veglia su di noi.

Dobbiamo trovare la nostra consolazione nella nostra completa dipenden­za dal suo aiuto, consapevoli che Egli compie in tutto il suo progetto con la Chiesa e con ciascun'anima; perciò adorarlo in ogni cosa e sottometterci con amore al suo volere.

In conclusione vorrei leggervi dalle ultime conferenze della Madre un brano in cui parla del Mandatum del Giovedì Santo, quando Gesù stesso, ci rias­sunse tutto il suo insegnamento e tutta la sua vita proprio nella Lavanda dei piedi. È da questo episodio che la figura di maestra, come la visse M. Mectilde, riceve la sua forma.

“Avevo abbastanza ambizione per desiderare di compiere ancora questo rito, per l'ultima volta della mia vita, ma giacché nostro Signore mi ha tolto la ca­pacità di farlo, mi accontenterò di esortarvi a compierlo voi santamente. Quando vengono lavati i vostri piedi, non guardate affatto colei che ve li lava, ma pensate che è il nostro Signore che lo fa e che egli sta inginoc­chiato ai vostri piedi. Vedete solo Gesù. In una parola, compirete questo rito con uno spirito interiore per onorare l'operare del nostro Signore. È così che bisogna agire sempre e così vi troverete benedizione. Preparate­vi con ogni cura a ricevere le grazie che il nostro Signore vi vuole con­cedere attraverso colei che laverà i vostri piedi. Supplicatelo di concedere le sue grazie anche a lei e pregatelo di preparacela anticipatamente. Ve lo ripeto: agite sempre così, con spirito interiore. Quando vedo che si fan­no le cose divine in modo umano, mi sento morire. Applicatevi interiormente a tutti i misteri del nostro Signore e al suo soffrire eccessivo. È veramente mor­to, non è una mera fantasia. Non esiste creatura sulla terra che, se conoscesse tutte le sofferenze del nostro Signore, potrebbe sopportarne la vista senza morire. Solo l'eterno Padre, che permise che Gesù soffrisse questi dolori, e suo Figlio Gesù Cristo che li ha sopportati, conoscono la loro immensità. Ahimé, quanto purtroppo siamo sensibili alle minime offese, che si fanno a noi -i gran­di cuori le sentono vivamente -! E nostro Signore, che aveva il cuore più grande e più bello di tutti, immaginatevi voi ciò che egli dovette sperimenta­re, in mezzo a così tanti obbrobri e sofferenze di ogni specie! Ah ! Ho un cuore di carne per me stessa e per il mio Dio non ho che un cuore di pietra! Sono sensibile a tutto ciò che concerne me stessa, e così insensibile per Gesù Cristo, nostro Signore!

Se non possiamo occuparci come Io vorremmo delle sofferenze del no­stro adorabile Salvatore, restiamo nell'umiliazione e nella confusione; ab­biamo almeno un po' di compassione dei tormenti eccessivi che egli sof­frì per amore nostro. SÌ dice che non sarà che nel giorno del giudizio che conosceremo tutto ciò che il nostro Signore ha sofferto per noi e l'esten­sione della sua stragrande carità per i peccatori.

O mio Dio, permettimi di dirti che questa conoscenza allora non ci servirà per nulla. Ti prego di concederci già ora questa luce e questa conoscenza, in questo nostro tempo, affinché ne approfittiamo, ti conosciamo e ti amiamo !

Il Padre eterno ci ha dato il suo unico Figlio: è molto, ma in un certo senso sarebbe poco per noi, se non ce l'avesse dato per salvarci e riscattarci, morendo per noi. Oh! Che carità stragrande!

È certamente in questo tempo che Dio fa nuove tutte le cose, che tutto viene rinnovato. Ricevete allora una nuova vita in Gesù Cristo e per Gesù Cristo. È per mezzo della comunione che Gesù Cristo si mette ai nostri piedi. Si, Gesù Cristo sta lì ai nostri piedi nella comunione. Ahimé! Non c'è di peggio che stare ai nostri piedi! Nostro Signore non ha mai cercato altro chela gloria di suo Padre, la salvezza e la conversione dei peccatori, e il suo grande dolore, morendo, fu di vedere quanti c'erano che non avrebbero voluto approfittare della sua morte. Ah! Quanti sono coloro che non vogliono che le sofferenze di Gesù siano loro applicate e che non ne approfittano affatto! Pregate perciò molto in questi san­ti giorni per la conversione dei peccatori e per le anime del Purgatorio. (880)[23]

Infatti queste parole ci invitano ora a tacere e a rimanere con lui. Aggiungiamo soltanto questa conclusione al nostro tema:

Nella vita di ogni donna succede dapprima di considerare su due versanti 1' immagine (di Maria), facendone una rappresentazione parziale: virgo oppure mater. Tuttavia alla fine tocca a ciascuna di ricomporre l'immagine eterna nel­la propria vita: la vergine deve ricevere l'impronta della maternità spirituale, mentre la madre deve ritornare a una verginità spirituale. La salvezza della vi­ta di ogni singola donna dipende dalla riuscita di questa compenetrazione vi­cendevole, dal superamento dell'elemento tragico sia verginale, che materno. Questo non vuoi dire, però, che con la sola immagine di Maria si risolva la salvezza di ogni singola donna, anche se questa stessa salvezza è legata alla mis­sione di Maria. La sintesi consapevole dell'immagine eterna è per la singola donna possibile solo nel vivere l'atteggiamento dell'ancilla Domini, nella sua costante disponibilità verso Dio.[24]

M. Mectilde - che, come lei stessa diceva, aveva imparato tutto da Maria - ci sia in questo compito madre sorella e maestra!

