Conferenza del Rev.mo Padre DOM LEFÈBVRE,
Assistente della Federazione Francese delle Benedettine del SS. Sacramento,
sullo stato di vittima,
tenuta a Parigi giovedì 11 settembre 1958
1. Spiritualità particolari
Voglio impostarvi questo problema come potrebbe farlo gente maliziosa: voi volete essere e tenete ad essere proprio Benedettine; e volete pure conservare il carattere specifico delle Benedettine del SS. Sacramento... Gente maliziosa vi direbbe: "In questo vi è contraddizione, perché il carattere specifico dello spirito benedettino, dello spirito dei Benedettini, è di non avere nessuna spiritualità particolare; quindi, se volete conservarne una, volete due cose che si contraddicono a vicenda".
Onde capire che non vi è contraddizione, penso comporti anzitutto comprendere bene ciò che sia nella Chiesa una spiritualità particolare. Vi sono nella Chiesa varie correnti di spiritualità, ma tutte sono un mezzo di porre in luce, secondo una determinata prospettiva, le profonde verità che costituiscono la base della nostra vita cristiana. Una spiritualità particolare che consistesse nell’adottare un piccolo fatto secondario e farne il centro di tutto, sarebbe una deviazione. Ma una spiritualità particolare, la quale consiste nel considerare sotto un aspetto originale, che rappresenta la forza intrinseca di una tradizione, le grandi verità profonde della vita cristiana, contribuisce alla ricchezza ed alla varietà della Chiesa. Ciò appunto consente alla Chiesa di proporre la sua unica verità sotto una forma che si adatti alle diverse famiglie di anime, alle svariate manifestazioni di tendenze spirituali.
Per lo stesso motivo le spiritualità particolari, utili perché permettono di adattare la verità alle differenti famiglie di anime, devono conservare la necessaria pieghevolezza per adattarsi anche ad ogni anima singola. Devono essere altrettanti modi di mettere in risalto verità fondamentali e di presentarle in maniera abbastanza larga perché ogni anima possa appropriarsele a modo suo; e nell’interno di una famiglia religiosa – per ciò che costituisce la sua unità ed il suo spirito di famiglia – occorre serbare quella libertà dei figli di Dio che consente di vivere un’idea comune nell’in-dirizzo della propria vocazione soprannaturale e secondo le tendenze ispirate dallo Spirito Santo.
In questa verità ogni spiritualità particolare, ben lungi dal restringere alcunché, è un modo di mettere a portata di tutti, con l’infinita varietà e pieghevolezza che forma la ricchezza della Chiesa, una verità che è profondamente una.
Che cosa vediamo al centro della nostra unità cristiana, della nostra rivelazione cristiana? Al centro della nostra rivelazione cristiana non sta una teoria, una filosofia, non stanno nemmeno dei dogmi; vi è un fatto, un fatto vivo che è la comparsa di Dio nel mondo. Vi è l’Incarnazione, vi è il Cristo.
Il centro della nostra verità cristiana non è un concetto, una riflessione: è una persona vivente nella quale Dio si rivela a noi; è il Cristo nel quale Dio ci si rivela come il Dio Amore, come il Dio Trino, il Dio la cui vita intima è l’Amore e che viene a noi per farci partecipi di questo amore.
È per l’inquadratura liturgica della nostra vita che noi godiamo in modo specialissimo della presenza, nella nostra vita, di tal mistero del Cristo. E ciò che costituisce il valore dell’inquadramento liturgico della nostra vita, è che la liturgia ci presenta ogni giorno tale mistero del Cristo – ed il suo svolgimento – sotto una forma viva nella quale, per così dire, l’alimento spirituale ci è offerto come triturato. La liturgia non è un trattato teologico – benché talvolta, in Uffici recenti, sia forse un po’ troppo trattato di teologia – . Negli Uffici antichi e nel complesso della liturgia, l’alimento spirituale non ci viene presentato come in un trattato di teologia. Attraverso formule evocatrici, che sono formule di preghiera, la dottrina cristiana ci è presentata sotto una forma già tutta orientata verso la vita spirituale.
Al centro di questa liturgia abbiamo il sacrificio Eucaristico, che è veramente la fonte unica di ogni grazia. Cercherò quanto prima di spiegarvi come il sacrificio Redentore del Cristo, realmente presente nel mistero eucaristico, sia la sorgente unica di ogni grazia; ed è appunto ciò che mi ha colpito nello scorrere i pochi testi della vostra Madre Fondatrice che ebbi sott’occhio (avendoli potuti trovare nella biblioteca di Ligugè), il vedere dal modo con cui essa parla dell’Eucaristia, quanto l’abbia meditata in una luce profondamente vera. Ne parla talora per alludere alle profanazioni, alla necessità di riparare tutte quelle empietà delle quali era stata testimone nelle guerre avvenute al suo tempo: ne era rimasta colpita e la sua mente fu attratta sul mistero eucaristico e su quell’idea di riparazione centrata sull’Eucaristia. Questa concreta circostanza della sua vita è l’avvenimento provvidenziale di cui Dio si servì per attirare lo spirito di lei all’Eucaristia. Ma si scorge, peraltro, come pur essendovi condotta da quell’elemento in certo modo accidentale, essa abbia meditato questo mistero, e con un’impostazione profondamente vera. Ciò che in madre Mectilde mi ha colpito è che essa insiste moltissimo sull’aspetto "sacrificale" dell’Eucaristia.