 

14 giugno, anno 2001, nella festa della santa olandese Liduìna, che divenne la sposa profondamente felice di Cristo in una vita di sofferenza vissuta insieme a lui.

(Traduzione italiana di sr Carmelita M. Kendle)

 

 

 

 

 



* Dal 14 al 17 luglio 2002 ebbe luogo, presso le consorelle di Colonia, un ampio incontro di studio per i noviziati dei nostri monasteri delle federazione di Germania e dei Paesi Bassi. Presentiamo qui l’introduzione a M. Mectilde de Bar.

[1] Orig.: songe mystérieux: indica un sogno di cui Dio si serve per manifestare la sua volontà.

[2] Itinéraire spirituel, pp. 18-19; tr. it. da: ANDRAL M.-V, Itinerario spirituale di Madre Mectilde del Santissimo Sacramento (Catherine de Bar) in EAD., Catherine Mectilde de Bar. I. Un carisma nella tradizione ecclesiale e monastica, Roma, Città Nuova, 1998, pp. 31-188: 41-42.

[3] CATHERINE MECTILDE DE BAR, Entretiens familìers, Monastère des Bénédictines, Bayeux, 1984, pp.113-115, tr. it. anche in: CATHERINE MECTILDE DE BAR, L'Anno Litur­gica, ed. Glossa, Milano, 1997, pp. 12-13

[4] Vedi la tr. it.: Il volto di una madre in «Ora et labora» XLIII (1988], n. 4, pp. 157-175.

[5] Ecco l'indicazione di tutta la serie, con segnalazione, quando esiste, della tr. ìt., nel volume Non date tregua a Dio.

Lettres inédites

 

Non date tregua a Dio.

p.225

[manca]

p229

[manca]

p.245

[manca]

p.247

[manca]

p.251

p.100

p.257

p.105

p.262

p. 109

p.264

[manca]

p.267

[manca]

p.271

p.113

p.273

[manca]

p-277

p. 116

p.285

[manca]

p289

[manca]

p.306

[manca]

p.319

p. 139

p..350

[manca]

p.363

[manca]

p.367

[manca]

p.368

[manca]

p.370

p.222

 

[6] CATHERINE DE BAR, Lettres inédites, Bénédictines du Saint Sacrement, Rouen, 1976, pp. 225-227.

[7] CATHERINE MECTILDE DE BAR, Adorer et adhérer, Les éditions du Cerf, Paris, 1994, p. 145 tr. it. nostra).

[8] Tr.it. nostra - non conosciamo l'edizione citata dall'autrice - N.d.T.

[9] Tr.it. nostra - v. nota 2. L'originale letto secondo il rns CrC (vedi Leitres indites p. 270) menziona il parroco della chiesa dì Saint -Jean di Toul. La traduzione italiana dì Non date tregua a Dio p, 110 segue invece la ver­sione della stessa lettera secondo un ms (non meglio identificato ) di Bayeux: vedi esemplare di Lettres inédites annotato da M. Cecilia Beltrame Quattrocchi.

[10] L'originale letto secondo il ms CrC (vedi Lettres inédites p. 270) menziona il parroco della chiesa dì Saint -Jean di Toul. La traduzione italiana dì Non date tregua a Dio p, 110 segue invece la ver­sione della stessa lettera secondo un ms (non meglio identificato ) di Bayeux: vedi esemplare di Lettres inédites annotato da M. Cecilia Beltrame Quattrocchi.

[11] Lettres inédites, tr. it- da: CATHERINE MECTILDE DE BAR, Non date..., op. cit., pp. 110-112.

[12] M. VÉRONIQUE ANDRAL, Vita comune e crescita spirituale: Atti del Primo Incontro for­mativo per Professe tenuto al Monastero di Caste! Madama 1-6 settembre 1992, «Deus abstondìtus», Anno 84 (1993), n. 1, gennaio-marzo. Monastero di Ronco di Ghiffa, pp. 19-28.

[13] M. Mectilde in V. ANDRAL, Vita comune...(art. cit..), p. 21.

[14] Ibid., p. 21.

[15] Ibid., p. 21.

[16] V. ANDRAL, Vita comune...(art. cit.), p. 22.

[17] V. ANDRAL, Vita comune...(art. cit.), p. 22.

[18] VIbid., p. 22.

[19] V. ANDRAL, Vita comune...(art. cit.), p. 24.

[20] M. Mectilde in V. ANDRAL, Vita comune...(art. cit.)t p. 25.

[21] Ibid., p. 26.

[22] Tr. it. da C. MECTILDE DE BAR, Non date tregua a Dio, (op. cit.), pp. 112-113.

[23] VÉRONIQUE ANDRAL, (a cura di), CATHERINE MECTILDE DE BAR, Itinéraire spirituel, Monastère des Bénédictines, Rouen, 1990, pp. 187-189, Tr. it, nostra. GERTRUD VON LEFORT, Die ewige Frau. p. 101.tr. il. nostra (v. nota 2).

[24] GERTRUD VON LEFORT, Die ewige Frau. p. 101.tr. il. nostra (v. nota 2).

** Christine Bremer è monaca del Monastero di Valkenburg, Paesi Bassi.