2. L’Eucaristia – sacrificio
L’Eucaristia-sacrificio...: è precisamente questo l’aspetto che ci dà il vero significato, il senso profondo del mistero Eucaristico. Ci si ferma spesso molto – ma oggi meno che in passato –, ci si fermava un tempo sull’aspetto: Eucaristia-Presenza reale, perché si era toccati da questo fatto della Presenza reale che è per noi di grande consolazione, una cosa che ci commuove. Ma per capire il contenuto profondo di questa presenza reale e in qual modo possiamo accostarci al Cristo nell’Eucaristia coi debiti sentimenti, dobbiamo rammentare che questa presenza reale del Cristo è la condizione della reale presenza del suo sacrificio, e che il Cristo ci è realmente presente proprio nell’atto stesso del suo sacrificio. Per questo motivo vorrei cominciare col darvi un breve esposto, assai ristretto, di una specie di sommaria teologia della Messa. Penso che sia alla luce di questa verità che potremo, in seguito, capire il significato profondo della vostra spiritualità riparatrice.
Per comprendere ciò che sia la Messa, bisogna anzitutto capire ciò che sia un sacrificio. Un sacrificio è un atto esterno mediante il quale noi offriamo a Dio qualche cosa che è all’infuori di noi, un qualsiasi bene creato. Con quest’offerta esterna, noi vogliamo simboleggiare ed esprimere l’offerta interna di tutto l’essere nostro a Dio. È un gesto che risponde alla nostra natura umana, la quale ha bisogno di esprimere con gesti esterni i propri interni sentimenti. È, inoltre, un rito che ci consente di estrinsecare quest’offerta interna di noi stessi a Dio, in modo sociale, per tutti insieme, ponendola in comune. Questa offerta interna sarebbe per se stessa irrealizzabile: onde compierla collettivamente dobbiamo tradurla in un segno visibile a tutti, che divenga come il punto nel quale convergono le nostre offerte individuali e tutte insieme si offrano a Dio.
Il sacrificio è dunque un’offerta esterna, destinata ad esprimere sotto una forma sensibile e sociale l’offerta interna di noi stessi a Dio. Questa offerta è quindi l’atto essenziale del sacrificio: offerta totale che si esterna attraverso un’immolazione. Questa, a sua volta, è anzitutto un modo di esprimere l’offerta, ma inoltre segnala pure l’aspetto di pentimento che, nel nostro stato di natura decaduta, va sempre unito all’offerta. Non possiamo adorare Dio senza domandargli, contemporaneamente, perdono per i nostri peccati. L’immolazione inserisce nella nostra offerta questa intenzione di riparazione, di pentimento, conveniente al nostro stato di peccatori.
All’offerta così presentata, Dio risponde con la sua accettazione. Nella legge ebraica, l’accettazione dei sacrifici era abitualmente significata dal fatto che la vittima veniva deposta sull’altare, il quale rappresentava Dio. In talune circostanze eccezionali, come allorché Elia attirò il fuoco dal cielo, Dio manifestò tale accettazione in modo miracoloso. Ma comunque si voglia, occorre che qualcosa nel sacrificio palesi questa accettazione da parte di Dio, perché il dono è completo soltanto quando è stato offerto ed accettato. Allorché il sacrificio è da Dio accettato, esso è completo, tuttavia vi si aggiunge un rito complementare. Abbiamo offerto la vittima; per il fatto che essa sia stata offerta a Dio e da Lui accettata, è ritenuta come penetrata di quella santità che è propria delle cose consacrate a Dio: la vittima ha in sé qualche cosa di divino, di sacro. Perciò, dopo che la vittima è stata offerta, ci si nutre di lei in un pasto sacrificale, onde penetrarsi di tale santità inerente alla consacrazione della vittima a Dio. Il significato del pasto sacrificale è proprio quello di completamento del sacrificio. Nell’offrire la vittima si significava di volersi offrire insieme con lei: alimentandosi della vittima offerta, si vuol dimostrare fino a che punto si intende essere con lei uniti ed offerti; aggiungendo l’offerta interna di sé a quella esterna che si è fatta, di una vittima a Dio presentata.
Questi elementi del sacrificio si riscontrano nel sacrificio della croce. Il Cristo si offre nella Cena e l’atto di offerta compiuto alla Cena continua fino alla croce. Con il rito celebrato alla Cena, Egli, infatti, ha manifestato il suo desiderio di offrirsi al Padre e tutto il suo atteggiamento durante la Passione è una conferma dell’offerta fatta. Tutto il suo atteggiamento interpretato alla luce del gesto compiuto alla Cena, rimane quello di qualcuno che si offre... e si offre all’immolazione della croce. Il Cristo si offre per noi dalla Cena alla croce, in tutto il mistero della sua Passione e si offre quale vittima per la redenzione del genere umano. Questo sacrificio è tanto più perfetto in quanto, qui, la vittima si identifica con il sacerdote che offre. Il Cristo offre se stesso e per questo fatto il segno che è il sacrificio diviene tanto più eloquente, di tanta maggiore verità. Siccome il Cristo offre se stesso, vi è un’accresciuta intimità, un’aumentata unione fra il sacrificio interno ed il sacrificio esterno.
Dicevamo or ora che è necessario che il sacrificio sia accettato. Dov’è l’ac-cettazione nel mistero della croce? L’accettazione è nella risurrezione ed ascensione. E questo è importantissimo per capire il senso profondo del mistero redentore. Il Cristo si è offerto, il Padre ha accettato la vittima e la accoglie in cielo quale vittima offerta per la nostra salvezza. La risurrezione e l’ascensione fanno parte del mistero redentore. Noi consideriamo troppo spesso il sacrificio del Cristo come se fosse unicamente il sacrificio della croce. I fini della croce sono la risurrezione e l’ascensione. Il sacrificio redentore è il Cristo che si offre all’immolazione, accettato dal Padre e accolto in cielo come vittima immolata per la nostra salute; permanente in cielo in questo stato di vittima immolata per la nostra salute, come dice san Giovanni: l’Agnello immolato, recante ancora le stimmate della sua Passione, rimane quale nostro titolo alla misericordia e all’amore del Padre. Egli è nostra vittima, offerta al Padre per noi e che resta presso il Padre come nostro titolo a ricevere i doni che sono i frutti del sacrificio offerto per noi.
Il mistero del Cristo, il suo sacrificio redentore, comprende tutto questo ciclo; il quale ci indica che posto tengano la sofferenza e la morte in tale mistero. Posto necessario e in certo modo centrale, ma in ultima analisi assolutamente subordinato allo sboccio della risurrezione. Come dice san Paolo, il Cristo muore per il nostro riscatto, per la nostra giustificazione. Muore per il riscatto dei nostri peccati, onde aprire in noi la via a questa vita risorta che sta per esserci comunicata. E ogni nostra morte avviene in vista di una risurrezione; ogni sofferenza, ogni privazione nella nostra vita spirituale hanno in vista una più intensa vita di grazia. Ciò che è finale, ciò che è la meta, è sempre un’accresciuta intensità di vita, un aumento in noi della carità. Sempre l’aspetto positivo è quello che domina. Non si rinuncia a se stessi, non ci si mortifica se non per mortificare ciò che ostacola la piena invasione del nostro essere da parte della divina grazia: questa invasione è lo scopo e la meta di tutto.
Sulla croce, il Cristo si è offerto per la nostra salvezza. È quanto dire che Egli si è offerto per noi, e ci ha offerti con Lui. Infatti, il Cristo si offre sulla croce quale nostro Capo ed offre con sé tutto il suo Corpo mistico che Egli riscatta con il suo sacrificio. Siamo dunque impegnati in questo sacrificio del Cristo. Vi siamo impegnati fin dalla croce, per l’offerta che il Cristo fa per noi: perché offrendosi per noi ci offre con Lui. Si offre per noi per farci risalire al Padre: quindi ci offre al Padre, ci apre la via verso il Padre. Occorreva per altro che noi potessimo rinnovare il suo sacrificio, onde unirvi spontaneamente, liberamente, l’offerta di noi stessi. Era dunque importante che il sacrificio del Cristo rimanesse presente alla vita di tutta la Chiesa, affinché la Chiesa potesse unirsi, potesse offrire il Cristo ed offrirsi con Lui, raccogliendo così i frutti del suo sacrificio. Per questo la vittima doveva rimanere in mezzo a noi: perché il sacrificio dimorasse presente e noi potessimo offrirlo. Il Cristo doveva trovarsi realmente in mezzo a noi, onde noi potessimo con realtà rinnovare il suo sacrificio. È questo il significato profondo della presenza reale. Il Cristo è presente fra noi nel suo sacrificio, allo scopo di unirci al suo sacrificio.
3. La S. Messa nella Chiesa
Ciò che nella Messa vi è di nuovo in relazione alla croce e al sacrificio redentore, è che qui il Risorto non si offre più da solo, ma si offre per il ministero della sua Chiesa, in modo che la sua Chiesa si unisca a Lui. Nel mistero della Messa è la Chiesa che offre il Cristo, che si offre con il Cristo. Per conseguenza il Cristo si è dato alla sua Chiesa onde esserne la vittima. Si può dire che è questo il modo con il quale il Cristo si è dato a noi: con il conferirci il diritto di offrirlo quale nostra vittima. Questo diritto è conferito anzitutto alla Chiesa; ma nella Chiesa ci sono coloro a cui fu dato il diritto ed il potere di offrire la vittima in nome degli altri: sono i sacerdoti. Con il sacramento dell’Ordine essi ricevono il potere di offrire la vittima, ma di offrirla sempre in nome della Chiesa perché non può essere offerta altrimenti, appartenendo essa alla Chiesa: è patrimonio della Chiesa e per questo ogni cristiano acquista al suo battesimo il diritto che tale vittima venga offerta in nome suo. Qualsiasi cristiano consegue la partecipazione al diritto che ha la Chiesa di offrire il Cristo come propria vittima: e riceve il diritto che non possa venire offerto il sacrificio, senza esserlo pure in suo nome. Il bambinello appena battezzato ha diritto dall’istante del suo battesimo a che in nessun punto della terra possa essere offerto il sacrificio della Messa senza esserlo anche a suo nome: perché verrà offerto in nome di tutta la Chiesa, della quale egli ora fa parte.
Il sacrificio della Messa sarà dunque l’offerta compiuta ancora dal Cristo, ma per il ministero della sua Chiesa. Il Cristo si è offerto una prima volta e tutte le nostre offerte attingono la loro forza ed efficacia da quella prima offerta del Cristo, che noi continuiamo.
Il Cristo si offrì alla Cena, alla croce, alla risurrezione, ma rimane presente in cielo come vittima, e l’offerta della Chiesa raggiunge quello stato di vittima in cielo, quello stato della volontà del Cristo che resta fisso nell’atto di offerta, compiuta una volte per tutte, e che permane. Il Cristo dimora in cielo quale vittima che si offre, e questa offerta del Cristo è raggiunta da quella della Chiesa. Da quella del Cristo, l’offerta della Chiesa trae tutto il suo valore: la Chiesa offre il Cristo e si offre con il Cristo.
La Messa è questo: la Chiesa che offre il Cristo e si offre con Lui. E come dicevamo pocanzi, ciò che vi è di perfetto nel sacrificio del Cristo è che Egli offre se stesso: è quest’identità fra la vittima offerta e chi offre. Qualcosa di simile avviene nel sacrificio della Messa: Colui che offriamo, il Cristo, è nostro Capo, noi siamo sue membra, gli siamo intimamente uniti; v’è quindi, anche qui, unione intima fra gli offerenti e la loro vittima. Questo ci indica fino a qual grado di profonda intimità noi dobbiamo unirci al Cristo con le nostre interne disposizioni: fino a che punto siamo immersi ed impegnati in questo sacrificio nel quale ciò che offriamo a Dio in qualità di vittima non è semplicemente qualche cosa di esterno, come facevano gli ebrei offrendo animali dei loro greggi, ma offriamo a Dio per vittima il Cristo nostro Capo, cui ci legano vincoli strettissimi per il fatto che siamo sue membra. Vedete in che misura siamo prossimi al Cristo nel sacrificio della Messa e con quale aderenza dobbiamo unirci a Lui!
Vi è un complemento del sacrificio, ed è il pasto sacrificale: l’Eucaristia, la Comunione; rilevate questo stretto legame tra la Messa e la Comunione e come ci sia necessario capire che la Comunione è il completamento della Messa per renderci conto delle disposizioni con le quali dobbiamo comunicarci.
Abbiamo offerto il Cristo quale nostra vittima e ci alimentiamo della nostra vittima per venir penetrati dalla sua santità di vittima, dalla sua consacrazione al Padre ed entrare in comunione con il suo stato di vittima. La Comunione, come sacramento, effettua ciò che significa: il sacramento è un segno efficace e per comprendere la grazia che esso reca occorre capir bene ciò che significa perché questo, appunto, verrà realizzato.
Se ci accontentiamo di dire che nell’Eucaristia il Cristo si dona a noi quale cibo, diremo cosa vera, ma avremo diminuito e illanguidito di molto il senso e quindi la portata dell’Eucaristia-sacramento. Il Cristo si dà a noi quale cibo, ma non come un cibo qualsiasi. Si dà a noi come la vittima della quale si nutrono coloro che hanno offerto il sacrificio, intendendo partecipare alla sua santità di vittima, entrare in rapporto con il suo stato di vittima, consacrata e tutta permeata della santità del Dio al quale è dedicata. Ne consegue che nel comunicarci dobbiamo collocarci nello stato interiore di un’anima che vuole unirsi al Cristo nel sacramento della sua croce, al Cristo nel suo sacrificio, entrando nello spirito di questo; di un’anima che il mattino accostandosi alla Comunione dica a se stessa: "Io dovrò in tutta la mia giornata esprimere e realizzare questa unione al sacrificio del Cristo, mediante una lieta disposizione ad accettare tutti i sacrifici che mi sarà chiesto di sostenere, e per i quali tutta la mia giornata sarà un modo di unirmi al Cristo nel sacrificio della sua croce".
Ogni volta che un cristiano assiste alla Messa, specialmente se vi si comunica, rinnova le sue promesse battesimali. Egli s’impegna a realizzare l’essenziale del suo battesimo: ossia a penetrare più a fondo nell’unione col Cristo, nel mistero del Suo sacrificio redentore, sorgente unica di ogni grazia. Vi è una fonte sola di grazia: il sacrificio del Cristo; ed è perciò che la Messa – e l’Eucaristia – è l’unica sorgente di grazia, essendo non soltanto la ripetizione del sacrificio del Cristo, ma quel sacrificio stesso. Essa non è altro che la croce: il medesimo atto, rinnovato dalla Chiesa unita al Cristo.
Dunque, gli altri sacramenti danno la grazia, ma riferendosi alla Messa e all’Eucaristia. Cosi, ad esempio, per il battesimo. Ricordate il cap. VI dell’Epistola ai Romani, nella quale san Paolo dice che il battesimo ci fa morire con il Cristo al fine di risuscitare con Lui. Il battesimo ci fa membra del Cristo e ci dà come in anticipo una certa partecipazione ai frutti del suo sacrificio, perché anche noi possiamo offrire questo sacrificio. Non si può offrire il sacrificio se non si è internamente nelle disposizioni corrispondenti al gesto esterno che si compie. Non si può offrire il sacrificio del Cristo, se non si è già interamente partecipi di quella consacrazione al Padre, di quella santità del Cristo che ci permette di essere sue membra e dì offrirci con Lui. Non si può offrire il sacrificio del Cristo senza aver ricevuto quella preparazione che è la grazia del battesimo, la quale ci dà come acconto ed anticipo una certa partecipazione ai frutti del mistero del Cristo affinché ci uniamo ad essi.
Rilevate da ciò quanto il sacrificio del Cristo sia il centro stesso di tutta la nostra vita cristiana: soltanto in riferimento a questo sacrificio noi veniamo introdotti nella vita cristiana con il battesimo. È per questo che in tempi antichi si dava la santa Comunione al bambino subito dopo avergli amministrato il battesimo. Il battezzato è come in stato di desiderio della santa Comunione: e quando si prepara un fanciullino alla prima Comunione in privato, si percepisce quale senso soprannaturale e desiderio della santa Comunione la grazia battesimale abbia posti in quell’anima.
4. Lo stato di vittima
In questa luce potremo capire il profondo significato della vostra dottrina riparatrice. Si dice talora: "vittima..., vittima...". Ci presentate sempre questa parola, vittima, che è parola grandiosa..., molto pomposa, molto eroica! Se si presenta nel suo senso vero e proprio, essa è sinonimo di cristiano. È la parola più semplice che esista, la più veritiera e la più profonda per esprimere ciò che sia un cristiano. Un cristiano è colui che entra in comunione con il mistero del Cristo. E proprio se la comprendiamo in questo modo, questa parola si spoglia di tutto ciò che può avere – bisogna ammetterlo – di alquanto artificiale, perché un po’ forzato, se presa nel senso eroico. Nella sua vera portata teologica, la parola vittima esprime ciò che è, in fondo, ogni vita cristiana: essere con il Cristo unita al suo sacrificio, partecipare al suo sacrificio, vittima con Lui.
Notate che, veduta sotto questo aspetto, non se ne deduce, come spesso appare a tutta prima, il concetto di immolazione. Vi è implicito, ma la parola vittima qualifica anzitutto ciò che è offerto a Dio, consacrato a Dio, imbevuto della santità di Dio. Questo vocabolo ha primariamente un significato positivo, di unione a Dio e di consacrazione a Dio. Se interviene l’immolazione, è quale condizione di tale consacrazione a Dio; perché nel nostro stato di peccato, con tutti i relitti che esso ha lasciato nella nostra anima, non possiamo aprirci alla grazia senza una lotta contro noi stessi e le nostre cattive tendenze, mediante rinunce e atti che ci costano, ed un’interna immolazione. Ma questa immolazione non avrebbe senso, né apparirebbe nella sua verità profonda, se non si vedesse come una condizione della consacrazione a Dio, e del pieno sviluppo nella partecipazione alla santità di Dio ed alla comunione con Dio nel suo mistero d’amore e di santità.
Vedete come questa idea di essere vittima con il Cristo afferri tutta la nostra vite cristiana, ed eviti lo scoglio sul quale altrimenti si rischierebbe di cadere, quello di una spiritualità di vittima che potrebbe centrarsi sul peccato, ossia centrarsi su un aspetto negativo; mentre, per essere profondamente vera, ogni spiritualità cristiana deve essere centrata sopra un aspetto positivo: l’accrescimento nell’amore di Dio, la consacrazione sempre più totale della nostra vita e del nostro amore a Dio, il vivere sempre maggiormente della vita divina, il partecipare sempre di più alla vita del Cristo risorto.
Se ci limitassimo ad un aspetto centrato sul peccato, non saremmo più nella verità del sacrificio del Cristo, perché il Cristo è morto per risuscitare, il suo sacrificio sboccia nella risurrezione. Esso comporta la risurrezione come uno dei suoi elementi essenziali. Il Cristo muore al peccato, per far sì che ad esso moriamo con Lui; e risorge a quella vita divina che si espande pienamente nella sua umanità risuscitata, al fine di renderci partecipi ad essa. La morte al peccato non ha altro scopo che quello di aprirci questa partecipazione alla vita del Cristo risorto.
Essere vittime con il Cristo è partecipare in pienezza al Suo sacrificio. In fondo, è vivere pienamente la propria vita cristiana: e prima di tutto, è aprire spalancato il proprio cuore alla carità. Saremo tanto più vittime quanto più ameremo Dio. Evidentemente non potremo progredire in un profondo amore di Dio senza accettare sacrifici, e qui si riaffaccia l’aspetto immolazione. Lo ritroviamo come un aspetto necessario ma subordinato all’amore di Dio, dilatato nell’amore di Dio, collocato nel suo vero senso in tale subordinazione all’amore di Dio. E ci troveremo in quella impostazione positiva che deve sempre darci la giusta prospettiva della nostra vita spirituale: si va verso Dio, si vuol crescere nell’amore di Dio, si cerca soltanto l’amore di Dio.
Potremmo dare maggior rilievo a questo senso positivo di una spiritualità riparatrice, paragonando una spiritualità riparatrice centrata sul dogma del Sacro Cuore, ed una spiritualità riparatrice centrata, come la vostra, sul dogma eucaristico: prospettiva che mi sembra assai più ricca di verità dogmatica. Una spiritualità riparatrice centrata sulla devozione al Sacro Cuore, può rischiare di divenire alquanto antropomorfica e troppo unicamente psicologica. È giusta in sé, ma non comporta forse il rischio di talune deviazioni? Ci si colloca sotto un aspetto psicologico: il Cuore del Cristo, la psicologia umana del Cristo. Se ne deduce una riparazione concepita come: consolare il Cuore del Cristo. È un punto di vista psicologico ed umano al quale bisognerebbe almeno non limitarsi. Si vede il Cristo con una psicologia umana, come persona sofferente che domanda di venire consolata. Bisogna però riconoscere che al Cristo non occorre di essere consolato. Egli è pienamente felice in cielo, e se qualcosa possiamo darGli – ed Egli ci chiede – non è tanto di confortare il suo Cuore come si farebbe con una persona afflitta, ma consolandolo nel vero modo, se posso dir così: ossia lavorando con Lui a quella redenzione del mondo che è la grande cura di Lui, e l’opera che quaggiù è venuto a compiere.
Il modo autentico di consolare il Cristo è lavorare con Lui alla redenzione del mondo e alla salvezza delle anime. E questo appunto facciamo, allorché entriamo in comunione con Lui nel suo mistero redentore: quando viviamo con Lui, in quanto siamo sue membra, partecipiamo al suo sacrificio redentore, sorgente di ogni salvezza. Così noi lavoriamo all’opera sua, alla redenzione del mondo; lavoriamo ad essere nel mondo l’efficacia del suo sacrificio redentore: ed è questo che il Cristo ci domanda. Tutto può riassumersi in una formula: non si tratta di offrirsi vittime al Cristo, si tratta di offrirsi vittime con il Cristo. Offrirsi vittime al Cristo, bisogna pur dire che teologicamente non ha senso: mentre offrirsi al Padre col Cristo, come vittime col Cristo e nel Cristo, questo ha un senso teologico profondissimo, ed è proprio questo che costituisce il valore intrinseco della vostra spiritualità riparatrice, centrata non sulla devozione al Sacro Cuore, ma sul dogma del sacrificio redentore. Vi trovate qui al centro della verità cristiana. Non siete in una devozione, bensì siete poste sul dogma centrale di tutta la rivelazione cristiana (in certo modo, perché parlando altrimenti si potrebbe dire che il centro è la SS. Trinità).
Il sacrificio redentore è per noi il dogma centrale e la fonte di ogni grazia. Trovandosi centrata su questo sacrificio, la vostra spiritualità è al confluente delle nozioni di peccato, di redenzione e di comunione dei santi, e può capirsi soltanto alla luce di queste grandi verità.
Esiste nell’umanità la presenza del peccato. E questo peccato necessita di venir riparato. Ma riparato in che modo? Come si ripara il peccato? Non si ripara offrendo a Dio atti di virtù che lo consolino di peccati commessi altrove da altri. Che cos’è il peccato? Il peccato è lo stato di un’anima distolta da Dio in seguito ad una volontaria ribellione. Riparare il peccato, è ripararlo dov’è: aprire quell’anima alla grazia, affinché la grazia la riconduca a Dio. Il peccato non può essere riparato che dove si trova: nel peccatore. Non ripariamo il peccato con l’offrire, lateralmente, una consolazione a Dio, onde Egli abbia a dire: "Le anime buone mi compensano di quelle cattive". Si ripara il peccato riparandolo dov’è: nell’anima peccatrice. E come potremo riparare il peccato nell’anima peccatrice? Qui appare il dogma profondissimo e spesso capito in maniera troppo superficiale: il dogma della Comunione dei santi.
5. La Comunione dei santi
La Comunione dei santi non è semplicemente pregare gli uni per gli altri: non è offrire dei sacrifici gli uni per gli altri, in modo che Dio attribuisca ad altri il merito che normalmente spetterebbe a noi. La Comunione dei santi – vedete il significato profondo della parola comunione – è appunto il fatto che noi comunichiamo tutti, nel Cristo, ad una medesima vita. Siamo tutti membra del Cristo, viviamo tutti della vita del Cristo. E questa vita del Cristo, che è in Lui col suo pieno potere d’irradiamento, di donazione, come vita risplendente sull’intera umanità, si comunica dal Cristo alle sue membra quale essa è, con la forza d’irradiamento che ha quale vita divina, vita d’amore, vita di dono. La grazia è contagiosa, la Comunione dei santi è il contagio della grazia.
In ogni anima vivente della vita del Cristo, questa vita è come una potenza d’irradiazione, come una presenza nel mondo del potere della grazia di Dio. E la Comunione dei santi è precisamente questo: il fatto che un’anima non può vivere della grazia del Cristo, senza essere nel mondo una presenza, ed una presenza irradiante, di questa grazia del Cristo. È mediante l’intensità della nostra vita spirituale che noi possiamo essere nel mondo mezzi di santificazione, mezzi di redenzione delle anime: con l’essere una presenza della grazia di Cristo nel mondo.
Per conseguenza, se a titolo di membra del Cristo noi entriamo profondamente in comunione con Lui nel suo sacrificio, se ci offriamo generosamente ogni mattina nell’offrire il sacrificio della Messa e nel comunicarci – dico comunicarci nel sacrificio della Messa, ossia comunicando al Cristo nel suo sacrificio –, se veramente noi esercitiamo in pieno il nostro ufficio di membra del Cristo, offrendoci di tutto cuore durante la Messa, accogliendo in noi il Cristo vittima che viene ad unirci a Sé nel suo stato di vittima; e se poi in tutta la nostra vita desideriamo attuare pienamente ciò che abbiamo in qualche modo promesso, a cui ci siamo impegnati assistendo e comunicandoci alla Messa, se operiamo in questo modo, allora siamo al centro del mondo una presenza della grazia redentrice del Cristo, siamo nella Comunione dei santi, nel complesso del Corpo mistico – dei membri cioè che ne fanno parte, e dei membri separati ma chiamati a ritornarvi – e lavoriamo all’irradiazione di questa grazia del Cristo.
Vi è un passo della consacrazione di santa Teresa di Gesù Bambino all’Amore misericordioso, che può farci capire tal cosa. La Santa dice: "Mi offro per accogliere nel mio cuore l’Amore misconosciuto dai peccatori". Questo non vuol dire soltanto: "Essi lo hanno rifiutato, io lo accoglierò per aumentare il mio tesoretto, e così non andrà perduto per Dio, il Quale vedrà che il suo amore non è negletto, e a qualcuno avrà potuto dare ciò che altri aveva respinto". No, non è così! Altrimenti, che sarebbe in tutto ciò del povero peccatore? Certamente il significato profondo che santa Teresa di Gesù Bambino, anche senza specificarlo in quel momento, dà al suo Atto di offerta all’Amore misericordioso, è il seguente: "Il peccatore non si è curato della grazia, io mi offro a riceverla nel mio cuore per viverne come di una grazia di amore irradiante: il quale per questa via ritornerà verso quel peccatore, lo ricupererà e lo rimetterà sotto l’influsso della grazia".
Se noi comprendiamo il profondo significato della Comunione dei santi, che è davvero comunione e mutua irradiazione, e scambio di vita divina, di questa vita del Cristo nelle sue membra, allora comprendiamo il senso profondo di questa spiritualità riparatrice. Noi vogliamo riparare il peccato, ossia distruggerlo dove esso si trova: nei peccatori, e dare a Dio la consolazione di riportagli anime le quali si erano separate da Lui. Ecco il vero modo, la maniera plenaria di riparare il peccato. Così esso è veramente riparato: non ne rimane nulla, e l’anima allontanatasi da Dio è restituita a Lui.
Se vediamo la cosa in questo senso, siamo nel pieno centro della verità cristiana, in pieno centro del dogma cristiano. Ci troviamo in questo dogma del Cristo, Capo dell’umanità; del sacrificio redentore riprodotto nella Messa, sorgente di ogni grazia; della nostra vita-unione al Cristo nel suo sacrificio; della nostra vita-partecipazione alla morte e alla risurrezione del Cristo: e questo in tale Comunione dei santi, per la quale nessun membro del Cristo può vivere della vita di Lui senza irradiarla, ed essere fonte – con l’intensità positiva della propria vita spirituale e della propria carità – di riparazione per le deficienze di carità e i peccati che si trovano nelle anime peccatrici.
Quest’anima ripara prima di tutto e anzitutto mediante quella vita della quale vive: per l’intensità della carità di cui vive. Ripetiamo che ciò non toglie nulla alla necessità della sofferenza e del sacrificio, ma la colloca esattamente al posto che le spetta e nel quale essa appare in tutta la sua profonda verità.
Il sacrificio ha valore solo in quanto è tutto penetrato e imbevuto di grazia e di carità, e apre l’anima alla Carità. Allorché accettiamo un patimento, un sacrificio per la riparazione del peccato, diciamo a noi stessi: "Con questa sofferenza, questa rinuncia, io apro l’anima mia, e per essa le anime dei peccatori, ad una grazia più abbondante". Eviteremo così lo scoglio di una spiritualità troppo centrata sul peccato, su un aspetto negativo. Occorre segnalare questo scoglio perché esso mutila la verità, e induce poco all’entusiasmo; mentre se noi centriamo tutto sull’amore di Dio, se comprendiamo che gli stessi nostri sacrifici e sofferenze assumono il loro significato in tale prospettiva dell’amore di Dio, e sono mezzo per aprirci all’amore di Dio e ad irradiarlo, ci sentiremo assai più portati a compierli generosamente, lietamente e con slancio. Il cristiano deve essere lieto "hilarem datorem diligit Deus". Il cristiano è un redento! Notiamo qual era il pensiero cristiano dei primi secoli: era la gioia. La gioia per quelle anime vissute prima nell’ombra e nelle tenebre di morte, ed alle quali all’improvviso veniva recata una luce, la luce di una verità così pienamente confortatrice, talmente rispondente a tutte le aspirazioni dello spirito. Il cristiano è colui che trova la salvezza. Il cristiano è colui al quale è stata offerta la felicità che può colmare un cuore umano: quella felicità dell’unione con Dio, felicità alla quale tutto in noi aspira.
Il cristiano è un uomo felice, anche attraverso tutte le sue pene e sofferenze. La nostra spiritualità deve essere tutta immersa in questa gioia, che non ha da essere gioia illusoria, ma gioia profonda: una gioia spesso segreta – abitualmente segreta – ma una gioia vera, reale; e una gioia che soltanto può essere vera se accetta il sacrificio e la rinuncia, se in questi sacrifici e rinunce si purifica.
In tal modo possiamo vivere al centro della nostra verità cristiana, anche accentuando le verità del peccato e della redenzione, che sono molto, troppo dimenticate ai nostri giorni. Non si crede più, oggi, al peccato originale: ci si comporta come se esso non fosse esistito. Vi è un certo misconoscimento del peccato, e, per conseguenza, della redenzione e della Croce, che è uno dei grandi vuoti spirituali del nostro tempo. Perciò è estremamente utile ricordarli; e se si rammentano come or ora abbiamo fatto, in questa prospettiva della Comunione dei santi, si trova il punto per "agganciarvi" l’anima moderna, che è molto attirata da tutto ciò che riveste un aspetto di "comunità". Essa vede sovente questa realtà comunitaria sotto aspetti esterni, ma avrebbe precisamente bisogno di venire richiamata verso questa verità: ogni comunità esterna ha la sua sorgente profonda nell’intima comunità delle anime nel Cristo, nel mistero del Corpo mistico.
6. Conclusione
Dicevo cominciando: come potete essere ad un tempo Benedettine e Benedettine del SS. Sacramento? Concluderò dicendo: se voi siete veramente Benedettine del SS. Sacramento... sarete le più Benedettine di tutte le Benedettine, perché voi avete appunto il mezzo di accentrare le fonti dottrinali della vita spirituale; ed è un carattere profondo della nostra spiritualità benedettina (che dobbiamo alla frequenza abituale con la liturgia), quello di centrare la nostra vita spirituale sulla verità rivelata, su ciò che Dio ci ha rivelato di Lui stesso, sulla verità cristiana. Voi avete, nella vostra spiritualità tradizionale, qualche cosa che vi facilita molto di non dimenticare tutto ciò, di non scostarvene; qualche cosa che vi ricolloca continuamente in tale prospettiva, e che sempre vi rammenta questa necessità: di centrare la vostra vita spirituale sulla vita cristiana profondamente vissuta.
U.I.O.G.D.